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I colori della nostalgia

ANDREA CAMILLERI, L'odore della notte, Palermo, Sellerio, 2001, pp. 225, E 9,30

di Francesco Erspamer

 

Uno degli argomenti su cui Gramsci ritornava più frequentemente nei suoi appunti di prigionia era il rapporto fra passato e presente — poi infatti il titolo assegnato dai curatori della prima edizione a uno dei sei volumi dei Quaderni del carcere. La domanda è semplice: "Quale deve essere l'atteggiamento di un gruppo politico innovatore verso il passato, specialmente verso il passato più prossimo?". Le risposte sono invece problematiche, se non contraddittorie. Gramsci era pienamente consapevole dell'ingombrante ostacolo che il tradizionalismo rappresentava per lo sviluppo del paese, anche nella sua forma sublimata di grande patrimonio culturale; da qui la sua condanna come "conservatori e reazionari" degli intellettuali "cristallizzati", quelli che "pensano di potersi riallacciare al passato". Però era anche un umanista, convinto del pregio di quel patrimonio: "Ma il passato è perciò da gettar via?". La soluzione che propone è tipicamente dialettica, un compromesso: "La forza innovatrice non può non essere già immanente nel passato, non può non essere in un certo senso essa stessa il passato, un elemento del passato, è essa stessa conservazione-innovazione".

L'incapacità di uscire da questo ossimoro, di stabilire un rapporto produttivo ma distaccato rispetto al tempo andato (elaborare il lutto, storicizzare), ha continuato a pesare sulla cultura italiana. Scriveva Saba in una delle prime Scorciatoie: "Gli italiani non sono parricidi. Ed è solo col parricidio (uccisione del vecchio) che si inizia una rivoluzione". A partire dagli anni Novanta la situazione si è notevolmente acutizzata: la fine del comunismo ha sollevato gran parte della sinistra dalla necessità di essere o almeno fingersi progressista, mentre globalismo e nuove tecnologie, rapidamente invecchiando i correnti sistemi di produzione e pensiero, hanno spinto chi fosse o si sentisse sorpassato a trovare sicurezza nel rifiuto di ogni cambiamento e nel culto del passato, in particolare quello "più prossimo". Un po' paradossalmente, proprio mentre il design imponeva nel mondo il made in Italy come laboratorio del "nuovo" e il paese entrava, non solo formalmente, in Europa, lasciandosi alle spalle strutture e comportamenti sociali arcaici, si affermava in ampi settori sociali una retorica della nostalgia, astratta e consolatoria ma non per questo meno influente nel plasmare l'attuale autorappresentazione degli italiani. Il parricidio invocato da Saba in un anno topico, il 1945, è oggi non solo impossibile ma praticamente impensabile. Verrebbe inteso come un atto di alto tradimento, un attacco al cuore ovviamente antico della patria. Ci ha provato Antonio Moresco: "Noi non vogliamo costruire. Vogliamo esordire! Non vogliamo comunicare. Vogliamo esordire!", ha scritto in un libro di scritti visionari, Il vulcano, e ripetuto in tutta la sua opera. Guadagnandosi il linciaggio o il silenzio della critica.

Di primaria importanza mi pare dunque l'esplorazione di ciò che ho definito la retorica della nostalgia, ossia le forme narrative e le formulazioni ideologiche in cui si organizza il discorso apologetico del passato e in cui, specificamente, si manifesta il compiacimento epigonale oggi dominante in Italia. In questo articolo ne analizzerò il funzionamento in un caso concreto ed esemplare, quello dell'autore italiano di gran lunga più venduto, Andrea Camilleri, e del suo personaggio più popolare, il commissario Salvo Montalbano, protagonista fino a oggi di sei romanzi e due raccolte di racconti, oltre che di vari sceneggiati televisivi e di un'avventura in CD-ROM. Un ideale terreno di osservazione: un serial giallo ambientato nell'attualità tende infatti, più di altri generi e come un tempo il feuilleton, a rappresentare orizzonti d'attesa assestati e accettati dal pubblico.

