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Perché faccio scomparire il commissario Montalbano



La primavera di MicroMega

Andrea Camilleri discute con Giovanni Aliquò, Carlo Morselli, Paolo Di Fonzo, Giuseppe Simonelli, Antonia Napoli, Salvatore La Rosa, Antonio Giordano

Il testo che segue è la trascrizione del dialogo tra Andea Camilleri e alcuni rappresentanti dell'Associazione nazionale funzionari di polizia, incontro organizzato il 2 dicembre 2005 dall'Anfp e dalla rivista "Forze civili", organo sociale dell'associazione (da La primavera di MicroMega, n.3, 16/3/2006).

Andrea Camilleri: Cominciamo dalle mie lettere commendatizie. Le commendatizie mie possono essere queste: che sono stato picchiato, manganellato dalla polizia di Scelba, la famosa celere; che sono stato, come si dice, deferito all’autorità giudiziaria, e portato in camera di sicurezza per vilipendio delle forze armate in uno spettacolo che feci a Napoli. Il bello è che allora le forze armate erano la stessa polizia, perché la polizia non era stata ancora smilitarizzata. Venni assolto con formula piena. Anzi no: il «giudice istruttore» – come si chiamava, credo, allora – disse che non c’era reato, anche se il copione non l’aveva letto. Lo spettacolo era stato interrotto dal procuratore della Repubblica alla fine del primo atto, ma io avevo in tasca un biglietto del questore di Napoli, che mi diceva: «per me va benissimo». Tre mesi prima infatti era stata abolita la censura, e io avevo mandato al questore la mia commedia pregandolo di dare istruzioni al commissario in servizio. Doverosamente, il questore disse: «Per me va benissimo, ci vediamo alla prima». Se non che il procuratore della Repubblica invitò il commissario in servizio ad agire, e questo povero commissario mi disse: «Dottore, io avevo avuto l’ordine dal questore di essere sordo e cieco, ma...» Queste sono le mie commendatizie di cittadino.

Ho cominciato a scrivere in tarda età. Il mio modo di scrivere è anarchico: comincio un romanzo storico, un romanzo civile, partendo solitamente da uno spunto vero, da uno spunto storico, e inizio proprio a partire dall’aspetto di quello spunto che più mi ha eccitato; comincio dall’input ricevuto, e attorno a quell’input costruisco via via il romanzo. Non so se poi quell’input, a romanzo finito, finirà in testa, in mezzo o in coda.

Un giorno mi sono chiesto: ma sei capace di scrivere un romanzo dalla A alla Z? Sei capace di cominciare la mattina e finire la sera, con una consequenzialità logica, temporale, spaziale? E allora mi venne in mente lo scritto di Sciascia sul romanzo poliziesco. Il romanzo poliziesco obbliga l’autore dentro una gabbia logica perfetta. Certo, l’investigatore può avere delle illuminazioni, ma in genere il poliziotto non è un medium, è invece uno che usa la logica, che comincia a ragionare sopra una cosa.

E mi venne in mente un bellissimo libro che avevo letto quando avevo quindici anni, nel 1940, che è una storia straordinaria. È un romanzo giallo, americano: l’investigatore a Miami è malato, e manda il suo vice su uno yacht dove è avvenuto un delitto. Il vice fa avere al capo, e a noi lettori, tutto quello che trova: cicche di sigarette, foglietti scritti eccetera, e alla fine l’investigatore arriva a una conclusione, e invita i lettori a trovare la soluzione che lui ha trovato: infatti le ultime cinque pagine sono sigillate. È una specie di quiz più che un romanzo giallo. Lettore e investigatore lavorano a parità di condizioni, e questo è fondamentale nella scrittura di un giallo.

E allora cominciai a scrivere La forma dell’acqua. Come dicevo, tutti i miei gialli nascono dalla cronaca: attingono alla realtà, la trasformano fantasticamente e la restituiscono nella dimensione del verosimile. La storia di La forma dell’acqua, che è il mio primo giallo, prende spunto da un fatto accaduto vicino Viterbo: un notabile della Democrazia cristiana morì, poveraccio, in casa dell’amante, e allora fu portato in un altro posto per non rivelare dove fosse morto in realtà. Io ho preso questa notizia di cronaca e l’ho alterata, facendone una sorta di damnatio dell’immagine di questo uomo politico.

Scrissi questo romanzo e Sellerio lo pubblicò, ma io rimasi un po’ così, perché il personaggio non era definito. Per il mio mestiere di regista di teatro io ero abituato, sono abituato, quando scrivo, a vedere dopo un po’ quel personaggio che mi comincia a camminare per la stanza. È questo che fa il regista di teatro: legge il copione e comincia a immaginare come si muove il personaggio, come parla, come si siede su una sedia, e poi dice all’attore: «Fai in questo modo», perché ha un suo personaggio che si è alzato dalla pagina.

Il mio Montalbano, secondo me, non era finito nel disegno del personaggio, e allora scrissi il secondo libro, Il cane di terracotta, e decisi di non scrivere più romanzi gialli, non mi interessavano.

Ma Elvira Sellerio, l’editore, mi disse: «Quando mi dai il nuovo romanzo di Montalbano?». «Ma non ho nessuna intenzione di darti un romanzo di Montalbano». Disse: «Guarda, avevamo venduto 130 mila copie delle tue opere, con Montalbano siamo arrivati a 980 mila in 8 mesi, fai un po’ tu». E Montalbano mi fregò, perché non solo vendeva lui, ma faceva da apripista, nel senso che si portava appresso i romanzi ai quali io tenevo di più, come Il Birraio di Preston e La concessione del telefono.

