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Gli scrittori sognano pecore di carta?
Considerazioni e dubbi sulla serialità di un personaggio come Salvo Montalbano

di Simona Demontis

Ho condannato alla disperazione il mio creatore [...] l'ho perseguitato fino alla morte.

MARY SHELLEY, da Frankenstein

 

Voglio più vita, padre”, reclama minaccioso Roy Batty, il capo dei Nexus 6, i replicanti ribelli di Blade runner, rivolgendosi a Tyrell, il “Dio della biomeccanica” che aveva progettato questa generazione particolarmente sofisticata di androidi, in grado di sviluppare addirittura sentimenti propri. Tyrell, però, intuendone la potenziale pericolosità, aveva assegnato ai suoi automi un periodo di vita determinato, destinando quegli individui (quasi) perfetti ad una morte precoce. La battuta evidenzia significativamente l’ambiguo rapporto di filiazione fra la creatura e l’artefice, [1] per cui un principio di vita artificiale esige di essere accudito da chi l’ha messo al mondo, diventa prepotente ed invadente ed avanza la pretesa di una vita autonoma, non più subordinata, ma parallela e sovrapposta a quella del suo demiurgo: una situazione che evoca inevitabilmente il delirio d’onnipotenza del barone di Frankenstein, vittima egli stesso del prodotto abnorme della sua tracotanza.

Qualcosa di analogo, anche se fortunatamente non di così tragico, occorre nella relazione fra uno scrittore e un personaggio straordinariamente riuscito e di successo, in particolare quando si tratta di un personaggio seriale: il protagonista di un romanzo, quasi fosse cosa viva, a volte riesce a prendere persino il sopravvento sull’autore, a fagocitarlo, a schiacciarlo, come fa (letteralmente) Roy Batty con Tyrell.

Accade quindi piuttosto spesso che uno scrittore, per esempio di ‘gialli’, dopo un periodo di serena ‘convivenza’, si senta gravato dal peso di una presenza fissa nelle sue vicende – si pensi alle coppie canoniche Simenon/Maigret, Vazquez Montalban/Carvalho, Chandler/Marlowe, Stout/Wolfe, ecc. Senza contare che l’autore di romanzi polizieschi deve impegnarsi più di altri per ‘sdoganarsi’ dalla cosiddetta paraletteratura, acquisire la credibilità di narratore a pieno titolo ed essere legittimato ad imporsi in un differente tipo di produzione: giacché per il lettore, se non per la critica, egli rimarrà sempre “il papà di …”.  È naturale quindi che nel narratore sorga la tentazione di affrancarsi da un compagno tanto ingombrante; pur tuttavia è piuttosto inconsueto che ne decreti addirittura la morte, anche per rispetto nei confronti dei suoi lettori affezionati. Il lettore ingenuo, infatti, tende ad immedesimarsi nel personaggio, addirittura a reificarlo e non è disposto a rinunciarvi, anzi vorrebbe influenzare lo scrittore nello sviluppo delle vicende: è il comportamento che Stephen King ha portato al parossismo descrivendo l’invasata protagonista del famoso Misery non deve morire. Solo per fare qualche esempio, Agatha Christie, pur satura dell’ineffabile Poirot, ha comunque osato emanciparsi dalla sua creatura solo poco tempo prima di morire, nel romanzo dal significativo titolo Sipario; mentre l’altrettanto eloquente Addio Miss Marple, in cui passa a miglior vita l’anziana detective, fu pubblicato postumo. Più recentemente anche lo scrittore italo francese Jean-Claude Izzo (scomparso nel 2000) ha eliminato il suo Fabio Montale dopo la trilogia ambientata nei quartieri della mala marsigliese.