Il caso Camilleri è in questa prospettiva doppiamente interessante. In primo luogo perché il sussiego dimostrato nei suoi confronti da gran parte della critica letteraria ufficiale rivela non solo l'ansia di difendere i propri esercizi solipsistici da ogni fattore inquinante (nella fattispecie il mercato e il pop) ma una persistente inattitudine a misurarsi con la vera contemporaneità (in scuole e università si va avanti senza imbarazzo a chiamare letteratura contemporanea anche quella di trenta, sessanta, novanta anni fa, da Svevo e Pirandello a Moravia e Morante). In secondo luogo perché a sua volta Camilleri crede in questi canoni e gerarchie culturali, condivide un atteggiamento snobistico verso il presente, e svolge nei suoi romanzi una funzione nostalgica e rassicurante.

Con maggiore attenzione mi soffermerò sull'Odore della notte, la più recente delle inchieste di Montalbano. Pubblicato all'inizio della scorsa estate, il romanzo non ha potuto essere oggetto di analisi nelle due monografie finalmente uscite in questi ultimi mesi su Camilleri, entrambe interessanti e documentate ma abbastanza compilative e soprattutto troppo timide sia nel rivendicare a Camilleri e al romanzo "di genere" da lui praticato il rilievo che loro spetta, sia nell'analizzare a fondo le ragioni del loro successo. È sintomatico che il più ampio e ambizioso dei due saggi, quello di Simona Demontis, senta subito l'esigenza di porsi (sono le sue prime due citazioni) sotto la protezione esegetica indubbiamente autorevole ma un po' datata di Dionisotti e Contini, e che tutti i suoi successivi, numerosi punti di riferimento teorico, senza una sola eccezione, risalgano al più tardi agli anni Settanta — Chatman, Frye, Genette, Sklovskij, Segre. Inevitabile che Demontis inclini verso un'analisi prevalentemente narratologica, mancando di affrontare questioni a mio parere più urgenti quali il processo di "sdoganamento" dei generi letterari, il postmoderno, il valore ideologico dell'opera di Camilleri.

Eppure un illuminante indizio, involontario come tutti i veri indizi devono essere, lo aveva fornito Vittorio Spinazzola in un articolo apparso su Tirature 2001. Sensibile, a differenza di quasi tutti i suoi colleghi, ai giudizi del mercato, Spinazzola cercava di mascherare la sua scarsa congenialità per Camilleri mettendo in risalto la positività del suo messaggio politico e morale: Montalbano è "un eroe della porta accanto, sorretto da una deontologia infallibile"; attraverso di lui, "il punto di vista narrativo riflette una somma di valori etici e civili che ogni buon democratico non può non sentire suoi". La descrizione delle doti morali di Montalbano è poi frettolosa, ma significativamente include, accanto alla "indignazione per le malversazioni subdole o conclamate" e all'immancabile "disprezzo per l'indifferentismo qualunquista", anche la capacità di incarnare "un'umanità media cui non mancano difetti e debolezze temperamentali" e l'inclinazione "sia alla buona tavola sia alle buone letture".

Spinazzola coglie il punto essenziale: il successo di Montalbano è dovuto al fatto di rappresentare uno dei possibili stereotipi positivi dell'italiano, almeno secondo un'ottica di sinistra. Egli è infatti al tempo stesso, e senza contraddizione, medio (cioè normale, popolare) ma anche colto e gourmet (dunque parte di un'élite). In altri tempi sarebbe stato un buon esempio di intellettuale organico. Oggi segnala lo spostamento del concetto di gusto — nella sua accezione settecentesca e kantiana di sentimento-giudizio — da criterio e strumento di differenziazione a criterio e strumento di omologazione, come il sistema della moda conferma. Ovviamente Montalbano rifugge costantemente l'omologazione, affermando e dimostrando a ogni possibile occasione il suo anticonformismo: ama mangiare in piccole trattorie fuori mano; vanta la sua ignoranza per il funzionamento non solo del computer ma anche di un banale videoregistratore; legge molto, i classici ma anche autori raffinati come Denevi o Pizzuto; sospetta delle istituzioni, è antiamericano e no-global; detesta la televisione e la cultura di massa. Ma tutte queste caratteristiche non sono affatto originali: collettivamente dipingono il cliché, o almeno una diffusa versione di esso, del "buon democratico" dell'Italia di oggi. Il gioco che abilmente conduce Camilleri — ed è il vero aspetto consolatorio di questa sua nuova forma di romanzo —, è di permettere a un'ampia massa di lettori di identificarsi con il suo protagonista, e contemporaneamente di garantire loro, attraverso quella stessa identificazione, la loro singolarità, la loro originalità. L'aristocratico di massa.

