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La Mennulara



Autore Agnello Hornby Simonetta
Prezzo € 14,00
Pagine 209
Data di pubblicazione 20 settembre 2002
Editore Feltrinelli
Collana I narratori




Sicilia, 1963. Maria Rosalia Inzerillo, più conosciuta come la "Mennulara" (la raccoglitrice di mandorle), è morta. Domestica della famiglia Alfallipe e amministratrice del suo patrimonio, la Mennulara è però soprattutto un mistero per la popolazione del paese. Tutti ne parlano perché si favoleggia sulla ricchezza che avrebbe accumulato, forse favorita dalle relazioni con la mafia locale. Tutti ne parlano perchè sanno e non sanno, perché c'è chi la odia e la maledice e chi la ricorda con gratitudine. Senza di lei Orazio Alfallipe avrebbe dissipato proprietà e rendite. Senza di lei Adriana Alfallipe, una volta morto il marito, sarebbe rimasta sola in un palazzo enorme. Senza di lei i figli di Adriana e Orazio sarebbero cresciuti senza futuro.

Presentazione del romanzo "La Mennulara" (Feltrinelli) di Simonetta Agnello Hornby

Da tanti, troppi anni, in Italia, recensori e critici proclamano su quotidiani e gazzette la morte del romanzo e della poesia. E' un lamento che ormai ha raggiunto cadenze semestrali. E' di questi giorni la notizia che uno studioso è riuscito a stabilire con esattezza l'anno della morte della poesia in Italia: il 1971, se ci tenete a saperlo. E per quanto riguarda il romanzo, sul maggiore quotidiano italiano, un critico-poeta ha recentemente fatto un cospicuo elenco di scrittori scomparsi per dimostrare come narratori di quella razza adesso non se ne fabbricano più. Il bello, in quell'articolo, era che vi erano compresi nomi di autori che, in vita o post mortem, erano stati stroncati dallo stesso poeta-critico. E a niente vale che Ammanniti, Baricco, Cerami, Consolo, Fois, Lucarelli, Maraini, Pariani, Pontiggia, Ravera, Remondino, Rosso, Tabucchi, per citare, in rigoroso ordine alfabetico, i primi nomi che mi passano per la testa, continuino a pubblicare romanzi. Per ognuno di loro si potrebbe parafrasare: "il poveruom, che non se n'era accorto/ andava romanzando ed era morto". Sicché, a forza di annunzi funebri, quando vieni invitato alla presentazione di un nuovo romanzo non sai se stai partecipando a un battesimo oppure a una veglia funebre. Con buona pace delle prefiche, dico che qui non c'è dubbio che stiamo partecipando a un doppio battesimo, di un romanzo e della sua autrice. Simonetta Agnello Hornby, siciliana di nascita, da trent'anni esercita la professione d'avvocato a Londra e tiene a sottolineare come questo suo romanzo sia il frutto quasi casuale del ritardo di un aereo. Il romanzo, dice, l'ho visto formarsi e scorrere come un film in quelle ore d'attesa. Dopo, non mi restava che trascriverlo. Allora, la domanda che sorge spontanea è: se le British Airways fossero state più puntuali, questo romanzo non sarebbe mai stato scritto? Permettetemi di dubitarne. All'autrice forse mancava una qualsiasi pezza giustificativa per se stessa di un parto che in qualche modo riteneva tardivo e azzardato. Ha colto a volo (è proprio il caso di dirlo) il primo pretesto. Perché questo romanzo evidentemente ubbidisce a una tale forza, a una tale urgenza, a una tale necessità di racconto da far pensare che sarebbe comunque venuto fuori. E dimostra, il romanzo, una così inconsueta, per un esordiente, solidità narrativa da far facilmente supporre che non resterà a lungo unico e solo. Bellissimo titolo, "La Mennulara", vale a dire la raccoglitrice di mennuli, mandorle. Il lavoro delle mennulare era duro. Una mezza dozzina di donne di tutte le età, anche adolescenti, disposte a semicerchio sotto a ogni albero a spezzarsi la schiena stando calate a raccogliere le mandorle, che