Santo Piazzese ha trovato invece un’altra soluzione, piuttosto abile. Il protagonista dei suoi primi due romanzi ‘gialli’, Lorenzo La Marca, è un biologo come il suo creatore; di conseguenza poco verosimilmente poteva essere catalizzatore di ulteriori vicende criminali a meno di essere sospettato di portare attasso. Il narratore palermitano, per il suo ultimo romanzo Il soffio della valanga, ha quindi scelto di effettuare una sorta di spin-off, come si usa dire in gergo televisivo, vale a dire ha sfruttato il milieu cittadino a cui il lettore era già abituato, relegando però La Marca in situazioni marginali ed elevando a rango di protagonista un attore secondario delle precedenti vicende, il commissario Spotorno, il quale a pieno diritto si occupa di fatti di sangue. In tal modo, Piazzese, da un lato ha del tutto abbandonato qualunque connessione autobiografica fra autore e personaggio e si è coraggiosamente inoltrato in un mondo non suo; dall’altro, designando un addetto ai lavori come figura di spicco, si lascia aperta la possibilità di proseguire nella esposizione delle sue indagini future.

Altri autori hanno scelto un ritorno clamoroso per i loro eroi ormai creduti scomparsi: Conan Doyle, tediato da Sherlock Holmes, l’aveva liquidato facendolo precipitare da una rupe durante una lotta col suo nemico storico, il dottor Moriarty. Tuttavia, non avendone mostrato il corpo senza vita, successivamente ha potuto, e ha dovuto a furor di popolo, ricredersi e riesumarlo.

Qualcosa di simile è successo anche Loriano Macchiavelli, il quale racconta che, dopo averne scritto per vent’anni le avventure, Sarti Antonio “era diventato così pesante e opprimente che non ce l’ho fatta più a sopportarlo. La serie televisiva l’aveva reso troppo popolare e a un certo punto ho cercato di disfarmene […] succedevano cose strane: venivo intervistato come Sarti Antonio, stavo perdendo la mia identità, lui aveva preso il mio posto, così ho scritto Stop per Sarti Antonio e l’ho ucciso”. [2] Tuttavia, proprio quest’anno, l’autore ha inopinatamente resuscitato la sua creatura, data per spacciata quindici anni fa, grazie ad un escamotage affine a quello di Conan Doyle.

Lo stesso Macchiavelli, quando gli è stato domandato se a suo parere Andrea Camilleri farà mai morire il suo Montalbano, ha affermato: “Credo di  no. Montalbano ha un altro spirito, vive in un altro contesto sociale. E’ più solare, è facile tenerlo in vita, perché è giovane e perché la sua Sicilia non cambia, ha sempre gli stessi problemi”. [3]

Camilleri ha una produzione variegata che intervalla romanzi storici e opere di carattere saggistico alle avventure con Montalbano e non sembra correre il rischio di essere ossessionato dal suo personaggio. Probabilmente quindi ha ragione il decano dei giallisti italiani: il lettore non vedrà l'amato commissario morire in qualcuna delle sue sciagurate iniziative personali, ma sicuramente sta assistendo al suo lento e inaccettato decadimento fisico. Chi gli sta vicino lo ammonisce che “All’età ca avi vossia, certe spirtizze nun l’avi cchiù a fari”, [4] ma il poliziotto si ostina a fare lunghe nuotate all’alba di giornate non ancora estive, nonostante soffra sempre più spesso di crampi e di mal di schiena. Persino quando ha nientemeno che un attacco di cuore, rifiuta caparbiamente di consultare uno specialista e solo un ferimento gli imporrà un soggiorno in ospedale.

L’evoluzione del personaggio, invero, non è solamente fisica, ma anche, e soprattutto, psicologica. Camilleri, che si sta avvicinando agli ottant’anni, ha sempre sostenuto che Montalbano parla e agisce come qualcuno più anziano di lui, con una mentalità un po’ retrò: ultimamente invece sembra che l’autore abbia un vividissimo ricordo del periodo in cui aveva cinquant’anni e che riesca a trasfonderlo nella tratteggio del comportamento della sua creatura più celebre. Il titolo dell’ultimo romanzo, Il giro di boa, potrebbe alludere metaforicamente, oltre che alle intenzioni del commissario di dare le dimissioni dalla polizia, la qual cosa provocherebbe un radicale cambiamento di vita e di abitudini, proprio all’età del protagonista, che si trova davanti a una vera e propria linea di demarcazione della sua esistenza, un aggiornato mezzo del cammin di nostra vita. 

