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Prolegomeni ad una fenomenologia del tragediatore: saggio su Andrea Camilleri 1

di Nunzio La Fauci

 

Il fenomeno Camilleri

Con Andrea Camilleri bisogna far presto. Un italianista di valore ha recentemente confessato di volere, ma di non potere consacrare una monografia con tutti i crismi allo “scrittore siciliano”. La ragione starebbe nel ”ritmo frenetico con cui le [sue] opere narrative invadono il mercato librario”. Un ritmo tipico degli “scrittori di rapida concezione”, “a cui si stenta a tener dietro” e perciò incompatibile con le “lente realizzazioni” di un “critico accademico”2. Camilleri, bersaglio mobile.

Camilleri in realtà sta fermo, non cambia o cambia molto poco. Del resto, francamente, chi glielo farebbe fare? E il ritmo della sua produzione è uno dei segni e delle garanzie maggiori della sua immobilità. Per rendersene conto basta poco. Type e token, secondo la terminologia dei buoni strutturalisti americani di tanti anni fa. Tipo e replica: la differenza concettuale c'è ed è enorme. Incessantemente, Camilleri non produce tipi, produce repliche. Roba appunto più da linguisti, che da critici letterari.

Eppure, con il tipo e con le repliche di Andrea Camilleri, linguisti o critici letterari che si sia, bisogna egualmente far presto. Si tratta infatti già d’un caso linguistico-letterario. Minore, se non minimo, ma sempre un caso. Non me ne voglia l'uomo. Ne sono certo: in lui la sprezzatura prevale sull'amor proprio e quest’ultimo è di sicuro ironicamente autocosciente. Ma Camilleri è l’ennesimo caso nella storia linguistico-letteraria italiana. E quando un autore diventa un caso, la valanga dei luoghi comuni sommerge in brevissimo tempo ogni possibilità di leggerlo veramente. A quel punto, non vale più la pena che se ne parli. Egli è destinato a un imperituro fraintendimento, di frequente più vantaggioso, lo si ammette, d’una comprensione effimera. Un imperituro fraintendimento non è però garanzia di fama imperitura.

Se poi (come è il caso che qui ci interessa) l’opera medesima e il suo necessario contorno commerciale fomentano la marea delle idee ricevute e aizzano la canèa dei loro propalatori (dengratori o estimatori, poco importa)3, la necessità di far presto, di leggere immediatamente quell’opera cresce a dismisura.

Camilleri tematico

Nell’universo tematico camilleriano, infatti, non c’è siciliano che non sia comunicativamente ambiguo ed allusivo. Non c’è vedova che non sia piacente e vogliosetta. Non c’è piccolo aristocratico che non sia eccentrico fino alla stramberia. Non c’è giovane amante che non sia ardimentoso e superdotato. Non c’è svedese (e l’esplicitazione del genere grammaticale sarebbe ridondante) che non sia di liberi costumi, ma di animo candido. Non c’è contadino che non sia diffidente e furbastro, ma in modo ingenuo e senza costrutto. Non c’è prete che non ami la buona tavola, gli agi della vita e che non sia donnaiolo. Non c’è operaio che non sia vittima di vessazioni e, al fondo, un buon uomo e un gran lavoratore. Non c‘è soprattutto vicenda privata che non sia un affare di sesso e di corna. E così procedendo col catalogo delle figurine e delle situazioni d’un immaginario collettivo che attraversa le classi e la geografia italiana, sia essa fisica, politica o ideologica. Un immaginario a cui oggi (diciamolo francamente) non tutti, ma certo parecchi lettori di Camilleri (per il solo fatto d’esser lettori, italiani colti, educati e, tendenzialmente, politically correct) attingerebbero coscientemente senza ritrosia forse solo nel caso d’una barzelletta.

Sotto la penna di Andrea Camilleri, questi eterni luoghi comuni dell’immaginario nazional-popolare vengono però resi appetibili a moltissimi palati mescolandoli con idee ricevute più fresche e piccanti. Si tratta di idee ricevute in cui anche il lettore (colto, educato, tendenzialmente politically correct) si riconosce, senza sentirsi degradato. Un tempo soprattutto Cinecittà, più recentemente la stampa e la televisione, in breve i mezzi dell’intrattenimento di massa malamente mascherato da informazione, sono l’humus di tali idee ricevute.

Così, nell’universo camilleriano non c'è vicenda della vita pubblica che non abbia contorno di gravi illeciti, di compromessi con poteri occulti e spesso criminali. Non c'è alto rappresentante del potere che non sia corrotto o intellettualmente ripugnante e in ogni caso reazionario. Non c'è però istituzione pubblica in cui non si annidi qualche uomo di retto sentire, dal cuore segretamente incline al progresso e che saprebbe mettere facilmente le cose a posto, sempre che potesse e non fosse rimosso, allontanato, eliminato al momento giusto. Non c'è soprattutto investigatore che non sia autoironicamente burbero e insieme tollerante (anche con le proprie debolezze), ma devoto alla giustizia sostanziale talvolta ben oltre la forma imposta dalla legge e in eterno contrasto col potere (corrotto) che tuttavia rappresenta.