venivano fatte cadere dai rami con magistrali colpi di canna, e a metterle dentro a una coffa di saggina. Stavano chinate così tutto il giorno, dall'alba al tramonto, sotto un sole che spaccava le pietre, con solo un'ora d'intervallo per un misero pasto all'ombra degli alberi. Me le ricordo tutte magre, cotte di pelle, arse; solo di prima mattina scattanti, vocianti, rissose, di lingua salace, spesso viperina perché poi lentamente la fatica le rendeva mute. E alla fine della giornata, con i pugni premuti con forza dietro la schiena, stentavano a riprendere la posizione eretta, tutte avevano sulla faccia una smorfia di dolore. Dato che non sono qui per recensire il libro, non ho il dovere di raccontare il fatto, la trama. Dirò solo che nel primo capitolo, datato 23 settembre 1963, e intitolato "Il dottor Mendicò assiste alla morte di una paziente", la paziente è appunto la protagonista, la cinquantacinquenne Maria Rosaria Inzerillo, meglio nota come "la mennulara", prima ex mennulara appunto, poi serva a quindici anni in casa Alfallipe, poi occulta amministratrice del patrimonio sempre più in rovina della famiglia, poi ancora nume tutelare dell'ex padrona Adriana che addirittura accoglie in casa sua, sempre rispettandola e servendola. Quindi il romanzo, con consumata abilità, si svolge contemporaneamente su due piani temporali. Il primo è quello presente, dove vengono narrati i fatti, assolutamente singolari, che accadono dopo la morte della mennulara; il secondo è quello passato, cioè il tentativo di ricostruzione della vera vita della mennulara, chiamata familiarmente Mennù dagli Alfallipe. Perché gli interrogativi su di lei sono molti. Ad esempio: dove prendeva i soldi per dare un futuro ai figli della signora Adriana? Quali sono stati i suoi veri rapporti con Orazio Alfallipe, marito di Adriana e suo padrone? E poi: che tipo di donna era? Arrogante e scostante, come la ricordano alcuni, oppure pronta e aperta alle necessità di chi si rivolgeva a lei, come sostengono altri? E perché un temuto capomafia la cui sola presenza fa letteralmente pisciare addosso uno dei personaggi, si reca al suo funerale? E' chiaro che la mennulara nasconde un segreto e questo segreto tutto il paese di Roccacolomba, dai borghesi benestanti ai portinai, è intrigato a scoprire. Un romanzo anche corale, dunque. Ma va detto subito a scanso d'equivoco che i componenti del coro non sono solo voci anonime come spesso avviene, ma personaggi disegnati a tutto tondo, ognuno dei quali apporta un pezzetto di verità, della sua verità. Dirò ancora, a proposito della trama, che l'ultimo capitolo è datato 23 ottobre 1963. Vale a dire che la vicenda del romanzo ha una durata, riferendoci al tempo presente del racconto, di appena un mese. Inizia con una morte, si conclude col trigesimo di quella morte. In questi ultimi giorni m'è capitato di leggere qualche recensione del romanzo e tutte mi sembrano finire coll'assomigliare, nel loro affannoso tentativo di definirlo, di circoscriverlo, di palettarlo in qualche modo, alla situazione degli abitanti di Roccacolomba che cercano l'identità della mennulara. Qualcuno ha scritto che si tratta di un "godibile romanzo popolare". Davvero? Popolare come Mastriani o come Liala? I più inclinano a considerarlo un romanzo di "fedele struttura ottocentesca". Domenico Cacopardo, nella sua recensione, scrive che "siamo di fronte a un romanzo visitazionista, che riprende e recupera una poetica desueta, ormai estraniata dalla letteratura isolana".Che viene a significare tutto questo? Che si tratta di un romanzo costruito come un romanzo che non cerca strade nuove ma che strettamente si attiene a ottocentesche regole del narrare? Mi sento perfettamente in consonanza con lo spirito che alimenta il nostro parlamento