Ma allora un personaggio che si evolve così profondamente e crudelmente, può definirsi veramente un personaggio seriale? La serialità del protagonista di una successione ordinata di narrativi consiste nella facile reiterazione di stereotipi che rendono riconoscibile la figura da parte del lettore: la pipa di Jules Maigret, la lente di ingrandimento di Sherlock Holmes, le cellule grigie di Hercule Poirot (la bistecca alta tre dita di Tex Willer, se si vuole sconfinare nell’universo statico per eccellenza del fumetto) sono solo metonimici di comportamenti tetragoni, propri di personalità immutabili dalle reazioni scontate. Cosa c’è in comune fra il Montalbano, dio di quart’ordine de La forma dell’acqua e il Montalbano mortificato nel corpo, nell’orgoglio e nella dignità de Il giro di boa?

Nel primo dei volumi di cui è protagonista, La forma dell'acqua, abbiamo fatto conoscenza con un commissario quarantino che, fin dal nome sintomatico, Salvo (un nome scelto solo perché tipicamente siciliano o inconsciamente indicativo del suo ruolo istituzionale?), rivela l’attitudine all’intervento personale, al di fuori dai canoni dello stesso comportamento di un ‘servitore dello Stato’, contegno che viene confidato solo ad un elemento estraneo – anche geograficamente – alla vicenda, la fidanzata Livia. La quale, già immediatamente connotata come eterna, ha delle rivali: la gelosa ispettrice Anna, la procace svedese Ingrid sono affascinate dalla personalità e dalla sensualità del poliziotto, accentratore, come di prammatica, delle pulsioni erotiche (e le tre fìmmine si troveranno riunite al capezzale dell'eroe ferito e imbarazzato nel romanzo seguente, Il cane di terracotta). Il personaggio, come più volte affermato anche dallo stesso Camilleri, qui è solo una funzione, adottata allo scopo di sviluppare un intreccio intrinsecamente logico come un’indagine poliziesca.

Nei romanzi successivi il personaggio acquisisce spessore, una sempre maggiore verosimiglianza e credibilità e si libera di certe pastoie da “attor giovane”. Fino a La voce del violino è sempre lui ad attirare le attenzioni dei personaggi femminili (l’affascinante professoressa Anna Tropeano), ma da La gita a Tindari in poi (tranne forse nel racconto Il quarto segreto) il ruolo di seduttore è affidato al più giovane e scapato Augello e ne L’odore della notte si sente addirittura dire dalla sfrontata e provocatoria Michela “Lei potrebbe essere mio padre”. [5] Inoltre si accentua la mancata vocazione di Montalbano al matrimonio, tanto da far pensare che la scelta di una fidanzata ‘continentale’ non sia casuale, ma frutto di una precisa volontà di celibato. [6]

È soprattutto a partire da Il ladro di merendine, il romanzo (il terzo) che sembra chiudere un ciclo, che d’altronde il personaggio, nella sua sfera privata, si trova a contatto con realtà sgradevoli che paiono scandire il passare del tempo: la morte del padre, quasi compensata dal desiderio di paternità, poi frustrato; il pensionamento dello stimato Questore Burlando (una tra le tante figure paterne sostitutive) e il cambio della guardia di alcuni collaboratori consolidati. Non meno significativi sono, nel corso degli anni, l’abbattimento dell’olivo saraceno, segreto rifugio e pungolo privato delle sue contorsioni mentali e la chiusura della trattoria “da Calogero”, con il conseguente peregrinare del poliziotto da un locale all’altro fino al degno sostituto, che fa emergere tutta la solitudine di un uomo alle prese con il frigorifero vuoto e con i troppi programmi della lavatrice.