Lo stesso è avvenuto nel mondo, e mi fa piacere dirlo a voi che siete commissari: il commissario Montalbano è conosciuto in 27 paesi – in Germania, per esempio, del solo Montalbano sto toccando 4 milioni di copie vendute – e l’anno prossimo sarà conosciuto in Cina e nella Corea del Sud. E, bene o male, l’immagine che dò della polizia italiana mi pare abbastanza positiva.

Perché ho scelto un poliziotto? Io sono siciliano, e ho letto, in uno studio che è stato fatto, che Campania, Sicilia e Lazio danno il maggior apporto di uomini alla polizia. Bene, essendo io nato nel 1925, e avendo quindi avuto modo di arrivare fino ai miei 17 anni sotto il fascismo, ricordo che dalle mie parti ci si fidava di più dei carabinieri che non della polizia, perché la polizia era più politicizzata, e quindi un latitante preferiva consegnarsi ai carabinieri.

Quando ho cominciato a scrivere Montalbano, io mi sono detto: prima di tutto voglio un funzionario istituzionale, può essere un tenente dei carabinieri, può essere un commissario di pubblica sicurezza. Finii con lo scegliere il commissario di pubblica sicurezza, perché c’è una certa rigidità militare nei carabinieri che mi faceva scarso gioco. Mi faceva più gioco avere un uomo con possibilità maggiori di muoversi. Non sapevo nulla dell’ordinamento della polizia, e ho scritto il primo, il secondo romanzo, continuando a non saperne assolutamente nulla.

A me non capitò quello che capitò a Simenon, che quando scrisse poi il terzo romanzo con Maigret, l’illuminatissimo capo della polizia francese di quel periodo lo chiamò e gli disse: «Senta, faccia un po’ di pratica nei nostri uffici», e Simenon stette tre mesi a imparare i vari rapporti, come ci si doveva muovere eccetera.

Io credevo di scrivere, ve lo dico sinceramente, delle favole per poliziotti, allo stesso modo come James Bond è una favola per spie, perché le spie devono essere anonime, invisibili, mentre Bond è un esibizionista, è uno che camperebbe, come spia, tre secondi, lo farebbero fuori immediatamente. Allora, l’idea di un commissario che in realtà se ne potesse stracatafottere, perdonate il verbo, del pm eccetera, mi permetteva di andare a ruota libera. Poi la realtà non è quella, siamo perfettamente d’accordo. Però, quando scrissi il terzo giallo, il Siulp di Bologna mi diede il premio per il migliore romanzo, e lì mi è capitato di vivere con dei poliziotti, con le volanti bolognesi. E allora sì, allora ne cominciai a capire qualcosa. Ma questo non spostava di un millimetro quello che avevo in mente di scrivere. Quindi ho continuato.

Di questo poliziotto ho fatto uno come me o come voi, cioè a dire una persona normale, una persona che si è contenti di invitare a cena, a casa. Mentre con gli altri poliziotti, per esempio nella letteratura poliziesca statunitense, beh, uno starebbe un po’ attento, perché sono dei violenti, passano a vie di fatto. E poi, sono dei super eroi: la mattina alle otto sono presi di striscio, alle dieci ricevono una mazzata con una mazza da golf, alle cinque vengono picchiati da tre bruti col calcio della pistola, la sera alle nove sono a letto con la bionda fatale. Mentre uno di noi scapperebbe urlando al solo avvicinarsi dell’infermiera.

Queste sono cose irreali, a me invece interessava il verosimile. È Maigret che, quindi, in un certo senso, è diventato il mio mentore, la mia guida all’interno di una mentalità di un poliziotto, e della borghesia, e della buona ambizione di borghese di un poliziotto. Questo è stato per me fondamentale come individuazione del personaggio. Poi gli ho dato i suoi vizi, i suoi difetti, le sue virtù. Ma che dovesse andare incontro a un simile successo io non lo sospettavo neanche lontanamente.

Mi chiedono spesso: a chi assomiglia Montalbano? E io, fino a qualche anno fa, non ho mai saputo spiegare a chi assomigliasse. Poi mia moglie mi disse: «Ma ti rendi conto che stai facendo un lungo ritratto di tuo padre?». Era vero. Agli occhi di mia moglie – che non è siciliana, ma di educazione milanese, e quindi si trova a una certa distanza da ciò che scrivo – appariva chiaro che stavo facendo, e ho continuato a fare, a tratti, a spezzoni, un ritratto di mio padre. Credo che i caratteri migliori che voi potrete trovare in Montalbano sono il riflesso dell’insegnamento quotidiano di mio padre. Il quale non seppe insegnarmi nulla, se non essere quello che sono. Mi sembra un altissimo insegnamento.

Non è che sono state sempre rose e fiori, perché io di questo personaggio ho cercato di farne un uomo che viveva nel suo tempo. La cosa che non finirò mai di rimproverare a Simenon e al suo Maigret, è quella di essere un personaggio atemporale: Maigret attraversa un periodo della Francia, che è la Francia del Fronte popolare, la Francia della guerra, la Francia di Vichy, la Francia terribile, eppure non c’è nulla che dentro il personaggio Maigret venga recepito dalla realtà che lo circonda, se non l’esatta individuazione della limitata realtà afferente, che riguarda l’omicidio, il delitto. Lì è bravissimo, ma è come se al posto degli occhi avesse un microscopio che gli impedisce una visione generale del mondo e della realtà che lo circonda, sociale, politica eccetera.

Invece il mio personaggio la vive questa realtà, la vive tutti i giorni, la vive direi quasi civilmente, da civis, da cittadino che ha le sue idee. Quindi arrivai, a un certo punto, a quel famoso romanzo, Il giro di boa, che ha suscitato una quantità di polemiche per la crisi che provoca in Montalbano.