Da –questo punto di vista tematico generale, il nuovo e l'originale di Camilleri stanno in una ben riuscita mistura strapaesana. Nella mescolanza di presunto  basso e di sedicente alto, di un presente che non passa mai e di un passato recentemente spirato. Così gli spunti della commedia all’italiana si nobilitano al contatto con quelli della cinematografia engagée. E trionfa l’inestricabile combinazione tra l’Italia vista in anni recenti e ancora oggi dalla prospettiva quotidiana della “Repubblica” e l’Italia vista appena fino a ieri dalla prospettiva settimanale di “Cronaca vera”. Una testata (qualcuno ne avrà memoria) immancabile fino a qualche anno fa nelle barbierie di tutt’Italia, la cui copertina recava sempre una formosa e discinta ragazzona e un titolo dall’enfasi pecoreccia sesquipedale.

Il tutto, poi, ambientato in Sicilia: l’acme, non soltanto geografica, ma culturale e ideologica dell’Italia. La regione prototipo dell’italianità. Prototipo soprattutto nel gioco a essere, ma apparentemente a non riconoscersi e soprattutto a non voler essere riconosciuta come italiana. Un gioco per altro diffuso in dosi diverse in ogni regione, provincia, città, contrada italiana. Tutte pronte sempre a pretendere d’essere particolari e inassimilabili al resto, a rivendicare immaginarie alterità storico-culturali: sfoglie sottili, se non pure apparenze. Un gioco che consente all’analista spassionato di riconoscere a colpo sicuro un vero italiano in chiunque anzitutto si proclami altro, esprimendo il proclama in una qualsiasi delle molteplici varianti, miscugli o eredi, standard o sub-standard, delle varietà che il De Vu/gari E/oquentia assegna “Ytalis, qui dicunt”.

Camilleri funzionale

Per la maggioranza dei suoi lettori, Andrea Camilleri è soprattutto l’inventore d’un carattere. Una nuova maschera italiana: il commissario di polizia Salvo Monta1bano. Montalbano è il protagonista degli scritti ambientati nella Vigàta contemporanea. Ma Camilleri ha anche raccontato storie della Sicilia  tardo-ottocentesca. Quelle in cui si trova il miglior Camilleri, dice il partito dei suoi estimatori più sofisticati. E immagino si tratti di un omaggio al mito recente di Leonardo Sciascia. Questi scritti in qualche caso si presentano più documentari che narrativi in senso stretto e, quando sono dichiaratamente narrativi, non hanno necessariamente un impianto da poliziesco. Figure compara bili con Montalbano (ma non certo con il ruolo di protagonista) compaiono in alcune di queste  opere. In altre l’investigatore non c’è, almeno esplicitamente. Ma non c’è opera di Camilleri, narrativa o documentaria poliziesca o d’ambiente, in cui Camilleri non ci sia. Solo se ci si ferma alla superficie delle cose si può dunque credere che l’opera di Camilleri non abbia il suo tratto unificante in quel che si può largamente chiamare un personaggio. Non si tratta, certo, di un personaggio nel senso tradizionale della parola: Camilleri è infatti un autore formalista, d’avanguardia. Dire personaggio in questo senso sarebbe concedere troppo all’antropomorfismo. Forse, la designazione tecnica più calzante sarebbe quella di voce narrante. Ma la soluzione critica migliore consiste nell’adoperare allo scopo una parola-chiave dello stesso Camilleri:

TRAGEDIATURI Chi fa tragedie, ma non nel senso di tragediografo o drammaturgo. La traduzione letterale sarebbe questa, ma già nel suo Kermesse Sciascia opera una sottile distinzione tra due “tragediaturi”, quello di area palermitana e quello della più ristretta area racalmutese. Il primo è colui che “tiene i familiari in triboli”, il secondo è, invece, all’Alfieri, “un ingegnoso nemico di se stesso”. Dalle mie parti, a una manciata di chilometri dal paese di Sciascia, “tragediaturi” significa tutt’altra cosa: è propriamente chi organizza beffe e burle, spesso pesanti, a rischio di ritorsioni ancora più grevi. Per intenderci: se fosse stato siciliano, sublime “tragediaturi” sarebbe stato considerato Brunelleschi quando compose (proprio nel senso letterario) e costruì (proprio nel senso architettonico) la sua crudele burla ai danni del grasso legnaiolo (Il gioco della mosca, Sellerio, Palermo 1997, pp. 82-83).