Nella sfera professionale si rafforza l’inclinazione quasi solipsistica, più appropriata in un detective privato che in un funzionario pubblico, la tendenza a imporre alle situazioni la direzione di propria scelta, anche se in contrasto con i suoi presunti doveri e i suoi pretesi collaboratori. Dall’acceso contrasto travalicato in pestaggio nei confronti di Lohengrin Pera, rappresentante di uno Stato parallelo al quale Montalbano non riconosce legittimità, ma con cui è costretto a collaborare (ne Il ladro di merendine), passando per la critica alle istituzioni assenti che trasferiscono le proprie responsabilità su chi fa il proprio dovere rischiando la peddri (La gita a Tindari), si arriva ne Il giro di boa all’aperta disapprovazione nei confronti dell’operato di una parte delle forze dell’ordine nel G8 di Genova, che sfocia in una risoluzione di abbandono che viene poi (temporaneamente?) accantonata. Il commissario si sente insultato nella sua integrità, come se la sua reputazione fosse contaminata, come se le ingiurie prestamente fatte cancellare dal muro del commissariato potessero anche lontanamente insinuare una sua occulta connivenza. Non vuole essere coinvolto nell’esecuzione di leggi che reputa ingiuste, in particolare la Cozzi-Pini sulle norme dell’immigrazione, [7] ma si ritrova a contribuire involontariamente a determinare le sorti di un ragazzino nordafricano che cerca inutilmente di sfuggire al sacrificio cui è votato suo malgrado.

Nonostante la sua vocazione da aggiustadestini, tuttavia Montalbano si trova talvolta a commettere dei passi falsi, che vengono individuati e ‘coperti’ perlopiù dal suo vice e da Fazio, più complice e in sintonia con il suo superiore di quanto non lo sia lo stesso Augello. [8] Sempre più spesso, quindi, il cinquantino Montalbano viene frustrato nel suo intento di cavarsela senza aiuto; sempre più spesso fa fatica a padroneggiare una furia cieca che lo afferra e lo spinge ad episodi di violenza incontrollabile che provocano lo stupore di chi, credendo di conoscerlo bene, non li reputava possibili. Nella conclusione de La gita a Tindari, difatti, solo l'intervento dei colleghi gli impedisce di massacrare il pur colpevole dottor Ingrò, ne Il giro di boa umilia e malmena il delinquente che ha ucciso un bambino extracomunitario, davanti allo sguardo incredulo di Ingrid. [9]

Si potrebbe eccepire che il livore del poliziotto sia direttamente proporzionale all’efferatezza dei delitti sui quali si trova ad indagare proprio in questi due romanzi, in cui la società sembra scivolare in un’entropia senza ritorno. Il commercio degli organi, la tratta dei clandestini e lo sfruttamento minorile ad essi collegato suscitano infatti un tale intollerabile orrore che si potrebbe essere quasi portati a perdonare, se non a legittimare una reazione eccessiva da parte di un personaggio sempre integerrimo e votato alla difesa dei più emarginati, come i bambini immigrati (o un ulivo saraceno contorto dagli anni): del resto anche la “lezione” al colonnello Pera era collegato alle sorti di François, il piccolo tunisino reso orfano dalla “ragion di stato”. [10]

Le descrizioni delle scene contrassegnate dalla brutalità sono molto “cinematografiche”, spesso anche scopertamente, [11] infatti il Montalbano de Il giro di boa - ma già de L’odore della notte - non rimanda alle fattezze del baldanzoso Luca Zingaretti, il suo omologo televisivo (peraltro molto più giovane), ma rammenta semmai il dolente Marlowe di Robert Mitchium, lo snervato antieroe chandleriano dei film tratti da Addio mia amata e Il grande sonno, [12] in cui certo non è uno ‘splendido cinquantino’. Non stupisce che Camilleri abbia volentieri presentato il recente romanzo del giudice De Cataldo il cui protagonista è un uomo piegato, il cappotto strappato e macchiato di sangue, pochi capelli unti, i denti marci. Un vecchio. Ecco cos'era diventato”. [13]