Devo dire che un mese dopo che il romanzo uscì, ho avuto uno degli incontri più belli mai avuti a proposito di un mio romanzo, qui a Roma, al ridotto dell’Eliseo, dove il Silp organizzò l’incontro con i poliziotti. Il teatro era gremito, mi fecero un sacco di domande, ma era chiaro che in tutti serpeggiava un certo disagio. Ora, andare a scrivere quello che alcuni giornali hanno scritto: «Camilleri offende la polizia» eccetera, è di una stupidità assoluta, per un motivo molto semplice: io non posso offendere un personaggio che amo e che mi ha dato il successo. Mettete conto che ho una famiglia di amici e io so, mentre loro non lo sanno, che il loro figlio si droga. Domanda: devo tacere o devo dire a questi due amici: guardate che vostro figlio si droga? E se io glielo dico, quello che faccio è un’offesa oppure un dovere di amicizia? Io credo che sia un dovere di amicizia e che non c’è niente da offendersi, c’è semmai da discuterne. Nessuno scrive vangeli o corani, io scrivo romanzi, romanzi di intrattenimento, medio, alto, come volete voi, ma sempre opere dettate dalla fantasia, che si scontra quotidianamente con una realtà.

Il migliore Montalbano l’ho visto in azione – non è retorica, è assoluta realtà – quando venne il presidente Ciampi ad Agrigento e decise di farmi l’onore di nominare me grande ufficiale, Luca Zingaretti cavaliere. Io mi sentii veramente umiliato di essere uno scrittore, da una persona che non voleva per niente umiliarmi: io che ho creato un personaggio immaginario, insieme a colui che lo interpretava, venivo, come posso dire, riconosciuto dal presidente della Repubblica. Ma in questa sorta di sandwich, in mezzo c’era quello che allora era il vicequestore di Agrigento, nominato commendatore, che non riuscì a spiccicare una parola in croce, come Montalbano a una conferenza stampa. Sei mesi prima, quando un barcone di disperati era andato a sbattere sugli scogli, davanti a Porto Empedocle, in un mare orrendo e in una notte orrenda, quest’uomo si era levato la giacca, si era levato i pantaloni, si era buttato in acqua, aveva raggiunto a nuoto uno scoglio dove c’erano aggrappati un po’ di disperati, e aveva detto loro: «Coraggio, ora vengono a salvarvi, dai, coraggio, tenetevi, resistete». E allora io mi sono vergognato di essere solo un inventore di storie.

Giovanni Aliquò (segretario nazionale dell’Anfp): Sono d’accordo con lei su alcune analisi che ha compiuto, sul sospetto di sempre, per esempio, che può alimentarsi verso la polizia in relazione al rischio di eccessiva contiguità ai poteri politici governativi. Non le nascondo che purtroppo questo tratto della polizia è l’effetto di tutta una serie di dinamiche, di potere interno al ministero dell’Interno, che non hanno mai consentito alla polizia grandi garanzie nei confronti dei «poteri forti», che non sono solo quelli politici, ma anche, con tutta evidenza, quelli economici, che con i primi vanno a braccetto.

La ringraziamo però per aver scelto la figura del funzionario di polizia come portatore di una maggiore libertà di movimento. Questo è un altro elemento reale, autentico: il funzionario di polizia forte, intelligente, capace, preparato – grazie a una serie di spazi che, più per incapacità che per effettiva volontà, sono lasciati liberi dall’amministrazione, spesso per scopi assolutamente diversi da quelli della tutela delle libertà individuali – può affermare la propria personalità in termini positivi, con maggiore flessibilità di altre strutture più fortemente gerarchizzate.

Che il commissario Montalbano sia una persona che si potrebbe avere piacere di invitare a casa, e segnatamente a cena, ce ne eravamo accorti dalla lettura dei suoi libri: insomma, è una buona forchetta il commissario Montalbano, e molti di noi lo sono pure, soprattutto quando si confrontano con certe pietanze siciliane, delle quali si fa accurata descrizione nei suoi testi.

Che il commissario di polizia sia però un uomo in grado di percepire direttamente le realtà quotidiane, è anche questa una verità che è sotto gli occhi di tutti e che costituisce il migliore patrimonio che tra funzionari di polizia ci tramandiamo.

Qui ci sono colleghi che vengono da tutte le parti d’Italia, dalla Campania, molti dalla Sicilia, dal Veneto, dal Piemonte, dalla Liguria; eppure tutti noi ci troviamo in una stessa condizione, che è quella difficilissima di chi deve oggi amministrare interessi vari, compresi quelli della sicurezza e della giustizia, in una situazione in cui non è sempre facile farlo; in cui le pressioni esterne – politiche, ma anche amministrative – sono notevoli, e nelle quali l’unico reale baluardo è soprattutto la propria cultura e forza d’animo e, adesso, piano piano, anche la capacità di autorganizzarci e di parlare tra di noi dei nostri problemi.

Non le nascondo però che io – ma credo che questa sia un’esperienza che anche altri colleghi hanno provato – a volte ho come un senso di inutilità nel lavorare, nel fare bene il mio mestiere, perché sembra che prevalga la telefonata del politico ultimo giunto, che tramite il ministro, il sottosegretario, il prefetto, il questore, alla fine non ti dice di fare qualcosa di specifico, però ti impone delle condizioni per cui sei costretto, alla fine, a fare come dicono «gli altri».

