La scomparsa di Patò di Andrea Camilleri:

un giallo... filologico

 

Salvatore Bancheri, University of Toronto

 

Studi Italiani Anno 2003 No. 2, pp. 61-73

 

            Il presente studio si prefigge l'identificazione delle fonti settecentesche del Mortorio, la sacra rappresentazione che è alla base del romanzo La Scomparsa di Patò di Andrea Camilleri[1]. Si prenderà in disanima tutto quello che, nel giallo dell'autore siciliano, concerne la storia del teatro religioso (pastorali e mortorio, messinscena, tecniche scenografiche, assegnazioni delle parti, ecc.) per poter arrivare ad un migliore apprezzamento e valutazione dell'opera. Più precisamente, si estrapoleranno in modo metodico dal romanzo del Camilleri quei brani, commenti, presunti o veri articoli e citazioni, avvenimenti, ecc. per poi commentarli, chiarirne l’autenticità o meno, e collegarli a reali rappresentazioni del Mortorio del passato o tuttora vigenti in Sicilia e altrove.

            La Scomparsa di Patò ha le sue origini, come il Camilleri stesso puntualizza in limine, nelle ultime pagine di A ciascuno il suo di Leonardo Sciascia:

Cinquant'anni prima, durante le recite del “Mortorio”, cioè la Passione di Cristo secondo il cavalier D'Orioles, Antonio Patò, che faceva Giuda, era scomparso, per come la parte voleva, nella botola che puntualmente, come già un centinaio di volte tra prove e rappresentazioni, si aprì: solo che (e questo non era nella parte) da quel momento nessuno ne aveva saputo più niente; e il fatto era rimasto in proverbio, a indicare misteriose scomparizioni di persone e di oggetti.[2]

            Già da questa citazione due piccoli dettagli attirano la nostra attenzione. Il primo elemento è il titolo Mortorio: sia Sciascia che Camilleri usano questo titolo per indicare Il riscatto di Adamo nella morte di Gesù Cristo di Filippo Orioles[3] nella sua versione popolare. Anche se l’ortografia della parola tuttavia oscilla tra “Mortorio” e “Martorio”, secondo me, sarebbe stata più opportuna la seconda grafia, sicuramente più consona allo stile e all’ambiente del romanzo[4]. Il secondo elemento è quel “cavalier D’Orioles”, ripreso anche dal Camilleri a proposito della seguente nota nel Diario palermitano del Marchese di Villabianca:

Agosto 1793. Per due ragioni mi prendo l'eccezione di far nota in queste memorie della morte di una persona minuta qual fu Filippo Orioles. La prima perché egli fu un buon poeta e improvvisatore di versi latini, avendo lasciato il suo nome nei pubblici torchi colle sue opere di drammi, e posto in scena il mortorio di Cristo e vite di santi. La seconda è che portava l'età di centosei anni, che rade volte si vive dagli uomini[5].

 

            Consolato Federigo, l’autore dell’articolo apparso sull’Araldo di Montelusa, commenta a tale proposito:

Occorre chiarir che il Villabianca chiamando l’Orioles “persona minuta” riferiscesi non al suo aspetto fisico, ma bensì al ceto onde pare aver ragione chi sostenne l’Orioles non aver diritto al titolo di Cavaliere che egli oltretutto lasciava intendere premettendo al cognome suo la nobiliar particella “de”[6].

 

            Ebbene, mai in nessuno dei suoi scritti, il nome dell’Orioles appare preceduto dal titolo di “Cavaliere” o dalla particella nobiliare “de”. Solo nel manoscritto del San Basilio Magno[7], l’amanuense fa precedere al nome dell’autore il titolo nobiliare “D.” In realtà, solo negli scritti del Pitrè e del Sorge al nome dell’Orioles viene premesso il titolo di “cav.”[8] La congettura che il Marchese di Villabianca, come suggerisce Consolato Federigo sull’Araldo di Montelusa, usi l’espressione “persona minuta” per indicare il ceto dell’Orioles e non in riferimento al “minuto” influsso che questo personaggio ha avuto nella vita sociale, politica e culturale di Palermo è poi ipotesi da discutere ed è in netto contrasto con le scarse notizie biografiche che si hanno su questo autore; tali notizie sembrano additare invece ad una nobile discendenza del tragediografo palermitano.[9]

            La scomparsa di Patò si apre con alcune informazioni basilari sul Mortorio presentate tramite un articolo apparso nell’Araldo di Montelusa il 20 marzo 1890, data che stranamente coincide (volutamente o meno) con la prima edizione del Riscatto d’Adamo curata dal Pitrè[10], che lo studioso dichiara di aver riprodotta sull’editio princeps del 1750. La rappresentazione del Mortorio, si legge nell’articolo,

avverrà domani 21, giorno di Venerdì Santo, come tradizionalmente usasi ripetere da una ventina di anni a questa parte. Alla rappresentazione, alla quale si darà comincio alle 3 e mezza del dopopranzo, asissteranno S.E. Reverendissima il Vescovo di Montelusa, Boscaìno Monsignor Angelo [...][11]

 

