È conosciuto dal grande pubblico come il padre del commissario Montalbano. Ma prima del suo straordinario successo come scrittore, Andrea Camilleri è stato produttore televisivo, regista teatrale, sceneggiatore, insegnante al Centro sperimentale di cinematografia di Roma e all’Accademia nazionale d’arte drammatica. Il grande cinema italiano ha accompagnato la sua lunga vita fin da quando il proprietario del cineteatro di Porto Empedocle domandava agli spettatori che rumoreggiavano: ‘Che vulite?’…
A metà degli anni Cinquanta, ricoprii per la prima e unica volta il ruolo di autore cinematografico.
Ho conosciuto Michelangelo Antonioni grazie alla mia amica Monica Vitti. E
ho anche partecipato alla scrittura di L’avventura. Michele aveva bisogno che qualcuno adattasse i dialoghi in dialetto siciliano e mi capitò perfino di lavorare in parallelo alle riprese. Quando il set era a Lisca Bianca, ricevevo nuovi dialoghi che non avevano nulla a che fare con il testo originale. Prima o poi sarebbe utile sviluppare un confronto tra film e sceneggiatura, perché tra l’uno e l’altra spesso non c’è alcun rapporto. Antonioni – semplicemente – non girò il film che aveva scritto. Tagliò scene fondamentali: e non per mancanza di mezzi, ma per scelta. Il racconto gli si modificò tra le mani via via che girava. Non era un improvvisatore come Fellini,
però intuiva che la storia stava cambiando e che doveva assecondarne i
mutamenti. Non a caso L’avventura rappresenta un passaggio fondamentale della sua maturazione artistica.
Monica aveva avuto un’idea e un giorno mi disse: «Andrè, scrivetemi un soggetto comico. Tu e Michele». Noi acconsentimmo, consapevoli che lei sarebbe stata di fatto la terza autrice. Monica ha sempre voluto metter becco in tutto.
Esistono due tipi di comicità: quella alla Georges Feydeau e quella alla Jacques Tati. O apri la porta, sorprendi il marito in mutande insieme all’amante e quello riesce a scappare, oppure i toni sono quelli della “poesia” di Tati e Chaplin. Io e Monica volevamo praticare il registro alla Feydeau,
mentre Michele era estraneo a quel tono. Alla fine completammo il soggetto. Lo
intitolammo A donna che t’ama proibisci il pigiama. E Antonioni ottenne la disponibilità di un produttore.
Qualche tempo dopo, mentre eravamo tutti e tre a cena, Monica mi propose di girare il film. Michele non se la sentiva più, ma si dichiarò disponibile a farmi da aiuto. Lui si sarebbe occupato della regia vera e propria, e io avrei badato alla tecnica di recitazione che era il mio mestiere. Alla fine declinai. Forse per paura. Tanto più che non avevo ancora fatto televisione. Il punto non è la tecnica di regia, perché i movimenti della macchina si imparano in pochissimo tempo. Il problema è che cinema vuol dire «pensare per immagini» e quel tipo di pensiero mi mancava. Ero certo che mi sarei lasciato trascinare dal teatro, che avrei fatto un film teatrale, privo di senso dopo il neorealismo. E poi, lavorare da dilettante non mi ha mai interessato. Per queste ragioni declinai l’offerta e proposi la regia di Strehler di cui, però, il produttore temeva le pretese. Così l’operazione non andò in porto.
Il registro comico, come la letteratura di genere, richiede di essere declinato con estrema accortezza. In Italia sono state realizzate commedie deliziose a cavallo fra i Trenta e i Quaranta, al tempo dei «telefoni bianchi», con grandi attori come Sergio Tofano ed Elsa Merlini,
capaci di esprimere leggerezza e di tenersi a distanza dagli eccessi. Lo stesso
si può dire della commedia all’italiana, che ha avuto momenti di pura invenzione
con Il sorpasso di Risi, alcuni lavori di Salce o gli eccellenti film di Monicelli. Eppure quel cinema non riuscì a conservarsi immune da reiterazioni e cliché. Ad esempio si insistette troppo su Sordi, su certe sue caratteristiche negative, trascurando qualità e «virtù» comica.
Non sono sostenitore di un’arte penitenziale. Non credo che, per realizzare un’opera di spessore, si debba per forza indagare gli abissi dell’animo umano.
Serenata a Vallechiara o Tom, Dick e Harry sono commedie che hanno lo stesso valore dei grandi film tragici. Occorre evitare la ripetitività del genere: lo «sbracamento», per così dire, nell’uso degli schemi narrativi. Fino a quando l’hanno praticata registi rigorosi, la commedia all’italiana è stata commedia di costume che – in alcune sue espressioni – è riuscita a tradursi in caustica critica della società. E tuttavia, se dovessi fare un’antologia del filone, opererei scelte severe.
Poi – inaspettato – arrivò il Sessantotto. Gli studenti occuparono il Centro sperimentale e cacciarono i professori. Per eccesso di lavoro avevo lasciato la cattedra un paio d’anni prima.
Una sera, mi venne a trovare Gian Maria Volonté. L’avevo conosciuto quando
studiava all’Accademia d’arte drammatica e avevamo lavorato insieme in radio.
L’ho sempre stimato perché era capace d’incredibili scarti recitativi. Basti
pensare a com’è passato da Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto
a Il caso Mattei. Ancora oggi lo giudico uno dei più grandi attori che il cinema italiano abbia mai avuto. Ci capitava spesso di discutere di politica. Lui era serissimo e buona parte dei suoi introiti andava al Partito, io ero un po’ meno… ortodosso.
Quella sera Gian Maria mi propose di tornare a insegnare al Centro occupato. Ovviamente, non potevo rifiutare e così ripresi l’attività di docenza. Non senza difficoltà.
Nell’atrio c’era un grande orologio che segnava l’inizio e la fine delle lezioni. Quando arrivai, lo trovai rotto. Allora scrissi su un tazebao: «Domani, alle ore 9.00, Andrea farà lezione». Il giorno dopo gli studenti si presentarono in aula intorno alle 11.00. La stessa cosa accadde il giorno seguente. Il terzo, scrissi sul tazebao: «Differenza tra un rivoluzionario e un cialtrone. Il rivoluzionario prende l’orologio che segna il tempo, lo rompe e si presenta alle nove spaccate. Il cialtrone rompe l’orologio e si presenta alle undici».
L’indomani erano a lezione alle nove in punto.
Andrea Camilleri (a cura di Tommaso De Lorenzis)
(brano pubblicato su Il Messaggero del 30.8.2011)
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