E qui mettiamo i piedi nel piatto, veniamo a Il giro di boa. Ho letto anch’io il romanzo e non mi sono, ahimè, scandalizzato. Anzi, in una serie di confronti che ho avuto con magistrati e altre persone che si erano occupate dei casi di Genova, ho avuto più volte modo di dire: signori, dobbiamo analizzare le ragioni di questo insuccesso, perché, diciamocelo chiaramente, quello di Genova è stato quanto meno un insuccesso tecnico dovute a scelte tecniche errate – e questo lo si può dire senza ovviamente attribuire altre responsabilità a nessuno: c’è un processo in corso. E tuttavia, quando si giudicano fatti del genere, si possono eliminare completamente considerazioni di carattere umano? Si può tollerare il fatto che, con una certa tracotanza, soggetti che forse non avevano tenuto, da un punto di vista professionale e deontologico, condotte del tutto corrette – da un punto di vista penale non sono io che giudico – abbiano poi trovato, con sfacciataggine, approdi in qualifiche superiori, promozioni folgoranti, a discapito di persone che, onestamente e quotidianamente, fanno il loro mestiere, con grande dignità e con grande rispetto per il prossimo?

Ecco, su queste cose – che pure sono venute alla luce sulla stampa, e contro le quali noi abbiamo protestato con dei volantini fortissimi, con toni mai usati prima – su queste cose poi cala il silenzio, perché alla fine si dice: si tratta di questioni interne. E così si tende a rimuovere il problema.

Noi non vogliamo rimuovere il problema, perché lei l’ha posto con grande garbo, e con grande garbo io le debbo dire che non vogliamo fingere che nulla si sappia, non vogliamo fare la parte dei genitori che si offendono perché qualcuno dice loro che c’è un problema in casa con il loro figliolo.

Abbiamo il coraggio di affrontare e di guardare negli occhi anche i nostri errori? In primo luogo quelli tecnici, ma in secondo luogo anche quelli dei politici. Dobbiamo avere la forza e anche la determinazione di andare alle cause, che non dipendono solo dalle contingenze e dalle persone, ma si radicano anche nelle organizzazioni, nel modo in cui è organizzata la nostra istituzione.

Vede, una cosa che emerge solo raramente nei suoi romanzi, proprio perché forse lei non ha approfondito la nostra organizzazione interna, è un nostro singolare problema: che nella polizia non esiste una linea di comando chiara e inequivoca, alla quale attribuire la responsabilità delle scelte. Abbiamo una divaricazione al vertice: prefetti da una parte, poliziotti dall’altra; prefetti che decidono con la mentalità del prefetto, che, con un eufemismo, è una mentalità di mediazione, non sempre coerente con lo spirito delle norme, e con attenzione agli equilibri della politica; e dall’altra abbiamo poliziotti che, probabilmente, a questa mentalità prefettizia sono costretti ad adeguarsi.

Sul territorio risentiamo di questa dicotomia.

Ecco, il miglior Montalbano, lei ci ha detto, l’ho conosciuto davvero. Noi avremmo voluto presentarle qui colleghi ai quali i poteri mafiosi hanno inferto gravi danni, costringendoli ad andarsene via dalle loro case. Potremmo presentarle tutta una serie di colleghi che nel quotidiano e oscuramente, con il loro «normale» lavoro, non si flettono alle vischiosità di un potere che antepone una legalità formale alla legalità dei diritti, e che spesso piega la nostra istituzione a fare cose che non sono del tutto coerenti con le finalità che la legge ci imporrebbe di perseguire.

Credo che un intervento, per dare maggiore nettezza alla linea di comando in polizia, e soprattutto per affermare il reale, concreto rispetto della legalità dello Stato democratico contro le opacità e la scarsezza di trasparenza della condotta di taluni, sarebbe veramente un obiettivo importante da raggiungere. E sarebbe un obiettivo che, anche con il suo aiuto, potremmo ancora meglio raggiungere, perché riuscire a trasmettere all’opinione pubblica il senso più profondo delle nostre ragioni non è sempre facile.

Camilleri: Volevo ricordare che, in questo famigerato Giro di boa, io non parlo neanche lontanamente di quello che è comunque l’unico fatto inequivocabile, accertato e sul quale non si discute, e cioè la presenza di un morto. E non per fare un favore ai carabinieri, ma esclusivamente perché penso che quel disgraziato episodio faccia parte delle possibilità che vengono ad esserci in una manifestazione che assume dei caratteri violenti. Lì ci troviamo di fronte a un ragazzo di primo pelo, che perde la testa e spara. Questo per me è un incidente di percorso, gravissimo, serissimo, ma pur sempre un incidente. Quello che mi interessa considerare è proprio il fallimento tecnico di tutta l’operazione di cui parlava l’amico Aliquò, perché pochi giorni dopo, in altri momenti e in altre manifestazioni altrettanto pericolose, la polizia tenne un contegno esemplare: garantì l’ordine pubblico e non successe niente. E allora perché due pesi e due misure? Questo è il problema.

Nel Giro di boa, Montalbano crede che nella cabina di comando a Genova ci sia gente che non deve starci, e probabilmente c’era, ma non riesce a spiegarsi perché allora a Napoli siano avvenuti dei fatti in cui nella cabina di comando c’era solo gente che doveva starci. E allora si chiede: dov’è che è la malattia? Dentro di noi? Certe volte le malattie sono molto utili, cioè a dire: qual è la prima cosa che salta agli occhi, a me cittadino, dei fatti di Genova? Che le forze dell’ordine non erano adeguate, che non erano in grado di contenere una certa situazione, che erano impreparate.

La domanda seguente è: e perché non erano preparate? Forse perché fa piacere che ci siano dei reparti che non sono preparati e possono reagire male a una certa situazione? Quale gioco c’è sotto? Non lo so. Ma è chiaro che io cittadino preferisco che, nel momento in cui c’è una sommossa, ci sia gente specializzata, non che ci mandino il primo che capita, magari preso da Palermo e spedito lì per l’occasione, a fare un lavoro che forse probabilmente non era in grado di fare e non gli competeva.