Ci si può spingere anche oltre: anziché riecheggiare una volta di più i modelli di riferimento che la critica - me compresa - ha evidenziato principalmente finora, vale a dire Maigret e Pepe Carvalho, le circostanze e gli ambienti in cui Montalbano opera negli ultimi narrativi sembrano  avere un diverso passo che ci conduce più lontano, fino a un altro profondo Sud, quello degli Stati Uniti. Più precisamente al Mississippi della prima metà del Novecento narrato da Faulkner e che Camilleri omaggia ne L’odore della notte: [14] uno stato dell’Unione i cui abitanti, con misero orgoglio d’un tempo che fu, non ancora dimentichi della bruciante sconfitta della guerra di secessione e anzi pervicacemente abbarbicati al ricordo di tradizioni leggendarie, drammaticamente negano l’evidenza dello sfacelo e l’inevitabilità delle trasformazioni della società che pure già li scuote.

Le somiglianze del commissario siciliano con i noti detective europei sono lapalissiane e più volte ci si è soffermato lo stesso autore, dai rapporti con i Simenon televisivi al tributo dichiarato a Vazquez Montalban fin dal nome scelto per il protagonista delle sue storie. Altrove ho cercato di sottolineare gli espliciti debiti letterari di Camilleri nei confronti di altri Maestri della letteratura che è riduttivo chiamare siciliana, Pirandello e Sciascia. [15] Viceversa, aldilà dell’analogia del nome inventato che maschera il toponimo reale, tra Vigàta, nella provincia di Montelusa, e Jefferson, capoluogo inesistente dell’immaginaria contea di Yoknapatawptha di tanti narrativi di Faulkner, la contiguità è sicuramente più sottile e sfumata. Le affinità di Camilleri con la scrittura di Faulkner si ricavano non tanto da riferimenti concreti, quanto dal tipo di atmosfere, di sensazioni, di cadenze del racconto, di respiro narrativo, nonché da qualche notazione stilistica non dissimile: il frequente ricorso all’indiretto libero, il linguaggio talvolta colloquiale con bruschi passaggi ad altri registri linguistici dovuti al cambio di focalizzazione. Inoltre, uno degli interpreti principali del claustrofobico universo faulkneriano, Gavin Stevens, “paladino designato della giustizia, del vero e del bene”, [16] si trova ad agire in un contesto degradato, alle prese con delinquenti per destino, piuttosto che per scelta; con famiglie disgregate il cui unico legame è costituito dall’orgoglio, dall’odio e dall’avidità; con cupe figure di profittatori che hanno premeditato rancorosamente e a lungo i loro delitti. Situazioni in qualche modo riconoscibili in alcuni dei narrativi di Montalbano, specie in taluni racconti: si pensi all'adolescente plagiato autore di una strage di Un diario del '43, alla laida figura dello stupratore di Catarella risolve un caso, al parricida senza scrupoli di Stiamo parlando di miliardi, all'uxoricida per procura di Il gatto e il cardellino, alla nipote assassina di Ferito a morte.

Faulkner (come poi Camilleri) offre una minuziosa raffigurazione fisica di tanti personaggi, talvolta persino del loro abbigliamento, mentre di Stevens (come di Montalbano) non abbiamo un ritratto effettivo: si sa che è un uomo di vaste letture di una cinquantina d’anni (negli anni Quaranta), celibe, che fuma la pipa, gioca a scacchi e cerca di portare avanti un’interminabile traduzione della Bibbia dal greco antico. È un investigatore dilettante – fa l’avvocato – ma ha il dono dell’intuizione, che narcisisticamente non condivide con nessuno, il pallino dell’indagine solitaria che conduce completando un puzzle mentale i cui pezzi trovano sempre la loro corretta destinazione. Talvolta aspetta che l’indiziato compia un errore o lo induce con l’inganno a tradirsi, ovvero lascia che la pietà abbia il sopravvento sull'affermazione della verità: “A me interessa la verità innanzitutto, diceva lo sceriffo.Anche a me, ribatteva lo zio Gavin. È così rara. Ma mi premono di più la giustizia e gli esseri umani”. [17]