            Si vuole innanzitutto precisare che nel 1890 il Venerdì Santo è caduto il 4 aprile (e non il 21 marzo), come nota anche uno dei visitatori del “Forum” in www.andreacamilleri.net. Era tradizione e lo è ancora rappresentare la Passione di Cristo in questo giorno, anche se le manifestazioni teatrali spesso occupano l’intera settimana santa. L’ora della rappresentazione (“3 e mezza del dopopranzo”) può essere accettabile, anche se spesso tali recite venivano proposte ad un’ora più tarda per poter dare ai fedeli l’opportunità di adempiere agli obblighi religiosi, come nella tradizione di Alia (PA):

Il Venerdì Santo, ad Alia, si andava al Martorio come ad un prolungamento dei Sacri Riti che si erano celebrati in Chiesa qualche ora prima. Tutto il popolo si recava in piazza, dinnanzi al grande palco accanto alla Chiesa di S. Anna o di S. Rosalia, e là, con l’animo ancora compenetrato dalla commossa rievocazione del mistero della Redenzione, contemplato nelle funzioni liturgiche, assisteva alla Sacra Rappresentazione, che, nelle sei o sette ore di spettacolo vario e drammatico, riproduceva plasticamente, con artistiche e sempre aderenti interpretazioni, il racconto della Passione di Gesù.[12]

 

            Quello che sembra fuori posto nella rappresentazione vigatese, almeno da una prospettiva di storia del Mortorio, è la presenza di autorità ecclesistiche (il Vescovo di Montelusa e Monsignor Boscaìno), in un’ora dedicata esclusivamente alle funzioni religiose. Da un punto di vista storico, la Chiesa e le autorità civili hanno spesso negato il beneplacito a questo tipo di manifestazioni teatrali non solo perché spesso davano adito a sconcerie, ma anche perché distoglievano i fedeli dalle pratiche religiose.[13]

            Conforme alla realtà storica è la concessione da parte dei nobili dei propri magazzini o locali per uso degli attori[14], come pure la presenza innumerevole sia di comparse che di attori: nella rappresentazione di Vigàta gli attori sono ventidue[15], mentre si parla di cento comparse[16]. Tra gli interpreti della rappresentazione di Vigàta – come d’altronde in simili rappresentazioni in altri paesi della Sicilia. – vi sono i nomi “di stimati professionisti e di onesti commercianti” che “han voluto pubblicamente manifestare il senso della loro profonda devozione” [17] La procedura dell’assegnazione delle parti a Vigàta, differisce dalla prassi tradizionale, così sintetizzata da Luigi La Verde per la tradizione di Delia (CL):

Una tradizione vuole che gli attori, i quali recitano una parte contraria a Cristo, interpretino, nella stessa rappresentazione, quella di un personaggio di secondo piano a lui favorevole. Così, per esempio, il Caifas fa da Apostolo, e il Pilato anche da Cireneo[18].

 

            Il ragioniere Patò recita soltanto la parte di Giuda, ma il Camilleri tiene a precisare che in cambio “egli offre al Signore qual penitenza de’ peccati suoi il vero e proprio vilipendio dagli spettatori che hanno la figura del traditore di Cristo in odio e dispregio”[19]. A simile dispregio era sottoposto anche il Giuda della tradizione di Delia, dove nel momento in cui si impiccava “il popolo canta con tono lugubre: ‘O Giuda, o Giuda, o traditore / Che tradisti, che tradisti il tuo Signore, / Che lo sacrifican, che lo sacrifican in su la croce”[20]. Significativo, a tale proposito, è il Barabba della tradizione deliana, spesso interpretato da individui dei paesi viciniori, perché gli abitanti locali hanno paura che resti loro l’ingiuria (lu numinaggiu), come è ovviamente accaduto. Non è da interpretare quindi come esagerazione, ma perfettamente in linea con la tradizione, la reazione del pazzo Arturo Vasapolli, alias Tutù, che “cuesta volta a Giuda non ci l’avrebe fata passare liscia e che ala corenza era capaci di amazarlo con le sue di proprie mani”[21] oppure con quella enuciata nel messaggio anonimo “tu che fai la parte di Giuda sei peggio di lui”[22].

            Atto ad inquadrare storicamente il Mortorio è l’articolo La «Pastorale» e il «Mortorio»” firmato da Consolato Federigo, studioso di tradizioni popolari, apparso in data 21 marzo 1890 nell’Araldo di Montelusa[23]. Innanzitutto, si vuole precisare che con il termine “Pastorale”, nella sua accezione teatrale religiosa, contariamente a quanto indicato nell’articolo, non ci si riferisce ad una opera soltanto (per il Camilleri/Federigo, L’Emancipazione dell’uomo operata dal Verbo), ma a tutte quelle opere che hanno come contenuto la nascita di Cristo e che sono caratterizzate dalla contemporanea presenza di elementi pastorali, didattici, comici e burleschi[24]. Tra l’altro, anche l’Orioles è autore di una pastorale, dal titolo La notte in giorno nella nascita di Gesù Cristo[25]. Per motivi di spazio si rimanda la discussione sulla Pastorale religiosa alle fonti indicate in nota; in questa sede ci si soffermerà solo sulle informazioni riguardanti il Mortorio e si partirà dalla seguente nota del Camilleri:

L’autore, Andrea Camilleri, ha lungamente esitato a inserire tra i documenti questo articolo del professor Consolato Federigo. Non perché dica inesattezze, ma perché cita assai liberamente, e con parecchi svarioni, il saggio di Alfonso Zaccaria plagiando inoltre ben due pagine intere dovute a Giuseppe Pitrè (“Spettacoli e Feste popolari siciliane”). Ce ne scusiamo con il lettore[26].