La funzione unificante dell’opera dello scrittore empedoclino è la funzione tragediatore. Leggere Camilleri dal punto di vista linguistico come da quello letterario significa porsi in tale prospettiva funzionale: non in quella dell’enunciato, pertanto, ma in quella dell’enunciazione. Ogni storia dell’universo narrativo di Camilleri, ogni voce che vi ricorre è proiettata a partire dalla voce narrante e passa attraverso il tragediatore. Costui è sempre identico a se stesso, anche quando, anzi soprattutto quando finge (ma mai troppo) di farsi da parte o di scomparire. Questo accade, p. es., in una recente opera narrativa di Camilleri, che porta il titolo di La scomparsa di Patò (Mondadori, Milano, 2000), non certo casualmente.

La moltiplicazione delle voci, o meglio delle scritture che si inscena in questo sedicente romanzo epistolare è infatti pura apparenza. Non si tratta, come è stato detto, di mimetismo linguistico, ma di buffi travestimenti antinaturalistici del solito tragediatore. Questi travestimenti sottolineano anzi la sua perenne e ricercata riconoscibilità linguistica e formale, dietro maschere dai tratti caricaturali d’una moderna commedia dell’arte. L’epigrafe da A ciascuno il suo di Leonardo Sciascia e la ripresa di nome e vicenda da quel libro sono in questo senso ben più di una burla. Sono un autentico e forse benefico oltraggio letterario alla già imbalsamata memoria dello scrittore di Racalmuto. È chiara caricatura p. es. quella che segue:

l’acerrimo patema che tormentami, il duro cilizio che novellami scesomi è fino all’interiore splancico, profondar facendomi in perniciosa acedia [...] Il Sottosegretario di Stato (Patò, p. 158).

Ma la seguente lo è ancora di più, nella sua pur anodina apparenza, soprattutto se si tiene a mente la figura del capitano Bellodi o del professor Paolo Laurana:

Al Delegato di P. S. di Montelusa [ma si tratta di errore, dovrebbe essere, come in altre lettere, Vigata. Esiti della fretta di pubblicare] e p. c. al Maresciallo RR CC Montelusa [come sopra] [.. .]

Ci siamo detti, il Capitano dei RR CC e io, che se venissimo chiamati a dire la nostra in merito agli articoli che su voi due va pubblicando la “Gazzetta dell’Isola” non sapremmo onestamente quel partito prendere.

Non ce la sentiremmo infatti d’ismentire considerato che dai vostri rapporti chiaramente si evidenzia come i vostri personali rapporti si vadan facendo ognor più che amichevoli.

Le vostre firme in calce, in sulle prime sì distanti, si sono via via ravvicinate insino a parer un festevole annunzio di prossime nozze, tanto sono amorosamente appaiate [.. .]

Il Questore di Montelusa (ib. p. 164)

Certo, nella serie di Montalbano, per comprensibili ragioni commerciali, il tragediatore tende corrivamente verso la semplificazione e la standardizzazione:

“Chi minchia è questo Verruso?”

“Non lo saccio, dottore.”

“Cerca di saperlo e poi me lo vieni a contare” (Un mese con Montalbano, Mondadori, Milano 1999, p. 7).

“Dottori? Dottori? Pirsonalmente lei di pirsona è?”

Ma che minchia d’ora era? Taliò la sveglia sul comodino completamente intordonùto dal sonno (Gli arancini di Montalbano, Mondadori, Milano, 2000, p. 215).

Non è detto però che fuori da quella serie e nel futuro tale tendenza non si inverta.

L'invenzione o (come Camilleri ama sostenere) il ritrovamento dentro se medesimo di tale voce narrante, della funzione tragediatore, è la sua massima trovata letteraria e una delle maggiori nel panorama linguistico-letterario italiano degli ultimi anni. Avanguardia e tradizione, cannibali e neomanieristi, giornalisti e scrittori della domenica rendono questo panorama particolarmente depresso. Camilleri l'ha movimentato. Niente di più lontano però da Sciascia o da Pirandello: riferimenti obbligati per critici letterari bisognosi di facili appigli geoculturali e, con una punta di malizia, per lo stesso Camilleri, gestore-tragediatore della propria immagine a futura memoria. Le attitudini di questi grandi autori siciliani nei confronti della funzione tragediatore, attitudini tra loro per altro abbastanza diverse, tendono ambedue irresistibilmente verso il sopire e il celare. Esattamente il contrario di quel che fa Camilleri.

