MAFIA. Di questa parola nei pizzini di Provenzano assolutamente non c'è traccia.
La mafia spiegata da Camilleri. Un atto d'accusa senza sconti contro chiunque ancora finga di non sapere, il ritratto di un criminale che per più di quarant'anni ha tenuto in scacco le istituzioni e costruito il proprio mito.
Da Affari a Latitanza, da Corleonesità a Politica, da Famiglia a Umiltà, Andrea Camilleri ci svela l'universo mafioso attraverso le sessanta voci di questo 'dizionario' del lessico e del pensiero di Bernardo Provenzano. E al tempo stesso, con la sua impareggiabile maestria, racconta passo per passo l'appassionante sfida che ha portato i magistrati della Procura di Palermo e la Polizia a catturare l'ultimo grande boss, nel suo covo di Montagna dei Cavalli, dopo quarantatré anni di latitanza.
I diritti d’autore di questo libro sono interamente devoluti alla Fondazione
Andrea Camilleri e Funzionari di Polizia per i figli delle vittime del dovere.
Dopo le stragi di Capaci e di via D'Amelio, dopo le morti di Falcone e Borsellino, la mafia decide di aprire una nuova fase strategica. Abbandonato lo scontro frontale con le istituzioni e le azioni eclatanti organizzate da Totò Riina, si preferisce adottare la cosiddetta "strategia dell'immersione": allentare la tensione, entrare in una zona grigia nella quale si possa, più e meglio di prima, fare affari e ritessere l'intreccio della trama criminale. "Tutto si deve svolgere in immersione, sott'acqua, quell'enorme sommergibile che è la mafia deve d'ora in avanti navigare a quota periscopio."
La mente di questo nuovo corso è quella di Bernardo Provenzano.
Latitante per quarant'anni, durante i quali la sua unica immagine pubblica è quella catturata da sbiadite foto segnaletiche giovanili, Provenzano si trasforma dallo spietato assassino noto col soprannome di 'u tratturi in capo attento, oculato, perfino conciliante, all'apparenza.
Nella frase con cui accoglie le forze dell'ordine quando viene catturato (“Voi non sapete quello che state facendo”) è racchiuso il senso minaccioso di un ordine costruito con meticolosa, sotterranea implacabilità. E gli ormai celebri "pizzini", con i loro codici e sottocodici, con le allusività e il tono ora criptico, ora oracolare, ora dimesso, con i loro svarioni autentici o calcolati (lo "sgrammatichizzo") sono l'arcaico sistema che regola una sofisticata, modernissima ragnatela.
Nel rigoglio della sua produzione narrativa quasi mai, per esplicita scelta, Andrea Camilleri ha toccato il tema della mafia. Ma quando i pizzini di Provenzano sono stati resi pubblici è stato subito chiaro che, per la loro stessa natura, quei testi costituivano per lui un'opportunità di riflessione imperdibile: linguisticamente anomali, antropologicamente emblematici per la concezione della religione, della famiglia, delle gerarchie, dei rapporti tra le persone che esprimono, sembravano fatti apposta per entrare nell'universo letterario dello scrittore di Porto Empedocle.
E così è stato. Ne è venuto fuori un libro di forte sapore narrativo e di amara onestà, di cerimoniosa ferocia e acre ironia. Una sorta di dizionario che, voce per voce, ci svela l'alfabeto con cui il boss dei boss ha parlato per più di quarant'anni alla sua organizzazione e ne smonta gli ingranaggi per mostrarci che, sotto la superficie di parole apparentemente comuni, può celarsi la feroce banalità del male. E che i primi anticorpi che una società civile deve sviluppare contro la vischiosa rete delle complicità mafiose sono quelli di un linguaggio limpido, onesto, condiviso.
Un libro, questo, in cui il piacere della lettura, il gusto per la battuta e per il paradosso non si possono districare mai da un diffuso senso di allarme. E anche questa è una nota nuova nell'orchestrazione stilistica del Maestro: per la prima volta, forse, il lettore non approda alla catarsi dell'invenzione camilleriana ma rimane inchiodato, attonito, davanti alla grottesca efferatezza del mondo.
AMMAZZARE
Pare che Bernardo Provenzano, assai giovane, dopo un violento alterco in una osteria con un compaesano e amico corleonese, l’avesse invitato ad andare con lui in aperta campagna per un ragionamento. E qui l’aveva ammazzato, standogli sopra a cavalcioni e colpendolo ripetutamente al cranio con una grossa pietra.
«Disse Caino al fratello Abele: “Usciamo fuori”. E come furon pei campi, Caino insorse contro il fratello Abele e l’uccise».
Con una pietra, allo stesso modo di Provenzano. Singolare questo biblico inizio di carriera. Di certo, Provenzano giovane girava armato se non di pistola almeno di coltello. Perché adoperò una pietra per commettere il suo primo delitto? È da escludere che già allora fosse quell’attento lettore, e chiosatore, della Bibbia che diventerà in età avanzata. Si tratta di una delle circolarità della sua esistenza. È l’unico omicidio che compie con quel sistema primitivo; dopo quello, adopererà sempre con profitto pistola, lupara e mitra. [...]
Successore naturaliter di Totò Riina (arrestato a Palermo il 15 gennaio 1993) come capo supremo della mafia, dopo la sconfitta della lotta armata intrapresa dai corleonesi prima contro i rivali e poi contro lo Stato, e dopo un breve e malsopportato interregno di Leoluca Bagarella, cognato di Riina, Provenzano seppe subito imporre, alternando fermezza a persuasione e mediando tra opposti pareri, la sua linea.