e il nostro governo se avanzo un legittimo sospetto. A prova di questo sospetto, permettetemi una citazione, poche righe dal sesto sottocapitolo intitolato "Il pranzo di mezzogiorno a casa Fatta" che mi sono parse illuminanti. A proposito, non sarebbe disdicevole intitolare, in un romanzo di stretta osservanza ottocentesca, un sottocapitolo semplicemente "La famiglia Masculo si mangia la pasta scotta" e un altro: "Il pomeriggio del giorno della morte la famiglia Alfallipe prende delle decisioni fatidiche e i fratelli Alfallipe passano la notte ognuno per i fatti propri anziché fare la veglia"? Non sentono che qualcosa non quadra? Ma sull'uso di questi titoli avrò modo di tornare. Ecco la citazione. Palazzo Fatta era costruito nella parte più alta di Roccacolomba, a fianco del monastero dell'Addolorata e rispettosamente vicino all'imponente palazzo dei principi di Brogli, ora disabitato. Ne rimanevano intatte e maestose le mura esterne, la grandiosa facciata barocca dai balconi panciuti, le persiane perennemente accostate e il grande portone di ferro. L'interno era nascosto agli sguardi dei paesani ma non a quelli dei Fatta, dalla cui terrazza si scorgevano i cortili rigogliosi di piante e arbusti selvatici, le finestre delle corti interne squassate dal vento, le aiuole semidistrutte, in uno stato d'abbandono che lasciava presagire la prossima e accelerata metamorfosi del magnifico palazzo in rudere. Mi pare di capire che ci sono due tipi di turisti che si recano a Roccacolomba. Il primo, fino a questo momento il più folto, è costituito da coloro che, fermi sulla piazza, osservano estasiati la grandiosa facciata barocca del palazzo dei principi di Brogli e, ingannati dalle maestose mura esterne, lo reputano un palazzo di solida, tradizionale costruzione. Altri turisti, invece, salgono fin sulla terrazza del vicino palazzo Fatta e dalla terrazza hanno la possibilità di constatare a quale grado di rovina sia arrivato il palazzo dei principi, ormai prossimo a diventare un rudere. Tra questi ultimi turisti c'è stato, ad esempio, Aldo Busi il quale non si è lasciato ingannare dalle apparenze: "l'impianto del romanzo sembra classico nel senso retrivo"- scrive, e prosegue giustamente affermando che invece le cose stanno assai diversamente. Io credo che l'autrice abbia messo in atto una sua personale strategia della derisione, non so e non importa fino a che punto coscientemente, proprio nei riguardi del romanzo ottocentesco. Mi limiterò a segnalare almeno tre piste che portano in questa direzione. La meno evidente è la scrittura. Busi ha notato che l'uso sistematico del passato remoto sembrerebbe ricondurre a un narrare di stampo ottocentesco (vale a dire alla facciata del palazzo dei principi), ma cosa stanno a significare, all'interno di una scrittura che appare volersi muovere come il pacato e placato scorrere di un fiume, quei piccoli gorghi, quei mulinelli che frequentemente increspano la superficie dell'acqua? Mi riferisco all'intervento di costruzioni e parole dialettali che maliziosamente affiorano di tratto in tratto. Sono frasi e parole non messe lì come l'uva passa su un dolce, ma costituiscono parte integrante e insostituibile di una scrittura che trova la forza, la capacità di produrre anticorpi a se stessa. Vale a dire, in metafora, che l'autrice invita il lettore a salire sulla terrazza di palazzo Fatta per osservare qual è la realtà del palazzo dei principi. Un'altra pista, ma questa assai più vistosa, è l'intitolazione dei capitoli. Il romanzo si divide, che più tradizionale di così non si può, in nove giornate tutte debitamente datate e precisamente il 23, 24, 25, 26, 27, 29, 30 settembre, 1 e 23 ottobre 1963. Ogni giornata è suddivisa in un certo numero assai variabile di capitoli