"Ma tu chi sei? Uno sbirro? Un marxista? Un gourmet?", viene chiesto a Pepe Carvalho, l'investigatore ideato da Manuel Vázquez Montalbán (e una delle letture preferite di Montalbano) nel primo romanzo del ciclo, Tatuaggio. E Vázquez Montalbán gli fa rispondere: "Un ex-sbirro, un ex-marxista e un gourmet". Camilleri non è interessato a far compiere al suo protagonista un'analoga apostasia: se interrogato in proposito Montalbano avrebbe replicato, senza alcun disagio, di essere restato sia un gourmet che uno sbirro che un marxista. La sua fedeltà al passato, indifferente a ogni smentita storica o delusione personale, è la sua forza, la sua identità e, come dicevo sopra, il suo fascino.

L'odore della notte inizia in questa chiave. Che i suoi "colori" siano quelli "della nostalgia" è annunciato nel risvolto di copertina e l'atteggiamento antagonistico del commissario nei confronti del presente, la sua "senilità", è proclamata fin dalla prima pagina con una delle più classiche rimostranze contro la modernità, la lamentazione sulla fine delle mezze stagioni: "Dove erano andate a finire? Travolte anch'esse dal ritmo sempre più veloce dell'esistenza dell'omo, si erano macari loro adeguate: avevano capito di rappresentare una pausa ed erano scomparse, perché oggi come oggi nisciuna pausa può essere concessa in questa sempre più delirante corsa". Camilleri sta riciclando un tema che aveva affrontato un paio di anni prima in un articolo per la Stampa, ripubblicato proprio in quei giorni in una deludente raccolta di Racconti quotidiani. È perciò curioso che poche settimane dopo Giuseppe Pontiggia, che evidentemente non aveva letto né l'uno né l'altro, annunciasse sulle pagine del Sole-24 ore non solo la fine delle mezze stagioni, cosa a suo dire ormai appurata ("un'evidenza di massa" finalmente confermata dai climatologi), ma anche la sparizione del luogo comune della fine delle mezze stagioni (una fine al quadrato): "Forse per questo il luogo comune viene abbandonato da tutti, perché a nessuno piace abitarlo". Non voglio qui soffermarmi sulla debolezza della dimostrazione di Pontiggia, in gran parte svolta sul filo del paradosso, né sulla discutibilità delle sue fonti di informazione scientifica, temo giornalistiche; e neppure intendo ricordare che il dibattito su questo argomento sia antico, quasi sedimentato nella nostra cultura, come Pontiggia e Camilleri certamente sanno ("Qui in Italia è voce e querela comune che i mezzi tempi non vi son più", annotava nel 1683 Magalotti, e Leopardi citò il passo nello Zibaldone).

Mi interessa invece notare come la deprecatio temporum abbia perso, per gli intellettuali italiani di oggi e soprattutto per quelli di sinistra, qualsiasi connotazione ironica o negativa, assumendo anzi le forme più mirate e sottili dell'oraziana laudatio temporis acti se puero: la quale non si limita a denigrare la decadenza dei costumi correnti e a evocare l'età dell'oro, ma la colloca in un momento molto più vicino e conosciuto, il "passato più prossimo" di cui diceva Gramsci, il tempo della propria giovinezza, eventualmente anche l'oggi, purché congelato nel suo stato attuale, a prevenire ulteriori trasformazioni. Un caso esemplare di pochi anni fa è il libro-manifesto Dopo la fine di Giulio Ferroni: un'appassionata e ansiosa teorizzazione dell'Unbehagen in der Kultur e delle strategie per liberarsene. Ferroni rifiuta "il troppo e vano", "la potenza del presente", "la creazione energetica del "nuovo""; sollecita la coscienza di "essere "dopo""; auspica un'"ecologia letteraria", un'"ecologia della comunicazione", una "letteratura postuma". Non è una posizione originale; Raymond Williams vi avrebbe riconosciuto la fisionomia della structure of feeling pastorale da lui studiata in The Country and the City, un fenomeno che con la sua frequente riemersione nella cultura europea testimonia, piuttosto che un vero desiderio di ritorno al passato, una resistenza al cambiamento in atto. Emblematico questo passo di Ferroni: "Il pessimismo e l'ansia della fine tendono a proteggere la vita, a salvarne i fondamenti, ad allontanare l'apocalisse, molto più delle ambizioni positive, delle espansioni vitalistiche che vendono l'illusione (questa sì catastrofica) di un arricchimento perpetuo della vita stessa". L'arroccamento in difesa del "prima", dei suoi equilibri e del suo ordine rassicurante non potrebbe essere più evidente, ma Ferroni non si sente un conservatore, un intellettuale "cristallizzato"; al contrario, la sua motivazione è "un'essenziale e inappellabile responsabilità verso il futuro". Come se un futuro su cui incomba l'apocalisse possa essere altro che un presente protratto ad libitum, retrospettivo e tradizionale, paralizzato dall'ansia della fine. Perché tutto cambi, bisogna che tutto rimanga com'era.