Certo le indagini di Stevens, come del resto quelle di Montalbano, sono quanto di più lontano dal romanzo poliziesco d’azione, sfuggono dalle classificazioni e dalle griglie interpretative e mettono in subbuglio i critici tanto avversati da Camilleri, i quali tendono a inserire ogni libro nel "suo bravo recintino debitamente palettato": [18] l’inchiesta è solo un pretesto per tratteggiare una terra desolata e depressa, votata alla rovina, in cui traluce dei padri la fiera virtù ed è radicata la mitizzazione del passato, ma in cui non c’è la forza, né la volontà, nemmeno forse la dignità e la purezza necessarie per risorgere. Sicuramente la visione di Camilleri riguardo alla sua Sicilia non è così tragica, ma la sfiducia nei confronti del genere umano è palpabile fin da La gita a Tindari, quando Montalbano comincia a dare i primi segni di nausea nei confronti del suo mestiere, che lo costringe a rapportarsi con situazioni e personaggi sordidi, privi di qualunque remora. Quando ritrova i cadaveri martoriati degli anziani coniugi Griffo il pur esperto commissario ha una vertigine, barcolla, fugge via e immerge la testa in un mucchio d’alghe per riprendere a respirare, solo l’odore di mare può liberarlo da tanto raccapriccio; così come Gavin Stevens “era contento di quel caldo, disse; contento di sudare, e di espellere insieme al sudore il sapore e l’odore del luogo che aveva appena lasciato”. [19] Frase che potrebbe benissimo essere pronunciata da Montalbano.

Nessuna identità di tempo, di luogo, di mestiere fra i due personaggi, quindi; li unisce solo una vaga rassomiglianza biografica – l’età, lo stato civile – e caratteriale – l’istinto della caccia, la passione per la lettura e per le elucubrazioni solitarie. Ma hanno in comune anche la stessa compassionevole pietà, unita a una certa tendenza alla noncuranza, se non al disprezzo, per le procedure dello Stato di cui pure sono servitori; e una sorta di disincantato, ironico cinismo misto alla consapevolezza dell’orrore nei confronti dei sentimenti alterati che albergano nei propri simili e ne muovono l'agire. Condividono emozioni e percezioni simili in contesti differenti, il deep South e la Sicilia della malavita organizzata, con lo stesso coraggio azzardato e disarmato di chi basa il proprio comportamento su principi che non riescono a stare al passo con i tempi.

Il cambiamento di Montalbano, la maturazione del suo atteggiamento e la dimostrazione che non siamo di fronte a un personaggio schematico e scontato, ma all'interprete irrisolto di molti dubbi e sconfitte, si possono ricavare anche da altri episodi. Ne Il cane di terracotta Montalbano per la prima volta viene ferito, ma trova la lucidità per freddare con un solo colpo di pistola l’assassino dell’amigo de alma, Gegè e viene praticamente ringraziato dalla sorella di questi, sua antica maestra elementare, quasi ne avesse vendicato la morte. Nel racconto Il quarto segreto, il commissario uccide, rammaricandosene amaramente, uno dei sicari al soldo di un "omo di rispetto"; il brano, descritto in modo insolitamente splatter, suggerisce che l'ammazzatina di un efferato delinquente non è comunque giustiziare. Infine ne Il giro di boa, in un altro concitato scontro a fuoco, il commissario pur colpito, riesce ad abbattere l'avversario ed ha un'altra reazione, non di contentezza, certo, ma di appagamento, per aver portato a termine il suo obiettivo, la salvezza di alcuni bambini, mostrando di sé un'ulteriore sfaccettatura.

Perché appunto non si tratta mai dello stesso Montalbano.