 

Secondo noi, non è da escludere l’ipotesi (per il momento a solo stato di intuizione) che sia proprio lo Zaccaria una delle possibili fonti dirette del Camilleri circa la tradizione del Mortorio in Sicilia. Lo Zaccaria infatti non si è occupato solo di Pastorali, ma anche di Mortorio; in un suo articolo sulle rappresentazioni del Mortorio di Joppolo Giancaxio, egli definì il Riscatto dell’Orioles come un “drammone di arena” e ne faceva una lettura gramsciana. Nel refutare l’analisi che lo studioso faceva del Riscatto in quanto cosparsa di pregiudizi ideologici, nel 1985 scrivevo:

Le accuse dello Zaccaria sono senza dubbio infondate e la sua definizione del Riscatto come opera “letterariamente orribile” ci lascia il dubbio che la tragedia consultata dal critico non sia quella dell’Orioles, ma uno dei tanti rimaneggiamenti, con fraintendimenti e contaminazioni di stili propri della tradizione popolare.[27]

 

            Come lo stesso Federigo nota, il Pitrè sul fenomeno delle copie così si esprime:

Comunissime e infinite le copie manoscritte in Sicilia tutta, guaste da spropositi, lazzi, arbitrarie interpolazioni, modifiche.[28]

 

            Immediatamente dopo questa citazione – che, sia pur modificata, è una delle frasi plagiate di cui parla il Camilleri – il giornalista dell’Araldo di Montelusa afferma:

Tra le modifiche, la più rilevante appar esser quella concernente la morte di Giuda. Nell’edizione a stampa del 1750, che dovrebbe esser stata visionata dall’Autore, ma pare che non sia stato così, la morte di Giuda veniva suggerita allo spettatore attraverso un quadro nel quale si vedea il traditore con una corda a cappio che scappava fuor di scena per andare ad impiccarsi, inseguito dalla Speranza, dal Perdono, dal Pentimento e dalla Fede. Questi quattro personaggi, che forman il corteggio di Giuda, l’Autore stesso, nella prefante Avvertenza, consiglia gli eventuali allestitori di ometterli, lasciando che sia il solo traditore ad abbandonare la scena. In tutta evidenza, l’Orioles reputava non esser agevol cosa rappresentare a vista di tutti un’impiccagione, sia pur quella di Giuda, vuoi sotto il riguardo morale (di certo un curial censore sarebbe insorto e con giustezza) vuoi sotto riguardo pratico (essendo molto forte il periglio di un mortal incidente).[29]

      Epperò siffatta uscita di scena sia pur condita da alti lai e disperate invocazion di pentimento, non giungeva, presso il pubblico, a effetto catartico veruno.

 

            Durante le mie ricerche sul Riscatto di Adamo non sono riuscito a rintracciare l’edizione del 1750, perché essa non esiste. Il Pitrè dichiara questa copia “ignota a’ nostri bibliografi” e dice di averne visto un esemplare “per gentilezza del cav. Gaetano Orioles”, discendente del drammaturgo palermitano.[30] L’edizione del 1750 vista dal Pitrè manca delle ultime 8 scene e quindi si conclude senza l’impiccagione di Giuda, la Crocifissione, il planctus Mariae e la deposizione[31]. Un Riscatto d’Adamo quindi in cui Adamo non viene riscattato con la morte di Cristo. È nostra convinzione che l’Orioles, non soddisfatto della veste artistica del Riscatto abbia deciso di sospenderne la stampa per migliorarla nella sua forma poetica. Infatti, nel 1751, un anno dopo, pubblica per i torchi della stessa casa editrice La servitù disciolta nella morte di Gesù Cristo[32], in cui sono incluse le ultime otto scene. Come tragedia la Servitù disciolta è meglio riuscita, in quanto sfoltita da alune scene e resa meno pesante con tagli di versi e meno nozionismo biblico.[33]

            Alla fine della lettura dell’articolo apparso nell’Araldo di Montelusa, ci si chiede a chi sono da attribuire le inesattezze indicate: al Consolato Federigo, ad Alfonso Zaccaria o addirittura ad Andrea Camilleri?

Le inconvenienze di ordine pubblico e morale, come espresse dal Camilleri nelle pagine 24-39 della sua opera, trovano anche la sua documentazione nella storia di questo tipo di rappresentazione. Nelle Siculae sanctiones, in una lettera del Viceré La Viefuille al capitano della città di Palermo, datata 20 marzo 1750, si legge:

Vel sacras Comicorum recitationes in Ecclesis habendas ‘Capitanei’ jurisdic­tioni subjectas esse decernitur.