Un elenco di sintomi dell'apocalisse lo fornisce Montalbano nell'Odore della notte: "Secondo voi lo smog non conta, l'elettrosmog non conta, l'uranio impoverito fa bene alla salute, le ciminiere non fanno danno, Cernobyl ha incrementato l'agricoltura, i pesci all'uranio o quello che è nutrono meglio, la diossina è un ricostituente, la mucca pazza, l'afta epizootica, i cibi transgenici, la globalizzazione vi faranno campare da Dio, l'unica cosa che fa danno e ammazza milioni di persone è il fumo passivo". Rispetto a un'esternazione molto simile di un anno prima, nella Gita a Tindari, la lista si è arricchita di ossessioni di moda quali mucca pazza, OGM e ovviamente globalizzazione, ma conserva esempi di comprovati disastri del recente passato: lo smog (una preoccupazione degli anni '50 e '60, quelli del Calvino della Nuvola di smog), la diossina (Seveso 1976), Cernobyl (1986). Tutti temi dei quali il lettore ha certamente sentito parlare in TV o sul giornale, ma che posti in sequenza come qui avviene, non segnalano problemi concreti ma un malessere generale. Più precisamente quello che i sociologi chiamano un chosen trauma, evento esiziale e fondante sul quale una collettività costruisce la propria identità: solo che in questa circostanza si tratta di una somma di traumi minori, ipotetici o altrui, traumi-citazione vissuti in modo riflesso, vicario, attraverso i media. Un chosen trauma dell'immaginazione, non dell'esistenza o dell'esperienza, costruito con un processo di confezione d'ingredienti diversi e difficilmente amalgamabili: e che di conseguenza genera un'identità molteplice, isterica. Il medesimo tipo d'identità che in modo più leggero notava Tiziano Scarpa in Che cos'è questo fracasso?: "Per la televisione, la radio, la stampa, l'Italia è un'eterna ripetizione degli ultimi cinquant'anni: si fa rivedere per l'ennesima volta l'urlo di Tardelli dopo il gol alla Germania; si riassumono i miracoli di Padre Pio; si rimette in onda il primo passaggio televisivo di Rita Pavone: provocando, fra l'altro, stranissime sovrapposizioni di ricordi fra adolescenti e anziani, memorie condivise da generazioni diverse". Forse più che della sovrapposizione dei ricordi di due o più generazioni, si tratta della memoria di una generazione lunga, paralizzata dal copyright dell'avanguardia che si è assicurato il Gruppo '63 e dal monopolio della rivolta che si è assicurato il '68, insomma dall'incapacità dei figli di uccidere i padri, dal loro disinteresse a esordire.