 

BIBLIOGRAFIA

ANDREA CAMILLERI, La forma dell’acqua, Sellerio, Palermo, 1994; Il cane di terracotta, Sellerio, Palermo, 1996; Il ladro di merendine, Sellerio, Palermo, 1996; La voce del violino, Sellerio, Palermo, 1997; Un mese con Montalbano, Mondadori, Milano, 1998; Gli arancini di Montalbano, Mondadori, Milano, 1999; La gita a Tindari, Sellerio, Palermo, 2000; L’odore della notte, Sellerio, Palermo, 2001; La paura di Montalbano, Mondadori, Milano, 2002; Il giro di boa, Sellerio, Palermo, 2003

WILLIAM FAULKNER, Sei racconti polizieschi, Einaudi, Torino, 2000; Go down, Moses, Einaudi, Torino, 2002; Una rosa per Emily, Adelphi, Milano 1997

SANTO PIAZZESE, Il soffio della valanga, Sellerio, Palermo, 2003

SIMONA DEMONTIS, I colori della letteratura, Rizzoli, Milano, 2001

ROBERTO BRUSADELLI, Cozzi Pini, Montalbano indaga contro la legge degli immigrati, “LaPadania”, 22/03/2003

SALVO FALLICA, “Ecco come si fabbrica un assassino”, “l'Unità”, 24/1/2003

GIORGIO LIUZZO, Miccichè “scomunica” Camilleri, “La Sicilia”, 12/05/03

BRUNELLA SCHISA , Il papà dei giallisti d’Italia adesso teme suo figlio, “Il Venerdì” di Repubblica, 07/03/2003

 

NOTE

[1] Blade runner, (id.), Usa, 1982, regia di Ridley Scott. La battuta della sceneggiatura originale (di Hampton Fancher, tratta liberamente dal romanzo di PHILIP K. DICK, Gli androidi sognano pecore meccaniche?), in verità, non contiene questa sfumatura, ma risulta decisamente offensiva nei confronti di Tyrell: “I want more life, fucker”.

[2] BRUNELLA SCHISA , Il papà dei giallisti d’Italia adesso teme suo figlio,  “Il Venerdì” di Repubblica, 07/03/2003.

[3] Ibidem.

[4] ANDREA CAMILLERI, Il giro di boa, Sellerio, Palermo, 2003, p. 30.

[5] Id., L’odore della notte, Sellerio, Palermo, 2001, p. 72.

[6] Dice di lui lo stesso Camilleri “io non capisco perché ad esempio la sua eterna fidanzata Livia continui a stare con lui… io se fossi una donna, se fossi Livia, con lui non ci starei… […] Può darsi che questo abbia un fascino per le donne ma, comunque sia, come uomo non è che mi piaccia molto” (trascrizione da un’intervista televisiva rilasciata da Camilleri a Alain Elkann, trasmessa da La 7 il 13/04/2003).

[7] La netta presa di posizione politica da parte dell'autore ha fatto molto discutere e ha suscitato infiammate polemiche: cfr., tra gli altri, ROBERTO BRUSADELLI, Cozzi Pini, Montalbano indaga contro la legge degli immigrati, su La Padania, 22/03/2003; GIORGIO LIUZZO, Miccichè "scomunica" Camilleri, su La Sicilia, 12/05/03.