      Ha fatto a me ricorso una compagnia di dilettanti Comici per voler accordata la licenza di rappresentare il mortorio di N. S. nella Chiesa di S. Pietro Martire, ove han situato il teatro, ed avendo io accordato loro il permesso, che mi fu richiesto, prevengo V. S., a cui appartiene la giurisdizione d'invigilare, e curare, che non succedessero inconvenienti ne' pubblici teatri, acciò faccia ella assistere quegli ufficiali di sua Corte in detto luogo di S. Pietro Martire, nella stessa guisa, che assistono ne' teatri di questa capitale, e prevenire tutti quegl'inconvenienti, che potessero accadere in detto luogo, ove si rappresenta il riferito mortorio; e nostro Signore la feliciti. Palermo a' 20. di Marzo 1750[34].

 

            Il Croce, nei Teatri di Napoli, scrive:

Nel 1738 e nel '39 fu impedita la recita ai Fiorentini e al Nuovo, nei giorni di Pasqua, dell'Opera della passione di Gesù Cristo (di Filippo Orioles, palermitano), la quale pel passato era stata solita a farsi o in case di privati gentiluomini o in oratori «con somma decenza e compungimento»; ed «io stesso (scriveva l'uditore dell'esercito nel marzo '39) otto anni sono ne fui una volta spettatore in una casa vuota di San Carlo delle Mortelle, recitata dal marchese de Simone e da altre persone distinte con tanta proprietà e devozione, che quasi continuamente si pianse»; senonché, offerta in pubblico e con fini di lucro, dava luogo a chiassate e scandali. Qualche anno dopo, nel '51, giunse a notizia dell'uditore che nella via che dai Fiorentini va a largo del Castello, in una stanza a pianterreno, si recitava appunto l'opera della Passione, vendendosi i biglietti senza riscuotere il prezzo all'entrata per poter asserire con frode che non era fatta per lucro; e tosto venne di nuovo proibita[35].

 

            Nell’articolo dell’Araldo di Montelusa firmato da Marcello Saponara, viene messo in evidenza come per questo tipo di manifestazioni l’intero paese diventa il vero palcoscenico:

Una folla strasbocchevole, allegra e festosa, ha aggredito all’inverosimile la Piazza grande, alcuni giovanastri si sono arrampicati persino sulle case, i balconi erano colmi, da ogni finestra si affacciavano teste.

 

Quest’anno c’è stata una graditissima e commovente innovazione: al momento della salita al Calvario, la locale banda municipale, egregiamente diretta dal Maestro Salvatore Cusumano, ha eseguito una dolente marcia funebre all’uopo composta dal maestro[36].

 

            Tipiche anche le reazioni del pubblico che si immedesima negli avvenimenti dello spettacolo in vari modi:

Due spettatrici, per la commozione, vennero meno. [...] Quando ormai crocefisso, pronunciò le parole “Signore, Signore, perché m’abbandonasti?”, furono in tanti a cadere in ginocchio infra gli spettatori, ripetutamente percuotendosi il petto col pugno e gridando tra il pianto il “Mea culpa”[37].

 

            Una corrispondenza de Il Giorno di Napoli ci informa che nel 1926 venne rappresentata, nella frazione di Cellia del comune di Polia (Catanzaro), l'opera dell’Orioles e che durante l’impiccagione di Giuda la folla fu “pervasa da terrore”, e vivamente commossa durante quella della Crocifissione, “tanto che furono pochi coloro che non si lasciarono vincere dal pianto”.[38]

            Che il Camilleri abbia fatto delle ricerche accurate lo si nota anche dalla disussione nello stesso articolo riservata ai personaggi.

Insino al 1885, erano stati contadini, pastori, carrettieri e pescatori a prestarsi per interpretar le parti, mentre Gesù veniva magistralmente reso dall’arciprete don Spiridione Randazzo, al quale era affidata anche la responsabilità artistica dell’intero spettacolo. [...] Per tradizione, e in ogni parte dell’Isola, la parte di Gesù da sempre viene affidata a un uomini di Chiesa, non parendo acconcio far indossare i panni sacri a persona che almen non sia usa alle cose di Dio[39].

 

            Alquanto accurata anche da un punto di vista storico è la presente osservazione:

[...] L’ingresso infra gli attori del maestro Giuffrida e del ragioniere Patò produsse un sostanziale mutamento di ceto tra i volenterosi partecipanti al “Mortorio”. Mentre pescatori e contadini continuarono a salire sul palcoscenico, ma in vesti di comparse, signore e signori della borghesia vigatese si fecer obbligo di interpretare le parti principali della sacra rappresentazione[40].

 

            Come detto in apertura dell’articolo, stona un po’ il diretto coinvolgimento di membri della chiesa nello spettacolo e precisamente dell’arciprete Randazzo e del vescovo di Montelusa. Il Randazzo è il responsabile artistico della messinscena[41] e sceglie gli attori. Sua la scelta di Erasmo Giuffrida per la parte di Gesù,[42] decisione controversa che fa scaturire, per i motivi prima citati, accese discussioni e l’opposizione dei vigatesi e solo “il deciso intervento di S.E. Rev.ma il Vescovo di Montelusa, a favore di don Randazzo, pose termine all’incresciosa diatriba”.[43] Lo stesso arciprete stila l’elenco delle comparse e ha la disposizione degli attori per i ringraziamenti.[44] Dopo l’increscioso episodio della predica contro Giuda di padre Giustino Seminara, don Randazzo, si legge nell’Araldo di Montelusa, “non ha voluto commentare in alcun modo le affermazioni di Padre Seminara. Egli si è limitato a dire che, per l’anno che viene, sarà costretto a ingaggiare un attore professionista per la parte di Giuda”.[45]