Secondo punto. Ho scoperto che siete tra i meno pagati, mentre in realtà dovreste essere benissimo pagati! Perché in realtà ci coprite le spalle, nei limiti del possibile, nel limite di quello che vi danno. Poi c’è la rapina in villa… Succedono, succedevano, sono un po’ aumentate, ma non è quello il problema. E soldi ce ne vorrebbero tanti, perché possiate svolgere le vostre funzioni. Con la stessa sincerità con la quale ho criticato il comportamento della polizia nel G8, devo dire che sono terrorizzato dal venire a sapere che talvolta non avete neppure i soldi per la benzina!

Io mi terrorizzo, da cittadino, al pensiero che a Napoli, a Scampia, c’è una commissaria amica mia – una commissaria che amo, che è stata commissaria a Porto Empedocle, dove siamo diventati amicissimi, poi l’hanno trasferita alle volanti a Napoli, figuriamoci, da Porto Empedocle alle volanti a Napoli! – che non ha benzina! Ma allora uno Stato che non mette in condizioni di operare è uno Stato complice!

I soldi, poi, sono necessari soprattutto perché possiate veramente diventare servitori dello Stato, senza dover sottostare ai tentativi di farvi diventare servitori del governo.

Lo sapete tutti che io sono un uomo di sinistra, ma questo lo dico anche contro un eventuale governo di sinistra: la polizia può combattere contro i criminali, il disordine pubblico, l’emigrazione clandestina, ma deve anche combattere all’interno del suo palazzo, per avere un minimo di autonomia... Beh, stiamo chiedendo un po’ troppo alla polizia, bisognerebbe metterla in grado di lavorare.

Poi, secondo me, c’è una certa limitazione nelle indagini del poliziotto. Me lo direte voi, ma a me sembra che la dipendenza di chi fa una investigazione dall’autorità giudiziaria sia eccessiva, in quanto limita la «sbirraggine dello sbirro». Certo, il poliziotto ha un certo fiuto, ha una certa inclinazione, mentre il prefetto ha un’altra educazione, il magistrato ne ha un’altra ancora. Per l’amor del cielo, non penso affatto che vi debba essere un allentamento delle garanzie che il cittadino deve avere; anzi, chiamiamo l’avvocato fin dal primo minuto, ma a dirigere le indagini, almeno in un primo tempo, deve essere il poliziotto stesso, autonomamente. Non so come si possa raggiungere questo obiettivo, è un’aspirazione, ne farò forse un sogno di Montalbano. Da uno dei suoi sogni forse può nascere qualche cosa.

Carlo Morselli (presidente dell’Anfp): Montalbano è sempre lo stesso, cambiano i vari questori. Possibile che fra questi non ce ne sia neppure uno buono? Possibile che il questore sia sempre il personaggio più odioso?

Camilleri: Il personaggio più odioso è il capo di Gabinetto Lattes, Bonetti Alderighi è un po’ così, rampante eccetera. Ma Montalbano ha avuto il questore Burlando, che era come suo padre, e che oltre tutto portava il nome della stessa fidanzata, ma non ce ne sono stati altri. Lei non mi può accusare di questo, perché allora, leggendo i romanzi storici, i prefetti otterrebbero la fucilazione. La concessione del telefono in questo senso è esemplare.

Ho conosciuto dei questori di alto livello, e mi onoro di essere amico di uno di questi questori che ho incontrato diverse volte a Porto Empedocle. Un questore montalbaniano: quando, da solo, a piazza Alimonda, è uscito a stringere la mano al padre del ragazzo ucciso, non aveva scorta, non aveva niente, era lui, solo un uomo che stringeva la mano a un uomo che aveva perso il figlio.

Paolo Di Fonzo (vicesegretario nazionale dell’Anfp): Come mai non ha ritenuto di dare a Montalbano una famiglia normale? È casuale o in questo c’è un messaggio, magari dovuto a un’esperienza personale?

Camilleri: No, non è una cosa che nasce da un’esperienza personale, perché io mi porto addosso brillantemente 47 anni di matrimonio con mia moglie. In certe situazioni mi sono anche vergognato, perché io portavo con me questa vecchia moglie con amici che avevano avuto quattro mogli, cinque mogli… Quindi uno si sente un po’ fuori gioco, fuori moda. Però ho visto che tanti legami di coppia che avevano scadenze di incontri da un week-end, avevano poi delle durate straordinarie. E questo perché? Perché tutta la rogna quotidiana veniva eliminata! Poi c’era il piacere di stare assieme due o tre giorni, questa cosa si diluiva nel tempo. Montalbano sostanzialmente è un egoista, e sostanzialmente è un single. Su questo non credo che ci sia un minimo di dubbio. Basta che abbia una buona cameriera, come Adelina, che gli prepara i pasti. È un uomo anche abbastanza casto, quindi gli va benissimo. Livia, per lui è tutto, è quello che un mio amico una volta chiamava «l’ampio bacino di Venere»: madre, amante, figlia, sorella, sposa, tutto ci puoi trovare in quel bacino, no? Ecco, Livia è per lui l’unica donna che riesca a dirgli le cose come stanno. E allora, se lo facevo maritare con Livia, e magari mi veniva pure in mente che cucinava bene, eravamo rovinati, poi Montalbano non si muoveva più da casa! Fortunatamente Livia cucina male, un po’ «svizzera». E quindi credo che sia un rapporto destinato a durare fin quando durerà il commissario Montalbano.