[8] Infatti  in ANDREA CAMILLERI, La voce del violino, Sellerio, Palermo, 1997, p. 27, l’esperto ispettore, compreso che il commissario è entrato senza un mandato nella villa della Licalzi, quando vi arrivano ufficialmente gli raccomanda: “per sicurezza, ora che entriamo tocchi tutto a mani libere, lasci più impronte che può”; nell’epilogo di id., La gita a Tindari, Sellerio, Palermo, 2000, p. 289, Fazio e Mimì Augello intuiscono le intenzioni recondite del loro capo, lo seguono e gli impediscono di picchiare selvaggiamente il corrotto dottor Ingrò: “Perché stanotte m’avete seguito […]” “Ma Salvo, come ti può passare per la mente che Fazio e io non capiamo quello che pensi?”; ancora Fazio indovina nel commissario il teppista che ha fracassato la villa di Pellegrino in id., L’odore della notte, cit., p. 63., ma quasi lo giustifica, perché percepisce che Montalbano, di fronte all’abbattimento dell’ultracentenario albero di aulivo saraceno, sede di molte delle sue supposizioni apparentemente azzardate, ha avuto una  reazione esasperata, come se fosse “morta una criatura che gli stava cara”. In id., Il giro di boa, cit., p. 243, infine, è di nuovo Fazio l’angilo custodi, il deus ex machina che praticamente salva la vita al commissario umiliato e quasi moribondo e comunque assolutamente incapace di tirarsi fuori da solo dallo gnommero in cui si era aggrovigliato: “Da quand’è che mi vieni appresso?” “Da aieri sira. [...] non sono andato via subito, avevo la mezza idea che lei sarebbe uscito nuovamente. E così è stato”.

[9] Ibidem, p. 230: “Non sapevo che saresti stato capace di ... [...] tutta questa cattiveriafece Ingrid. Nemmeno iodisse Montalbano".

[10] E proprio l’infanzia violata di un bambino innocente, ma assassino, sarà il tema del romanzo di Camilleri in uscita per quest’autunno, La presa di Macallè, ambientato in Sicilia, nel 1935: cfr. SALVO FALLICA, “Ecco come si fabbrica un assassino”, su  l'Unità, 24/1/2003.

[11] Cfr. ANDREA CAMILLERI, Il ladro di merendine, Sellerio, Palermo, 1996., p. 221: “come aveva visto fare in un film di nazisti, schiacciò col tacco gli occhialetti del colonnello”; id., La gita a Tindari, cit., p. 287: “D’accordo, la scena si era vista e rivista in qualche pellicola americana”.

[12] Farewell, my lovely (tit. it. Marlowe, il poliziotto privato), Usa, 1975, regia di Dick Richards; The big sleep (tit. it Marlowe indaga), GB, 1977, regia di Michael Winner. Mitchium, nato nel 1917, interpreta questi ruoli alla soglia dei sessant'anni.

[13] Dalla presentazione di ANDREA CAMILLERI, Roma, 07/05/2003, a GIANCARLO DE CATALDO, Romanzo criminale, Einaudi, Torino, 2002, disponibile sul sito del Camilleri fan club, www.vigata.org.

[14] ANDREA CAMILLERI, L’odore della notte, cit., Nota p. 221.

[15] SIMONA DEMONTIS, I colori della letteratura, Rizzoli, Milano, 2001, pp.147-69.

[16] WILLIAM FAULKNER, Go down, Moses, Einaudi, Torino, 2000, p. 341.

[17] Id., Un errore di chimica, in Sei racconti polizieschi, Einaudi, Torino, 2000, p. 107.

[18] Dalla presentazione di ANDREA CAMILLERI, a GIANCARLO DE CATALDO, Romanzo criminale, cit.: "Questo romanzo di Giancarlo De Cataldo è criminale non solo nel titolo, ma soprattutto nel suo essere, nel suo proporsi. Perché è destinato a scompaginare, criminalmente, ma con mia somma goduria, le carte di tutti quei recensori e critici, e ce ne sono tanti in Italia, che amano dotare subito ogni romanzo che leggono, o che credono di aver letto, del suo bravo recintino debitamente palettato e contrassegnato da una scritta - romanzo giallo, romanzo di formazione, romanzo d’evasione, romanzo storico, romanzo familiare e via processionando - in modo da sentirsi rassicurati per l’etichettatura assegnata al ghetto giusto o al loculo giusto. Ma se Dio vuole ogni tanto viene fuori un romanzo che testardamente, criminalmente appunto, rifiuta di essere catalogato".

[19] WILLIAM FAULKNER, Monk, in Sei racconti polizieschi, cit., p. 61.

 

(pubblicato su NAE, n° 3, Giugno 2003, Edizioni Cuec, Cagliari)



Last modified Wednesday, July, 13, 2011