            Di notevole interesse, si sono rivelati per lo svolgimento del tema di questo articolo quei commenti sicuramente di prammatica sulla interpretazione dei vari attori del Mortorio. A questo punto, la mia rilettura del romanzo cambia completamente di prospettiva. Mi spiego. Originariamente la Scomparsa di Patò aveva attirato la mia attenzione non tanto come romanzo giallo, ma come documento da cui poter estrapolare delle informazioni sulla storia del Mortorio e del teatro religioso in generale; volevo vedere, analizzandone i dettagli, se il Camilleri avesse fatto delle ricerche accurate sul Mortorio. Fino a questo punto avevo dato per scontato che l’opera messa in scena a Vigàta era, come il Camilleri ribadisce ad ogni pagina del romanzo, il Mortorio del palermitano Filippo Orioles.  Tuttavia, il seguente commento: “Marta trovò la sua migliore espressione nella signora Lucia Francipane”[46] e le parole del Cristo Crocifisso “Signore, Signore, perché m’abbandonasti?”[47], hanno fatto scaturire in me il dubbio che in effetti a Vigàta non si sia rappresentata esattamente la tragedia dell’Orioles. Infatti, il personaggio di Marta non esiste nel Riscatto d’Adamo e il Cristo morente non pronuncia le parole sopra menzionate. A questo punto inizia la mia rilettura della Scomparsa di Patò con l’occhio del detective, come libro giallo, ma un giallo ... filologico. Le domande a cui mi sono proposto di rispondere durante la mia rilettura sono di questo tipo: quale scena della tragedia sono state recitate? In base alle scene recitate, quale avrebbe dovuto essere la durata dello spettacolo? In base alla durata dello spettacolo, vi sono delle discrepanze nella successione degli eventi dopo lo spettacolo? Infine, quale versione del Mortorio è stata recitata a Vigàta? Quale versione del Mortorio ha presente il Camilleri? Come per i gialli polizieschi, anche per questo giallo filologico, gli indizi sono sparsi un po’ dappertutto lungo l’arco del romanzo. Il primo compito è la minuziosa ricerca di tutti i taselli del puzzle per poi metterli insieme con pazienza certosina.

            Alcune immediate osservazioni circa i personaggi. Nella rappresentazione di Vigàta spicca la mancanza di alcuni personaggi di rilievo nell’opera dell’Orioles: Misandro (oppositore di Cristo), Giuseppe e Nicodemo. Inoltre, vengono menzionati i personaggi Simon Leproso (Simon Lebbroso in Orioles; si tratta di storpiamento del nome nei copioni popolari del Riscatto) e Putifar, entrambi personaggi di poco rilievo nell’Orioles. Da notare anche che in Orioles i personaggi di Putifar e Simon Lebbroso appaiono sempre in scene in cui vi è almeno uno dei tre personaggi mancanti nella rappresentazione di Vigàta (Misandro, Giuseppe e Nicodemo). La mancanza di questi tre personaggi implica che circa il 50% delle scene del Riscatto sarebbero state modificate o addirittura eliminate nella rappresentazione vigatese.

            Quanto è possibile dedurre, in base all’elenco alle notizie riportate nell’articolo dell’Araldo di Montelusa, sulla rappresentazione di Vigàta e dei suoi rapporti con l’opera dell’Orioles? Quali sono dunque le scene del Mortorio rappresentate a Vigata?

            La prima interpretazione discussa è quella di Annamaria Zigaìna, “la quale trovò, come Maria, accenti tanto strazianti e disperati per la morte del diletto Figlio da molcere ogni più indurito cuore”[48]. Il commento lascia dedurre che sia stata rappresenta la scena della Crocifissione (lo Stabat Mater, il Planctus Mariae), fatto confermato anche un paio di pagine prima: “Al momento della salita al Calvario, la locale banda municipale, egregiamente diretta dal Maestro Salvatore Cusumano, ha eseguito una dolente marcia funebre all’uopo composta dal Maestro”[49]. Altra scena “commovente” nel Riscatto dell’Orioles che ha come interprete Maria è, all’inizio dell’opera, la cosiddetta spartenza, in cui Maria dà al Figlio l’estremo saluto. Che questa scena sia stata rappresentata a Vigàta non è comunque accertabile in base alle indicazioni del romanzo.

            Il secondo personaggio di cui si fanno degli apprezzamenti è quello della Maria Maddalena, interpetata da Giuseppina Corleone. Il ruolo di questo personaggio nel Riscatto dell’Orioles è alquanto secondario, in quanto viene confinata alla figura di “confidente”. La presenza della Veronica è ancora indicazione che è stata anche rappresentata la Via Crucis, mentre al personaggio di Marta, non esistente nell’opera dell’Orioles, abbiamo accennato prima.