Niente più scrusciu sui giornali per ammazzatine, bombe, agguati. Alcuni che lo conoscevano bene si stupirono di questo suo atteggiamento, il solito Giuffrè disse che nel 1993, appena uscito dal carcere, era andato a trovare Provenzano e l’aveva visto «riciclato, da battagliero che era, mostrava ora sintomi di santità».
Provenzano chiede e ottiene dalle famiglie mafiose un periodo di dieci anni di tranquillità, di sommersione, per poter risolvere i grandi problemi dell’organizzazione. L’intenzione è quella di ottenere, in un modo o nell’altro, l’abrogazione dell’ergastolo, la cancellazione dell’articolo 41 bis del codice penale (che prevede il cosiddetto carcere duro per i capi mafiosi), quella della legislazione sui pentiti e quella che consente la confisca dei patrimoni illeciti. Tutti gli affari vanno fatti e conclusi sempre con estrema discrezione, in silenzio, senza mai suscitare aperti e clamorosi contrasti. Tutto si deve svolgere in immersione, sott’acqua, quell’enorme sommergibile che è la mafia deve d’ora in avanti navigare a quota periscopio.
Divieto assoluto di usare le armi, dunque? Sissignori, niente più ammazzatine facili.
Provenzano, con questo divieto, torna all’antico, al codice della vecchia mafia. [...]
Ai magistrati che lo interrogarono Giuffrè ha raccontato che Provenzano teorizzò, con molta saggezza, che prima di procedere in modo definitivo contro qualcuno è bene considerare se questo qualcuno può fare più danno da vivo o da morto. Se può fare più danno da vivo, che si proceda pure; se invece può fare più danno da morto (nel senso che la sua morte potrebbe provocare vendette, strascichi, scissioni interne e anche una reazione da parte dello Stato, che a volte trasforma agli occhi dell’opinione pubblica le vittime in eroi) allora è meglio soprassedere.
Nota bene: in tutti i pizzini conosciuti di Provenzano il verbo ammazzare (o il siciliano astutare che significa spegnere), e i sinonimi uccidere, assassinare, sopprimere, non compaiono mai.
MARIA, AVE
Nella sala colloqui del carcere di Pagliarelli gli investigatori hanno disposto una serie di microfoni che possano intercettare i discorsi tra Pino Lipari – consigliere e amministratore dei beni di Provenzano – che è stato arrestato, e suo figlio Arturo.
Quest’ultimo ha il compito di ricopiare i pizzini di Provenzano indirizzati al padre e farglieli avere in carcere.
Un giorno viene ascoltato questo colloquio: «Quella risposta è arrivata» dice Arturo riferendosi a un pizzino di Provenzano. E prosegue domandando: «L’hai letta tu?».
Ma il padre risponde con un’altra domanda. «Però non era tutta completa, vero?».
Arturo si giustifica delle omissioni. «C’erano un sacco di Ave Maria». E Pino Lipari, irritato: «Un’altra volta, tutta, perché in mezzo all’Ave Maria io devo capire, capisco qualche cosa... hai capito?». [...]
Che cosa può essere quel qualche cosa da capire in mezzo all’Ave Maria? Quasi certamente un di più e cioè lo stato d’animo di Provenzano. Oltretutto Pino Lipari era stato il consigliere più ascoltato e l’uomo che gli aveva rifatto l’immagine, e quindi era colui che poteva meglio di tutti interpretare gli stati d’animo e gli sbalzi d’umore del suo capo: probabilmente era in grado di capire dalla quantità di Ave Maria, dalla loro collocazione, dal loro alternarsi, quale importanza Provenzano desse a una certa questione da risolvere. Un codice psicologico che magari colui che scriveva non sapeva di star mettendo in atto, mentre colui che leggeva l’interpretava benissimo.
UMILTÀ
Le professioni d’umiltà negli scritti di Provenzano sono frequentissime.
Egli vuole maniacalmente ribadire in ogni occasione agli altri esponenti delle famiglie mafiose che intende esercitare il suo potere di capo dei capi non come un comandante assoluto o un dittatore, come usava fare Riina, bensì come un primus inter pares. Doveva far dimenticare il Provenzano di prima, quello che non ammetteva né errori né meno che mai disubbidienze. Chi trasgrediva pagava con la vita. Voleva seguire l’insegnamento dei grandi capimafia del passato, come ad esempio don Calò Vizzini che amava ripetere la frase: Iu nuddu sugnu. Io sono nessuno. Anche a Ulisse, dopo aver fatto quello che fece, capitò di dire che era nessuno.
Provenzano allora si mette a scrivere frasi come queste:
Io con il volere di Dio voglio essere un servitore, comandatemi, e sé possibile con calma e riservatezza vediamo di andare avandi, e spero tando, per voi nella vostra collaborazione.
... Il mio fine è pregarvi...
... sono nato per servire...
Arriva persino alla sottigliezza di dichiarare di volere lui, Provenzano, un consiglio da chi glielo sta richiedendo:
Tu mi chiedi se io ho qualche consiglio in merito, cerco lo stesso da te, che tu potessi consigliare a me...
Di conseguenza mai darà ufficialmente un ordine, tutt’al più prenderà una decisione dopo aver sentito i diversi pareri e questa decisione sarà da lui espressa sotto forma di consiglio.
Ma nessuno si permetterà di non seguirlo, questo consiglio che in realtà è un ordine, in quanto non solo viene da Provenzano, ma costituisce una sorta di comune denominatore tra opposti pareri, è l’espressione di un equilibrio faticosamente raggiunto tra contrastanti interessi.
Andrea Camilleri
(Anticipazione pubblicata su La Stampa, 5.10.2007)
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