Si legga l'episodio, ininfluente dal punto di vista dell'intreccio, della visita del commissario alla trattoria "Giugiù 'u carritteri". Il percorso di avvicinamento è difficile, iniziatico: benché si tratti di un nuovo ristorante, è stato posto fuori mano, raggiungibile solo per mezzo di una "trazzera autentica, di quelle che non esistevano più, tutta fossi e pitruna", impossibile da trovare se sfuggisse l'elusiva insegna del locale, "scritta a mano su un pezzo di tavola attaccata a un palo della luce". Forse senza volerlo, Camilleri sta creando quella che in termini postmoderni è una "zona" (zone), spazio sottratto alle leggi fisiche del tempo: la mulattiera di quelle che non ne esistevano più è un chiaro segnale di questo sconfinamento. Le caratteristiche del ristorante lo confermano: si tratta di una "casuzza solitaria", "malamente intonacata, senza luci al neon". Lo scollamento temporale è così forte che allo stesso Montalbano "venne il sospetto di una messinscena di Giugiù che si fingeva carrettiere e invece guidava auto di Formula 1": una battuta ironica che palesa, a livello del personaggio, la difficoltà di riconoscere ciò che è davvero autentico; e a livello dell'autore la perplessità di fronte alle ambiguità del postmoderno, che ha inglobato e commercializzato anche il desiderio del passato e smascherato la nostalgia come un prodotto di consumo qualsiasi. A superare l'impasse arriva, provvidenziale, il più arcaico dei sensi, l'olfatto, gerarchicamente oppresso da vista e udito dall'inizio della modernità occidentale (almeno nelle concezioni vulgate da Febvre e McLuhan, entrambi tradotti in Italia negli anni Settanta) e ora l'unico che, proprio per la sua primitività, sia in grado di liberare l'uomo dalle insidie e dalle falsificazioni del mercato e dei suoi strumenti tipicamente audiovisivi (pubblicità, design, immagine), consentendogli di distinguere all'istante, e senza possibilità di errore, ciò che è inalterato e incontaminato; e il tono della frase diventa, coerentemente, quello dell'elegia: "E in quel momento, leggio leggio, gli arrivò col venticello della sera un sciauro che gli fece allargare le nasche: sciauro di cucina genuina e saporita, sciauro di piatti cotti come 'u Signiruzzu comanda". Per Camilleri, ancor più che per Montalbano, è una liberazione: l'odore non evoca proustianamente un ricordo, il che avrebbe comportato una fuga nel passato e una tensione; passato e presente coincidono: c'è un solo modo di cucinare, genuino e saporito, quello originario, deciso e fissato per sempre da 'u Signiruzzu Dio.

"Giugiù 'u carritteri" è un ristorante esclusivo: come detto disdegna qualsiasi pubblicità, ha pochissimi posti a sedere, è gestito unicamente da una coppia, la sua cucina è eccellente; e tuttavia sa miracolosamente mantenersi popolare, contro ogni logica di profitto: i tavolini sono tutti prenotati ma il conto che il commissario paga è "una miseria". La medesima cosa gli era capitata altre volte in precedenza, per esempio all'osteria "La cacciatora" nella Voce del violino. È il consueto modo in cui Camilleri risolve una basilare contraddizione: per mantenere una zona autenticamente popolare senza però popolarizzarla (il che la esporrebbe, nel mondo d'oggi, al rischio di un appiattimento consumistico e di un cedimento al mercato), deve caricarla ideologicamente, ricorrere alla retorica dell'origine e della fedeltà alle abitudini e ai luoghi, evocare il mito anni Settanta dell'economia a misura d'uomo, dello small is beautiful, come asseriva il titolo di un libro cult di allora non a caso in buona parte dedicato a lamentare il declino morale e spirituale dell'Occidente. Un ricatto culturale, al quale aveva per esempio ceduto Tanino nel Ladro di merendine: cuoco superlativo, aveva preferito restare a lavorare per un modesto stipendio in una trattoria di Mazàra piuttosto che essere pagato "a peso d'oro" a Parigi o in un qualsiasi grande ristorante: "Tanino dice che lui è di qua e qua deve morire".

Del tutto coerente, nella Gita a Tindari, il modo in cui viene affrontata la questione dell'immigrazione albanese: "Ci sono albanesi che scappano per tornarsene in Albania. A conti fatti, hanno scoperto che si trovavano meglio a casa loro". Il problema dell'incrocio di culture non viene neppure sfiorato, e tanto meno quello del razzismo più o meno latente nella società italiana. La soluzione, altamente gratificante benché immaginaria, è raggiunta trasformando la parte forte, ricca, ambita, ovvero l'Italia, nella parte debole, rifiutata; e gli strumenti per operare questo conveniente ribaltamento sono l'esaltazione delle "radici" e la denigrazione del modello di sviluppo occidentale. L'ostilità al "nuovo" si rivela per quello che, sempre, è: ostilità all'altro.