            La presenza di Fede, Speranza e Carità, parti interpretate dalle sorelle Camilleri, indica che anche la scena della disperazione e suicidio di Giuda è stata riproposta. Ma si tratta proprio di una scena del Riscatto? Molto probabilmente no, in quanto i personaggi nella disperazone di Giuda sono diversi ed addirittura quattro: Speranza, Perdono, Pentimento e Fede, a cui bisogna anche aggiungerne un quinto, l’Amor Divino, che in altre scene cerca di convincere Giuda a desistere da propositi suicidi.

            Tra gli attori, figurano Caifas, Simon Leproso e Putifar: la loro presenza fa pensare che oltre alla Crocifissione possono essere stati rappresentati sia la condanna che i tre consigli del sinedrio. Anche qui, però, ci si chiede, come questo sia stato possibile senza la presenza di altri personaggi essenziali presenti nell’Orioles ma non nell’elenco vigatese (Nicodemo, Giuseppe, Misandro).

            L’Erode appare nell’opera di Orioles solo nelle scene II, 10-11, assieme a Cristo, Centurione, Nicodemo, Giuseppee Misandro. Gli ultimi tre personaggi – tutti e tre di rilievo -- comunque, non fanno parte delle rappresentazioni di Vigàta.

            Siuramente scene rappresentate sono state: l’Ultima Cena, il rinnegamento di Pietro, e Cristo alla Colonna (la fustigazione), anche se per questa ultima scena non si trovano, nell’elenco vigatese, Misandro e Nizec.

            Dalla pianta del magazzino redatta dal delegato di pubblica sicurezza Ernesto Bellavia e dal maresciallo dei carabinieri Paolo Giummàro, si nota che vi sono altri quattro personaggi maschili principali che non sono stati menzionati nell’articolo (Taddeo Veronica, Saverio Abisso, Nicola Sardella e Andrea Camilleri) e che ovviamente avrebbero in qualche modo potuto sopperire ad alcuni dei personaggi mancanti a cui si accenna sopra.

            Altra importante osservazione da fare riguarda la durata dello spettacolo. Viene notato all’inizio del romanzo che il Mortorio avrebbe dovuto iniziare alle 3 e mezza del pomeriggio, ma che in realtà “ebbe inizio con qualche minuto di ritardo per l’attesa dell’arrivo di alcune Autorità”[50]. Lo spettacolo termina, come indicato nel primo rapporto conclusivo verso le 7 e 15. La durata dell’intero spettacolo non supera le 3 ore e 45 minuti, in quanto come notato non si era iniziato in tempo. Oltre alle 7 scene che sicuramente si sono rappresentate (Ultima Cena, rinnegamento di Pietro, Cristo da Erode, fustigazione, Via Crucis e Crocifissione, impiccagione di Giuda), considerati i cambiamenti di scena, possibili intervalli e il ritmo probabilmente rallentato dalle tante comparse, è mia opinione che non sia stato possibile rappresentare altre scene del Riscatto dell’Orioles. Se le sole scene ad essere state rappresentate, sono le sette menzionate sopra, vi è discrepanza nell’elenco dei personaggi (Putifar e Simon Leproso). Se invece sono state rappresentate altre scene, oltre a quelle menzionate, allora non sono stati ben fatti i calcoli per ciò che concerne la durata dell’opera.

            Infine, la presenza di Marta (non esistente nel Riscatto), la battuta del Cristo Crocifisso anch’esso non facente parte del testo dell’Orioles e la stessa scena di Giuda (in cui i personaggi non corrispondono con quelli del Riscatto) ci portano a sospettare che a Vigàta non si sia messo in scena il Martorio dell’Orioles, ma una delle tante sue versioni, ridotte, modificate, rimaneggiate, forse anche corrotte e quasi sicuramente con aggiunte di poeti locali. Forse si è rappresentata la stessa versione di cui si parlava prima a proposito del contributo dello Zaccaria, a meno che non si voglia credere anche a questo riguardo ciò che dice il Camilleri nella nota conclusiva: “Mi sono inventato tutto, lo confesso. È possibile qualche coincidenza di nomi e di cognomi, ma si tratta, lo ripeto, di dannate coincidenze”[51]. Se questo è il caso, noi alora potremmo concludere, imitando la nota finale di Conversazione in Sicilia, che il Martorio di Vigàta solo per avventura è quello dell’Orioles.



[1] A. Camilleri, La scomparsa di Patò, Milano, Mondadori, 2000.

 

[2] Ivi, p. 6. Cfr. anche L. Sciascia, A ciascuno il suo, quinta edizione, Torino, Einaudi, 1975, p. 134.