Giuseppe Simonelli (consigliere nazionale dell’Anfp): Quanto durerà il commissario Montalbano? Ci ha pensato mai? Ci sta pensando? O ancora non se lo è rappresentato, se farà carriera, se morirà ammazzato...?

Camilleri: L’ultimo romanzo di Montalbano è già scritto e consegnato all’editore. L’ultimo in assoluto. Perché avendo raggiunto gli 80 anni, sono un uomo che vuole lasciare le cose in ordine. Però, attenzione, io avevo due grandi amici, tutti e due grandi scrittori di gialli. Uno era Jean-Claude Izzo, marsigliese, che per liberarsi della sua straordinaria figura del commissario Fabio Montale lo lascia quasi morire su una barca alla deriva: non si sa se si salva, ma sicuramente Izzo non c’è più. E poi Manuel Vázquez Montalbán, che diceva: «Come faccio a liberarmi di Pepe Carvalho?». È andata a finire che è morto lui e Pepe Carvalho è rimasto vivo. Quindi io, per scaramanzia, a Montalbano non gli dico che ho intenzione di eliminarlo, perché è capace che mi liquida prima lui. Però il romanzo io l’ho scritto, l’ho finito, ma è nel cassetto della signora Elvira Sellerio, a futura memoria. Perché ho avuto l’illuminazione su come farlo finire – e non banalmente con un colpo di pistola o mandandolo in pensione, ma su come farlo scomparire come personaggio letterario, togliendogli la possibilità di sopravvivenza.

Antonia Napoli (segretario provinciale dell’Anfp di Reggio Calabria): Come ha fatto a cogliere nelle lettere dei suoi romanzi, ad esempio, del delegato di Vigata e del comandante dei carabinieri, quella diversità che a me sembra di cogliere in quanto lavoro nella nostra amministrazione, ma che pensavo che a un esterno non risultasse così evidente? E poi, questo strano siciliano del commissario scompare del tutto in traduzione?

Camilleri: Comincio dalla seconda domanda. Come si fa a controllare una traduzione di Montalbano in giapponese?! Intanto nella copertina fanno un disegno immaginario di Montalbano che è un giapponese europeizzato, una cosa stranissima, no? Arrivano questi romanzi in lingue che non capisci, il polacco, oppure l’israeliano… Non lo capisci! Quindi non riesci neanche a individuare che quello è il nome «Montalbano». I traduttori di area europea, quelli che ci tengono di più, i tedeschi, i francesi, i greci, quelli mi mandano chilometrici fax, nei quali mi dicono: «Io avrei capito questa frase in questo modo, posso tradurla così?». La traduttrice francese di romanzi come Privo di titolo, La concessione del telefono, La scomparsa di Patò eccetera, li traduce mettendo dentro delle parole lionesi, in maniera da dare lo stesso spiazzamento al lettore francese. Ma nel momento in cui ha dovuto tradurre Il re di Girgenti, che è scritto in un linguaggio arcaico, ha fatto ricorso a un francese addirittura precorneilliano, per cui ha dovuto mettere un dizionario alla fine per spiegare ai francesi le parole che adoperava. Invece un altro traduttore adopera un francese ecumenico, andandosi a prendere le espressioni locali dovunque esse si trovino. Agguanta. Quindi, «tambasiare», che è quel modo di passare un’ora a girare per casa, senza essersi fatto la barba, senza essersi lavato, spostando un quadro, guardando fuori e riposando, eccetera eccetera, lui lo era andato a trovare veramente in Normandia e l’ha adoperato. E quindi crea questa sorta di francese ecumenico che adopera molti termini locali. Non ha voluto tradurre tutto in marsigliese, come gli era stato proposto dall’editore, perché si è chiesto: e allora perché questi romanzi non si svolgono a Marsiglia, invece che a Vigata? E quindi ha fatto una scelta giusta. Di altri traduttori, non so che dirle.

Per ciò che riguarda la prima domanda, le rispondo che io leggo molto, relazioni dei carabinieri, copia dei rapporti dei carabinieri, copia dei rapporti di delegati ottocenteschi di pubblica sicurezza. Faccio presente che uno dei maggiori studiosi della mafia era un delegato di pubblica sicurezza siciliano dell’Ottocento. Un altro era Avogadro di Casanova, di Alessandria, uno dei pochissimi, forse l’unico generale piemontese illuminato, arrivato in Sicilia nel 1865. Anche lui ebbe delle intuizioni straordinarie sulla mafia. Insomma, mimare una scrittura è abbastanza facile, no? È anche divertente, io sono un falsario nato. Quando ho scritto Il re di Girgenti, per giustificare quello che scrivevo mi sono messo a scrivere dei documenti rigorosamente falsi, con il linguaggio dell’epoca. Ma mi servivano come piattaforma solida per potermi inventare delle cose. Solo che quelle cose non erano reali, erano inventate da me. E il professor Giovanni De Luna, noto storico, recensendo il libro disse: «…ma è il nostro ideale di storici inventarci dei documenti falsi per suffragare le nostre idee!».