Malgrado la clausola esonerativa reiterata dell'autore nella nota che conclude ogni romanzo — che fatti e personaggi siano tutti "inventati di ràdica" —, i riferimenti alla realtà, o meglio alla cronaca, sono frequenti, e in numero crescente nei romanzi più recenti. Rimandi precisi, mirati, che risaltano sullo sfondo di una città inventata, Vigàta, e di una Sicilia sterilizzata da ogni diretta implicazione della mafia. Fra i numerosi esempi possibili, le trasparenti allusioni a Sofri ("qualcuno che con straordinaria dignità sopportava da oltre un decennio processi e carcere per un delitto palesemente non commesso né ordinato"), Caselli ("piemontese e in odore di comunismo"), Mastella ("un arrinanzato, un parvenu, un semianalfabeta e mezza calzetta"). Sono digressioni gratuite, prive di qualsiasi necessità diegetica, discorsiva o psicologica. La loro tendenziosità non è dissimulata, al contrario; e anche la complessiva scelta di campo è dichiarata: quasi in ogni romanzo Montalbano e il narratore ribadiscono il loro disprezzo per l'opinionista della televisione di centrodestra, "faccia a culo di gallina", e la loro stima per il giornalista della rete di opposta tendenza, Nicolò Zito, "faccia intelligente, rosso di pelo e di pinsèro". Ma non per questo le battute diventano profonde, persuasive, né ambiscono a formare un programma politico. Non fa differenza che si tratti del genocidio in Ruanda o della "tolleranza zero" di Rudolph Giuliani. L'uno e l'altra sono notizie in pillole, ricavate dai media e ulteriormente semplificate, eventi completamente virtuali e intercambiabili che acquisiscono rilevanza solo nella misura in cui, trasformandosi in marche ideologiche, permettono al loro portatore di definirsi e a due interlocutori di riconoscersi. Non mirano a convertire ma a confermare. Alla fine è ancora una questione estetica, di gusto. Si parla male, senza saperne nulla, di uno dei più popolari sindaci di New York (ma repubblicano), oppure si deride l'"inquietante capigliatura" di Radovan Karadzic (ma senza menzionare le responsabilità del governo iugoslavo nell'eccidio in Bosnia), per la stessa ragione e con la stessa leggerezza con cui si considera un'eresia il parmigiano sugli spaghetti alle vongole: perché con queste affermazioni si stabilisce un'appartenenza, si fa della civil conversazione. Sono formule di galateo: fondamentalmente arbitrarie e indimostrabili come ogni regola di comportamento e da accettare dunque pregiudizialmente, ma una volta accettate efficacissime nel costruire un senso, un sentimento del sé.

"Montalbano a volte si sentiva irrimediabilmente sorpassato dai nuovi modi di vivere, era un tradizionalista", si legge nel quarto romanzo della serie, La voce del violino. È un'ammissione che funziona a su vari piani: su quello del personaggio per definirne la psicologia (la "senilità" del commissario); su quello della narrazione per definirne l'ideologia (il rifiuto del "nuovo"); e su quello del genere letterario per definirne i modelli. Quest'ultimo piano è particolarmente importante: a differenza di altri autori di romanzi gialli di questi anni (a cominciare da Vázquez Montalbán), Camilleri ha scelto di flirtare con il modello ottocentesco del feuilleton. La sua nostalgia del passato si estende insomma alla tradizionale concezione del romanzo popolare, al quale rimandano sia l'uso del dialetto (non perché i romanzi popolari fossero in dialetto ma perché il dialetto è in sé popolare), che la costruzione della trama (con soluzione finale di tutti i nodi), che la caratterizzazione dei personaggi minori (spesso caricaturali: Catarella, Ingrid, Bonetti-Alderighi), che il diffuso moralismo anni Cinquanta (l'improbabile monogamia del commissario, le sue battute politically incorrect), che l'assenza di scene hard-boiled. Questa "poetica dell'inattualità" era stata esplicitata in una parodia del genere splatter inclusa negli Arancini di Montalbano: a disagio davanti a un truculento delitto e a un episodio di antropofagia (peraltro una puntuale allusione al gruppo dei "cannibali"), Montalbano interrompe ex abrupto l'azione e telefona al suo autore, assumendo dunque un ruolo extradiegetico: "Non mi piace questo racconto. Non voglio entrarci, non è cosa mia". Significativa l'ironica spiegazione che Camilleri dà al suo personaggio: "Sto cercando d'aggiornarmi". A livello di genere letterario così come di contenuti etici la novità è sempre perturbante.