 

[3] Su Filippo Orioles si hanno scarse e incerte notizie. Nacque a Palermo nel 1687 e morì all'età di ben 106 anni, nell'agosto del 1793. Anche della produzione letteraria dell'Orioles poche sono le documentazioni e spesso si hanno solo dei titoli; si conoscono solo 10 opere drammatiche: 1) L'amor trionfante; si tratta molto probabilmente del Riscatto d’Adamo, presentato sotto altro titolo; 2) La notte in giorno nella nascita di Gesù Cristo, Palermo, Valenza, 1745; 3) L'alchimia in contesa, Palermo, s.e., 1746; 4) Il riscatto d'Adamo nella morte di Gesù Cristo, Palermo, Eredi D'Aiccardo, 1750; 5) La servitù disciolta nella morte di Gesù Cristo, Palermo, Eredi D'Aiccardo, 1751; 6) II S. Elia, Palermo, Angelo Felicella, 1753; 7) L'eroina d'Oreto overo la S. Rosalia, Palermo, Francesco Ferrer, s.d.; L 'anticristo, Palermo, Gio. Battista Gagliani, 1781; 9) La conquista di Gerosolima, Palermo: D. Gaetano M. Bentivenga, 1785; 10) Il San Basilio Magno. Per maggiori informazioni su Filippo Orioles e le sue opere, e sulla tradizione rappresentativa del Mortorio, cfr. “Nota critica” e “Nota filologica” alla mia edizione critica del Riscatto d’Adamo nella morte di Gesù Cristo, Rovito (Cosenza), Marra Editore, 1995; S. Bancheri; "Una sacra rappresentazione settecentesca a Toronto", in Italian Canadiana, n. 7 (1991), pp. 121-134; S. Bancheri, “Dalla botola sciasciana alle scena plastiche: per una storia della messinscena del Riscatto d’Adamo”, in Theatre and the Visual Arts, a cura di G. Katz, V. Golini & D. Pietropaolo, New York-Ottawa-Toronto, LEGAS, 2001. 111-126.

 

[4] Prima dell’opera di Sciascia e di Camilleri, la grafia quasi esclusivamente usata era quella di “Martorio”, termine con cui si indicavano sia l’opera dell’Orioles che le rappresentazioni della passione di Cristo durante il periodo pasquale. Il grande cultore delle tradizioni popolari siciliane Giuseppe Pitrè sembra preferire la grafia “Martorio”: cfr. G. Pitrè, Spettacoli e feste popolari siciliane, vol XII di Biblioteca delle tradizioni popolari siciliane, Palermo, Pedone Lauriel, 1881. Da notare comunque che il Camilleri usa intenzionalmente tutte e due le grafie, assegnando ad ognuno di esse una connotazione ben precisa. Il termine “Mortorio” viene usato in documenti ufficiali e/o redatti da persone di una certa cultura (articoli di giornali, verbali, ecc.); “Martorio” invece è la grafia usata quando la parola nasce dal popolo oppure è indirizzata al popolo: si veda, per esempio, la lettera di Onofrio Vasapolli (cfr. p. 17) o la poesia del cantastorie (pp. 71-72). In quest’ultimo caso il Camilleri chiarisce esplicitamente che il cantastorie usa la grafia “Martorio” perché il termine “in questo modo viene popolarmente pronunciato” (p. 72). Per una documentazione, sia pur indiretta, di come vengono usati i due termini, si veda anche S. Bancheri, “Nota filologica”, cit., in particolare le pagine CLI-CLXXIX.

 

[5] Villabianca, Francesco Maria Emanuele e Gaetani, Marchese di, Diario Palermitano, in data “Agosto 1793”, t. VIII, p. 191. L’opera del Villabianca è ancora inedita e il suo manoscritto è reperibile presso la Biblioteca Comunale di Palermo con la segnatura Qq D 100. Si noti la variante camilleriana delle ultime parole della citazione: “si vide dagli uomini” (Camilleri, cit., p. 21).

 

[6] Camilleri, cit., pp. 21-22.

 

[7] Il manoscritto, datato 1786, anno in cui l’autore aveva raggiunto la veneranda età di ben 99 anni, è conservato presso la Biblioteca Centrale della Regione Siciliana, ai segni VII.B.6. Per una più dettagliata descrizione del manoscritto, si veda S. Bancheri, “Nota critica”, cit., pp. XXXII-XLIII.

 

[8] Pitrè, cit., p. 15; G. Sorge, I teatri di Palermo nei secoli XVI-XVII-XVIII, Palermo, IRES, 1926, p. 308.

 

[9] Le mie ricerche sembrano indicare che la famiglia degli Orioles vantasse radici antichissime che risalgono addirittura ai re Goti. In Spagna gli Orioles si distinsero come una delle famiglie più nobili e gloriose, vantando anche rapporti di parentela con la casa reale. Gli Orioles si trasferirono in Sicilia nel 1282-1283 (cfr. Bancheri, “Nota critica”, cit., pp. XXVIIXXIX). Anche il Pitrè dà ad intendere che gli Orioles fossero dei nobili in quanto afferma di aver visto un ritratto di Filippo “conservato dagli Orioles in Palermo” (Pitrè, cit., p. 15).

 

[10] Le edizioni del Riscatto curate e con prefazione dallo studioso palermitano sono tre, tutte edite a Palermo presso l’editore Vittorio Giliberti, rispettivamente nel 1889 (in copertina 1891), 1908, 1916 e riprodotte, come annunciato nel frontespizio, sulla edizione del 1750.

 

[11] Camilleri, cit., p. 11. Di questo articolo colpisce immediatamente l’impostazione tipografica: sembra di rivedere anche nei suoi caratteri tipografici i vari articoli sul Mortorio come presentati dallo stesso Pitrè, da Leonardo Vigo ed altri cultori delle tradizioni popolari tra fine Ottocento e primo Novecento.