Morselli: Ci sono personaggi così reali, come per esempio Catarella, che viene il sospetto che lei abbia un confidente…

Camilleri: Non ho nessun confidente. Catarella nasce perché mi sono ricordato di un attendente di mio padre che si chiamava don Paolino Castelli. Allora, nell’immediato dopoguerra, usciva la rivista Mercurio. Quando io cominciai a scrivere le prime poesie, venivano pubblicate da questa prestigiosa rivista che usciva a Roma e che arrivava ad Agrigento. Un giorno che lui doveva andare per conto di mio padre ad Agrigento, gli dissi: «Don Paolino, per favore, m’accattassi Mercurio, la rivista?», e lui mi portò una boccetta di mercurio liquido. E poi c’era il parlare dei pupari, che ho nella memoria, che parlavano questo italiano: «Andiamo a lo castello, chissà lo possiamo trovare?». E poi mi sono elaborato Pirandello, perché Pirandello, quando traduce in siciliano il Ciclope di Euripide, fa una traduzione mirabile, che è stata il Vangelo della mia scrittura paradialettale. Lui fa parlare Ulisse come Totò, quando dice: «Io ho fatto il militare a Cuneo», no? Lui è evoluto, lui ha girato il mondo e quindi parla un siciliano che fa: «Scusassi, ci potissi indicare una piccola fonti d’acqua onde noi assetati potessimo dissetarci?». Questa era l’entrata di Ulisse con i suoi guerrieri. Nel Ciclope di Pirandello ci sono tre livelli di dialetto, quello di Ulisse, quello del Ciclope che parla come un massaro, ed adopera le espressioni proprie dei contadini, e il terzo livello, rappresentato da Sileno che parla con il linguaggio tipico dei mafiosi, pieno di sottintesi e di allusioni. Su questi tre linguaggi ho lavorato per scrivere come scrivo. La lingua dei miei romanzi non è un’invenzione estemporanea.

Aliquò: Io una domanda me la pongo: Salvo Montalbano perché non viene mai trasferito da Vigata? Perché per noi è un problema: insomma, arriva il momento in cui uno viene chiamato al ministero. Dicono: senti, se vuoi fare carriera devi andare… Da noi il momento del trasferimento giunge anche come un’ipotesi, come dire, di progressione, quando si toccano certi interessi. C’è sempre qualcuno che ti chiama e ti dice: «Ah, ma per lei vedo un luminoso orizzonte, lì». Io credo che molti dei colleghi qui dentro potrebbero raccontarlo. È capitato due anni fa al dottor Angelo Lo Scalzo, che da questore di Pescara è stato mandato qui a Roma, ridotto a fare nulla, solo perché aveva fatto bene il suo dovere, perché aveva dato fastidio a certi personaggi politici pescaresi ed ai loro non sempre presentabili interessi. Possibile che Salvo Montalbano, nonostante tutto il fastidio che dà, riesca a stare sempre lì e, soprattutto, non venga mai chiamato al ministero?

Camilleri: Io ho premesso che pensavo di raccontare delle favole, no? Poiché un Salvo Montalbano l’avrebbero eliminato, se lo sarebbero tolto dalle scatole quasi subito. Anche questa, diciamo, è una zona favolistica. La giustifico col fatto che lui fa tutto il possibile per evitare il trasferimento. E c’è un problema di conoscenza dei codici. Il primo romanzo che ho scritto, che non aveva niente a che fare con Salvo Montalbano, è una sorta di dichiarazione di poetica, se così si può dire. Si chiamava Il corso delle cose, e uscì nel ’78. Lì dicevo perché volevo parlare della Sicilia. Oggi come oggi, infatti, uno può ambientare un romanzo a New York, a Mosca, dove vuole. Ci sono delle guide meravigliose, no? Ti dicono perfino dove trovi i tabaccai, a momenti! Dettagliatissime. Ambientare è facile. Il problema è che non conosci i pensieri della gente che su quelle strade cammina, vive. Non lo sai. Invece io penso di cogliere i pensieri dei siciliani, dicevo in quel libro. Il modo di agire. Il codice di comportamento dei siciliani. E nel 99 per cento dei casi, sbaglio. Ma quell’1 per cento mi basta per scrivere romanzi! Ecco, questa era una dichiarazione di poetica, diciamo, e tale è rimasta fino ad oggi. Ed è valida per Montalbano. Montalbano trasferito a Pavia, credo che si suiciderebbe nel giro di pochi giorni! Non capisce i codici! Infatti la crisi del personaggio dove comincia a nascere? Non nasce con l’età, ma nel momento nel quale sente di perdere il territorio! E proprio Il giro di boa non è per Montalbano la crisi d’appartenenza alla polizia, il sentirsi tradito, ma la crisi della perdita del territorio, che avviene nel momento nel quale, nella Gita a Tindari, lui capisce che c’è una delinquenza che può fare il suo lavoro attraverso Internet. Lui si trova di fronte a un universo sconfinato che non è più in grado di controllare perché non ne conosce il codice. Questa è la vera crisi di Montalbano.

Salvatore La Rosa (consigliere nazionale dell’Anfp): Che tipo di pressione hanno fatto i carabinieri su di lei per farle scrivere il racconto che è finito sul loro calendario?

Camilleri: È capitato questo. Montalbano cominciò ad avere successo. Arrivato a un certo punto, mi telefona D’Alema, che allora era segretario del partito, e mi dice: «Senti, che ne diresti se io facessi da padrino a un incontro fra te e Manuel Vázquez Montalbán alla festa nazionale dell’Unità?». «Ben felice, figurati!». E così lui mi fece conoscere Montalbán e avemmo un incontro pubblico molto bello. Finito questo incontro, mi trovai scortato da quattro carabinieri. Uno, due, tre e quattro. «Dove va?». «Eh, vorrei andare a mangiare al ristorante e poi riparto per Roma». «L’accompagnamo». Muti! Arrivato davanti al ristorante, il graduato mi chiede: «Quando si decide a scrivere un racconto su di noi?». Non era minaccioso. No. Niente! Era semplicemente una domanda.