o sottocapitoli, se volete: ad esempio, la giornata del 23 ne ha nove, mentre la giornata del 29 ne ha appena uno. Tutti questi capitoli sono tradizionalmente intitolati. Ora, a cosa serviva il titolo nei capitoli del romanzo ottocentesco? Serviva a sottolineare al lettore i punti nodali contenuti nel capitolo stesso. In altre parole, l'autore prendeva per mano il lettore e gli faceva da guida, obbligandolo, in un certo senso, a un preciso percorso di lettura. Se questo è vero, come è vero, allora che senso hanno titoli come questi: "la prova del vestito della nipotina della signora Fatta", oppure "il presidente Fatta medita", oppure ancora: "don Vincenzo Arena è scortese con la moglie"? Attenzione però, perché all'interno di questi capitoli tanto minimalisticamente connotati, accadono fatti rilevanti ai fini dello sviluppo del racconto. Allora? Non c'è una precisa volontà di derisione della forma narrativa ottocentesca? Ma il culmine vittorioso di questa sottile e beffarda strategia, ed è la terza pista, l'autrice lo tocca nelle ultime pagine. Quando cioè l'ex mennulara, l'ex serva, l'ex amministratrice si scopre essere stata, per il dottor Palmeri, archeologo del museo regionale, addirittura un uomo, il signor La Mennulara. Il soprannome diventa, a tutti gli effetti, cognome. E non solo: gli eredi di casa Alfallipe scoprono contestualmente che il signor La Mennulara è un esperto della ceramica attica della Magna Grecia. Ma lo sberleffo non termina qui. Alla mennulara verrà infatti intitolata una manifestazione musicale di grande rilievo. Un'ulteriore, imprevedibile trasformazione. E ci sono altre piste di questa strategia dell'irrisione, per esempio quelle nascoste nel capitolo intitolo "Epilogo", che è l'accenno a ciò che capitò qualche anno dopo. Cito il paragrafetto dedicato a Gianni Alfallipe. Gianni visse una vita paga e serena con la moglie e il figlio Orazio, a Catania, e fece una discreta carriera universitaria. Non sospettò mai che Orazio non fosse figlio suo, ma di un carissimo amico di famiglia, collega della moglie. Palazzo Alfallipe è rimasto intatto, soltanto un poco più malandato. Gianni e la moglie ne occupano il piano nobile, quando vengono a Roccacolomba per le vacanze e per le manifestazioni musicali, invitando spesso qualche amico. Il piccolo Orazio fu concepito nello studio dell'avvocato Alfallipe, sul divano di fronte il camino. Ora, considerato che Gianni è un personaggio marginale e che di sua moglie viene fatto solo qualche superficiale accenno, uno potrebbe domandarsi quale utilità abbia questo paragrafo con la rivelazione dell'adulterio e della nascita di un figlio adulterino. A prima vista, verrebbe da dire nessuna. Ma l'autrice, rivelando il luogo dell'adulterio, vale a dire lo studio di Orazio Alfallipe, misterioso spazio deputato di tutti gli eventi della casa, opera una vera e propria damnatio loci, o se volete, una sacrilega damnatio memoriae. E questa volta gioca a carte scoperte. Il mio vuole in sostanza essere un avvertimento ai lettori: prendete in mano questo libro con estrema cautela, non abbandonatevi fiduciosi al suo apparentemente tranquillo narrare. A leggere questo romanzo si prova un autentico godimento, esperienza certamente inconsueta con la nostra letteratura. Attenzione però, siate vigili, perché ci sono imprevedibili trabocchetti, sornioni depistaggi, improvvisi colpi di coda ai quali non si è preparati. In effetti, prima ancora d'essere un romanzo costruito con estrema abilità e compatta, matura sapienza, "La Mennulara" è un delizioso, raro esercizio del gusto e della intelligenza, un finissimo gioco a nascondere.

Andrea Camilleri - Roma, libreria Feltrinelli (via del Babuino), 20.10.2002



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