Una conferma nelle ultime pagine dell'Odore della notte, nell'unico altro caso in cui Montalbano si trova in una storia "non sua". Qui gli accade di rivivere, come in un protratto déja vu, un noto racconto di Faulkner, "letto tanti anni avanti". È un situazione adatta a Dylan Dog, "l'indagatore dell'incubo", più che a Montalbano; ma questa volta il commissario non si sottrae, non fa appello all'autore e allo scarto metaletterario. Camilleri, lo si sarà già notato, è consapevole degli artifici del romanzo postmoderno e talvolta ne fa uso — in questa occasione si potrebbe parlare di metalessi o di proiezione ipodiegetica. Ma si tratta sempre di assaggi, di ammiccamenti al lettore, privi di quella coerenza e di quella profondità che rischierebbero di destabilizzare non solo una struttura forte dell'organizzazione culturale quale la tradizione (occidentale, nazionale, locale), ma magari anche la rete di connivenze, convenzioni e luoghi comuni su cui si regge la nomenklatura intellettuale italiana. Niente postmoderno dunque, ma una mera modernità-dopo, una modernità postuma. L'inquietante simmetria con il racconto di Faulkner non ha affatto lo scopo di scardinare il senso della realtà ipotizzando l'esistenza di mondi paralleli, come avrebbe suggerito Tiziano Sclavi. Ciò che interessa Camilleri, piuttosto, è "creare un'atmosfera": riesumare metonimicamente il clima culturale e psicologico di fine anni Venti, in cui era stato scritto e ambientato A Rose for Emily, o quello del dopoguerra, in cui Camilleri lo aveva letto (nella raccolta Questi tredici, Torino, 1948, precisa la nota dell'autore); o infine quello della letteratura gotica e romantica, del grande archetipo di questa pratica di mise en abyme (non menzionato ma difficile da non ricordare nella circostanza), il celebre The Fall of the House of Usher di Edgar Allan Poe.

Il sensazionale successo dei libri di Montalbano dimostra che la poetica dell'inattualità ha un mercato. Evidentemente, come qualche anno fa aveva fatto sospettare Va' dove ti porta il cuore, esiste in Italia un orizzonte d'attesa molto favorevole per opere in grado di evocare obliquamente (ossia echeggiando le forme e strategie narrative che in altre epoche li esprimevano) valori, emozioni e comportamenti datati ma profondamente sedimentati nella nostra cultura. L'obiettivo di queste opere è lo stesso del feuilleton: compensare le frustrazioni sociali, politiche o epistemologiche sviluppate dal lettore nei confronti della realtà quotidiana. Ma è anche fornire una struttura, sia pure solo allusiva, a un insieme di convinzioni ideologiche deboli, perdenti o frammentarie, rendendole capaci di garantire un'identità, una membership.

Non c'è dubbio che Camilleri debba la sua fortuna soprattutto alla sua capacità di raccontare vicende accattivanti e personaggi memorabili con una scrittura scaltra e ironica. Personalmente è per questo che leggo e rileggo i suoi romanzi. Ma l'importanza del suo disegno ideologico — insistente, perspicuo e coerente, come ho cercato di dimostrare — non va sottovalutata né reputata un fattore accessorio. Come nel caso del romanzo popolare ottocentesco, la bontà dell'intreccio e la qualità dello stile sono essenziali, ma altrettanto lo sono le conferme d'ordine emotivo e politico che il lettore ne ricava.

Orfano delle grandi narrazioni d'antan, e in particolare del comunismo doc (anche in negativo, come moloc rispetto al quale definire se stessi), il pubblico chiede a Camilleri conferme e conforto, e li ottiene attraverso aperte prese di posizione e attraverso subliminali richiami a forme e certezze del buon tempo andato. Chiede di riconoscere e di riconoscersi, e in mancanza di meglio s'accontenta di citazioni, residui, collaudate parole d'ordine, ciascuna delle quali funziona come un souvenir, un keepsake montaliano ("e il nome agì") nel creare l'illusione di una recuperata pienezza ideologica. Naturalmente anche questa è una grande narrazione, ma parassita, necrotrofa: una structure of feeling le cui principali figure semantiche sono il rimpianto del passato, la certezza del canone e del valore, l'opposizione al "nuovo". Forse non è che il colpo di coda di una cultura assediata e senza idee, ma è preoccupante che la difesa d'ufficio che le prestava la vecchia destra tradizionalista, praticamente scomparsa, sia stata assunta da movimenti democratici o sedicenti tali; e purtroppo non si tratta più di semplice ritardo — una freudiana Nachträglichkeit — nel prendere coscienza delle nuove dinamiche sociali. Il pericolo mi pare evidente: un compromesso davvero "storico", nel senso che il fondamento ne è la Storia, scritta e decisa o magari rivedibile ma comunque postuma.