Io in realtà ne avevo scritto di marescialli dei carabinieri: il maresciallo che sta morendo e non lo dice a nessuno che è condannato a morire è, credo, una gran bella figura di maresciallo dei carabinieri! Ne ho scritto nella Scomparsa di Patò, quando i due avversari, il maresciallo dei carabinieri e il delegato, minacciati dal potere, finiscono con l’unire le loro firme come tenendosi a braccetto per difesa reciproca. E allora, che cos’è che mi ha fatto scrivere un racconto per i carabinieri? La simpatia di chi è venuto a chiedermelo. Venne questo colonnello Salvatore Musso, che è un siciliano, allora capo dell’ufficio Relazioni pubbliche dei carabinieri il quale, così, ridendo e scherzando mi fece la proposta di scrivere un racconto per il famoso calendario dei carabinieri del 2005 e me la fece in termini tali che io dissi: «Va bene, ve la scrivo». E gli ho scritto questa storia. Il colonnello Musso attualmente è comandante provinciale a Padova. Pochi giorni fa, con mio sommo stupore, ho appreso da lui che nella provincia di Padova non ci sono commissariati di pubblica sicurezza…

Antonio Giordano (segretario provinciale dell’Anfp di Roma): Allora la invito a scrivere un romanzo in cui Montalbano si trova ad affrontare l’assenza del suo vice, con tutte le rogne che il suo vice deve affrontare, dalla volante sul territorio, al caso del malato di mente pericoloso, al maresciallo dei carabinieri che se ne frega, al prefetto. Perché noi, purtroppo, siamo stretti tra due categorie: prefettizie, che comandano al ministero, e i carabinieri, che quando si tratta di far scrivere qualcosa a uno scrittore gli mandano il colonnello. A noi non ce lo mandano il colonnello. Noi siamo responsabili, ma senza poteri.

Aliquò: Sì, in effetti, quello che dice l’amico Antonio Giordano è vero. C’è una quotidianità che finisce per rendere sempre meno investigatore il funzionario di polizia, sempre più uomo di strada, nel senso di esperto (o vittima) dell’ordine pubblico. Sui rapporti difficili con la controparte prefettizia, e con i carabinieri, abbiamo già detto. Ma ci sono rapporti non sempre facili con altre entità, con altri poteri (e non sempre criminali nel senso classico del termine) che si muovono assai disinvoltamente sul territorio. Possiamo veramente auspicare che possa esserci quanto meno una paginetta nella quale lei metta in luce questi nostri problemi, queste difficoltà…

Camilleri: Certo, ma vorrei sottolineare che la presa di coscienza di un disagio è anche una contemporanea, possibile, auspicabile presa di coscienza di un diritto. Questo, in un’epoca nella quale si perdono i diritti primari facilmente. Mentre chiedono di fare ai magistrati un esame psichiatrico prima che entrino in magistratura, sarebbe opportuno che anche i candidati politici venissero sottoposti a un esame psichiatrico prima di poter essere eletti. E con ciò sono benevolo, perché non sto dicendo di fare indagini patrimoniali o altro!

Il mio augurio, veramente sentito, è che siate contagiosi. Cioè che possiate contagiare gli altri, quelli che pensano che certe cose non gli interessano, come quando da ragazzino in famiglia si diceva: sono cose di mafia, non sono affari nostri... E ci abbiamo messo cinquant’anni per capire che ci interessavano, eccome! E allora, spero che ci teniamo stretti, ci teniamo in contatto, che facciamo parte di un’associazione nella quale discutiamo, perché questa è la prima pietra sulla quale si può veramente costruire una richiesta di riconoscimento di diritti, che sono innanzitutto diritti di essere considerati uomini integrali. Difficile, in quest’epoca. Ma, insomma. Fate un mestiere nel quale affrontate un uomo armato, un duello armato! Quindi siete persone coraggiose, no?

Aliquò: Io la ringrazio, perché temo l’uomo armato, temo molto, anche, però, certi uomini disarmati che si aggirano con passo felpato nelle stanze del potere e lì, nelle stanze del potere, corrompono la legalità democratica e la tenuta delle istituzioni. La corrompono per interessi che nulla hanno a che vedere con quelli della collettività, perché, con fare mellifluo, vi portano dentro il germe della mentalità mafiosa e dell’affarismo senza scrupoli. Sono personaggi e mentalità che si perpetuano nel tempo, indipendentemente dal colore politico di chi governa, e questo non è qualunquismo ma è una considerazione amara su quanto sia difficile sradicare una mala pianta. Sono quegli uomini che fanno mercimonio di ogni regola; che ai piccoli ed ai grandi che ogni giorno, magari con difficoltà, tentano loro di opporsi, oppongono la forza economica, quella della dissuasione politica e quindi del voto di scambio. Sanno di potersi avvalere dell’arroganza bieca del Potere, garantiti da una giustizia che quando non è manipolata e manipolabile, è troppo lenta per essere davvero efficace. In questa stanza, in questa associazione, fra queste persone che oggi hanno parlato e tra quelle che anche hanno taciuto, io li conosco i volti di coloro che si oppongono a questo sistema, e vogliamo proprio accogliere con il cuore il suo invito ad essere noi uno dei segni del cambiamento.

Morselli: Noi ringraziamo il maestro per quello che ci ha dato, ci ha dato molto, ci ha fatto prendere anche coscienza di quelli che sono i nostri limiti e le nostre possibilità. Seguiremo il suo indirizzo per una società migliore, per una polizia migliore, per dei funzionari che siano sempre con i piedi per terra, immersi in una realtà, in una società di cui fanno pienamente parte. Siamo uomini come in mezzo agli uomini, perché la bellezza del personaggio di Montalbano è di essere un uomo come siamo tutti quanti noi, nessuno di noi si crede un superman, siamo cittadini come tutti gli altri, con quei limiti, con quelle paure ma anche con quel senso del dovere che ci fa superare tante, tante paure. Grazie.

 



Last modified Wednesday, July, 13, 2011