 

[12] D. Barcellona, Prefazione a Il Riscatto d’Adamo nella morte di Gesù Cristo di Filippo Orioles, Palermo, Scuola Arti Grafiche “Don Orione”, 1967, p. 5.

 

[13] Sull’intervento delle autorità durante la messinscena del Riscatto dell’Orioles, cfr. N. Gervasium, Siculae sanctiones, Palermo, Pietro Bentivegna, 1750-1752, II, p. 430; B. Croce, I teatri di Napoli dal Rinascimento alla fine del decimottavo secolo, 5a edizione., Bari, Laterza, 1966, pp. 188-189; B. Croce, I teatri di Napoli, secoli XVI-XVIII, Napoli, Pierro, 1891, pp. 713-714.

 

[14] Camilleri, cit., p. 12.

 

[15] Nell’elenco degli interlocutori l’Orioles precisa che i personaggi del Riscatto sono 44, ma che possono ridursi a 19. Si veda Camilleri, cit., p. 22, ma anche F. Orioles, Il riscatto d’Adamo nella morte di Gesù Cristo, edizione critica a cura di S. Bancheri, Rovito (Cosenza), Marra Editore, 1995, p. 12. Dal testo del Camilleri (“qui potranno cangiarsi le gentili attrici nonché i valenti attori che assommano a ventidue e tra i quali si trovano nomi di stimati professionisti e di onesti commercianti”) non è chiaro se ventidue sia il numero dei soli attori o quello di attori e attrici.

 

[16] Camilleri, cit., p. 12.

 

[17] Ibid.

 

[18] L. La Verde, Folklore di Delia, tesi di laurea per l’Università di Palermo, Facolta di Lettere e filosofia, anno accademico 1953-1954 (a stampa: Caltanissetta, Tipografia Lussografica, 1990, p. 90). Sulle tradizioni pasquali a Delia, cfr. Anche P. Caramanna, La settimana santa a Delia, Caltanissetta, Tipografia Lussografica, 1990.

 

[19] Camilleri, cit., p. 14.

 

[20] La Verde, cit., p. 91.

 

[21] Camilleri, cit., p. 17.

 

[22] Ivi, p. 19.

 

[23] Ivi, pp. 20-23.

 

[24] Per un’identificazione delle caratteristiche della pastorale sacra, cfr. S. Bancheri, "The Italian 'Pastorale sacra' Reconsidered," in Italiana 1987. Selected Papers from the Proceedings of the Fourth Annual Conference of the American Association of Teachers of Italian. November 20-22, 1987, Atlanta, Georgia, a cura di Albert N. Mancini and Paolo Giordano, River Forest, Illinois, Rosary College, 1989, pp. 209-217.

 

[25] Per una presentazione della pastorale dell’Orioles, cfr. Bancheri, “Nota critica”, cit., pp. XXXII-XXXVII.

 

[26] Camilleri, cit., p. 23.

 

[27] Bancheri, “Nota filologica”, p. 159.

 

[28] Camilleri, cit., p. 22.

 

[29] A conferma della difficoltà della scena, ricordo di aver letto un paio di anni fa in Repubblica un articolo in cui si riportava che il Giuda di una delle tante rappresentazioni pasquali era rimasto vittima del congegno scenico.

 

[30] Pitrè, “Spettacoli...”, cit., p. 16, nota 4; cfr. anche Bancheri, “Nota filologica”, cit., p. CXCI.

 

[31] Cfr. Pitrè, “Prefazione” a Il riscatto di Adamo nella morte di Gesù Cristo tragedia di Filippo Orioles, Palermo: Giliberti, 1889, pp. 6-7. La testimonianza del Pitrè circa la scena dell’impiccagione di Giuda è quindi in netto contrasto con quanto affermato nella precedente citazione dall’Araldo di Montelusa. Non ci risulta – e non vi è nessuna menzione in Pitrè – che l’Orioles avesse in qualche modo consigliato nella Avvertenza all’edizione del 1750 di omettere la scena del suicidio dell’apostolo traditore.

 

[32] Palermo, Eredi D’Aiccardo, 1751.

 

[33] Sul rapporto tra Riscatto e Servitù, cfr. Bancheri, “Nota filologica”, cit., in particolare le pagine CLXXXIX-CXCII.

 

[34] Gervasium, cit., II, p. 430.

 

[35] Croce, I teatri di Napoli dal Rinascimento..., cit., pp. 188-189.

 

[36] Camilleri, cit., 30.

 

[37] Ivi, p. 32.

 

[38] Bancheri, “Nota filologica”, cit., p. CLVI.

 

[39] Camilleri, cit., pp. 30-31.

 

[40] Ivi, p. 32.

 

[41] Ivi, p. 30.

 

[42] Ivi, p. 31.

 

[43] Ivi, p. 32.

 

[44] Ivi, pp. 46-49.

 

[45] Ivi, p. 119.

 

[46] Ivi, p. 32.

 

[47] Ivi, p. 33.

 

[48] Ivi, p. 32.

 

[49] Ivi, p. 30. Questo elemento ha conferma anche nella tradizione di Delia e di altri paesi in cui si svolge la passione di Cristo.

[50] Ivi, p. 30.

 

[51] Ivi, p. 255.