Occorre continuare a studiare il funzionamento ideologico della retorica della nostalgia, a decostruire le trappole sentimentali delle visioni apocalittiche del mondo; e la critica letteraria italiana può svolgere un ruolo importante in questa vigilanza. Per parafrasare la celebre conclusione del saggio di Umberto Eco sul Corsaro Nero, se Montalbano rimpiange, guai all'infame che sorride. Ma guai anche alla cultura che si limiti a rimpiangere. Bisogna anche smontare il congegno.


LIBRI CITATI IN QUESTO ARTICOLO
Andrea Camilleri, Racconti quotidiani, a cura di Giovanni Capecchi, Pistoia, Libreria dell'Orso, 2001 
Id., Il ladro di merendine, Palermo, Sellerio, 1996 
Id., La voce del violino, Palermo, Sellerio, 1997 
Id., Gli arancini di Montalbano, Milano, Mondadori, 1999 
Id., La gita a Tindari, Palermo, Sellerio, 2000 
Giovanni Capecchi, Andrea Camilleri, Fiesole, Cadmo, 2000 
Simona Demontis, I colori della letteratura. Un'indagine sul caso Camilleri, Milano, Rizzoli, 2001 
Umberto Eco, Il superuomo di massa. Studi sul romanzo popolare, n.e., Milano, Bompiani, 2001 
Giulio Ferroni, Dopo la fine. Sulla condizione postuma della letteratura, Torino, Einaudi, 1995 
Antonio Moresco, Il vulcano. Scritti critici e visionari, Torino, Bollati Boringhieri, 1999 
Tiziano Scarpa, Che cos'è questo fracasso? Alfabeto e intemperanze, Torino, Einaudi, 2000 
Vittorio Spinazzola (a cura di), Tirature '01. L'Italia oggi: i luoghi raccontati, Milano, Il Saggiatore, 2001 
Manuel Vázquez Montalbán, Tatuaggio, Milano, Feltrinelli, 1991 (ed. orig. 1974) 
Raymond Williams, The Country and the City, Londra, Chatto & Windus, 1973 


NOTE
1) Di primaria importanza mi pare l'esplorazione di ciò che ho definito la retorica della nostalgia, ossia le forme narrative e le formulazioni ideologiche in cui si organizza il discorso apologetico del passato.
2) Mi interessa notare come la deprecatio temporum abbia perso, per gli intellettuali italiani di oggi e soprattutto per quelli di sinistra, qualsiasi connotazione ironica o negativa.
3) Si legga l'episodio, ininfluente dal punto di vista dell'intreccio, della visita del commissario alla trattoria "Giugiù 'u carritteri". Il percorso di avvicinamento è difficile, iniziatico.
4) Camilleri ha scelto di flirtare con il modello ottocentesco del feuilleton. La sua nostalgia del passato si estende insomma alla tradizionale concezione del romanzo popolare…
5) Il sensazionale successo dei libri di Montalbano dimostra che la poetica dell'inattualità ha un mercato.
6) Occorre continuare a studiare il funzionamento ideologico della retorica della nostalgia, a decostruire le trappole sentimentali delle visioni apocalittiche del mondo…


Francesco Erspamer insegna Letteratura italiana presso la New York University ed è visiting professor a UCLA. Per i tipi della Fondazione Bembo, ha curato l'edizione in due volumi delle opere di Pietro Aretino (1995-1998), e per le edizioni Castelvecchi le memorie di Kit Carson (1994). È autore de La biblioteca di Don Ferrante: duello e onore nella cultura del Cinquecento (Bulzoni, 1982).

 

(pubblicato su La Rivista dei Libri (The New York Review of Books), 2.2002)



Last modified Wednesday, July, 13, 2011