Camilleri ha per altro onestamente detto a più riprese quale sia il carattere fondamentale della sua scrittura e della sua opera. Con un tocco di snobismo, si è mostrato quasi meravigliato del fatto che una funzione del genere, tanto sofisticata dal punto di vista della struttura del fatto letterario, come tanto corriva dal punto di vista delle sue realizzazioni, determini oggi e d’improvviso il successo di pubblico che essa ha determinato.

Si osservi come dal punto di vista compositivo, del resto, la funzione tragediatore abbia il pregio di pervadere per intero lo scritto, più di quanto potrebbe fare anche il più convincente e penetrante personaggio. In sostanza, si può stare certi che ogni volta che Andrea Camilleri prenderà la penna per raccontare una storia, il tragediatore sarà l’autentico, soggiacente protagonista di quella storia, presente dalla prima all’ultima pagina. Ecco una ragione, e non la minore, per cui il vertiginoso ritmo di produzione dello scrittore non deve impaurire il critico, neppure quello “accademico”. Tale ritmo non impaurisce e, al massimo, può solo stancare il lettore. E che cosa è un lettore che un critico non sia?

Camilleri formale

Una funzione manifesta si manifesta in una forma. La funzione tragediatore si manifesta nella forma di una lingua.Senza tale forma, la funzione sarebbe virtuale: una faccenda da critici letterari d’avanguardia, un pubblico che a Camilleri giustamente interessa poco. La sua strada verso l’avanguardia è diversa.

Ecco una testimonianza diretta:

Dopo tanti anni passati come regista di teatro, televisione, radio, a contare storie d’altri con parole d’altri, mi venne irresistibile gana di contare una storia mia con parole mie... La storia la congegnai abbastanza rapidamente, ma il problema nacque quando misi mano alla penna. Mi feci presto persuaso, dopo qualche tentativo di scrittura, che le parole che adoperavo non mi appartenevano interamente. Me ne servivo, questo sì, ma erano le stesse che trovavo pronte per redigere una domanda in carta bollata o un biglietto d’auguri. Quando cercavo una frase o una parola che più si avvicinava a quello che avevo in mente di scrivere immediatamente invece la trovavo nel mio dialetto o meglio nel “parlato” quotidiano di casa mia. Che fare? A parte che tra il parlare e lo scrivere ci corre una gran bella differenza, fu con forte riluttanza che scrissi qualche pagina in un misto di dialetto e lingua. Riluttanza perché non mi pareva cosa che un linguaggio d’uso privato, familiare, potesse avere valenza extra moenia. Prima di stracciarle, lessi ad alta voce quelle pagine ed ebbi una sorta d’illuminazione: funzionavano, le parole scorrevano senza grossi intoppi in un loro alveo naturale. Allora rimisi mano a quelle pagine e le riscrissi in italiano, cercando di riguadagnare quel livello di espressività prima raggiunto. Non solo non funzionò, ma feci una sconcertante scoperta e cioè che le frasi e le parole da me scelte in sostituzione di quelle dialettali appartenevano a un vocabolario, più che desueto, obsoleto, oramai rifiutato non solo dalla lingua di tutti i giorni, ma anche da quella colta, alta ("Mani avanti" in Il corso delle cose, Sellerio, Palermo, 1998, pp. 141-142).

C'è una prima avvertenza. Il passaggio sembra referenziale, cronachistico. Invece è anch’esso letteratura, finzione. La funzione tragediatore vi è pienamente all’opera. E scrittore all’apparenza di specchiata lealtà con il suo lettore, Camilleri lo mette sùbito in guardia: “..mi venne irresistibile gana... non mi pareva cosa...”.

L’autore non fa di professione il linguista, ma a differenza di molti suoi colleghi è un parlante-scrivente adeguatamente (auto)cosciente. La lingua che dà forma alla funzione cruciale della sua scrittura, dice bene, non è il “dialetto”, ma il “parlato quotidiano di casa sua”, “un linguaggio d’uso privato, familiare” e quel che ne viene fuori è “un misto di dialetto e lingua”.

A ridosso dei primi successi di Camilleri, qualcuno ha tirato in ballo Gadda: opinione di non stupefacente grossolanità. La “funzione Gadda” e la sua forma e la forma linguistica della funzione tragediatore di Camilleri sono in realtà agli antipodi. Da quale lessico familiare potrebbero mai originare non dico la Cognizione, ma anche il Pastticciaccio? La ricerca di due complicità opposte con il lettore, e soprattutto con lettori diversi. Individui lontani, da tenere, se possibile, ancora più a distanza, per il solitario ingegnere lombardo. Un gruppo di famiglia, per il regista e patriarca siciliano. Eppure, così il tragediatore:

Ero a questo punto, quando tornai ad imbattermi nel gaddiano Pasticciaccio: credo, malgrado qualche critico abbia scritto il contrario, di non dover nulla a Gadda, la sua scrittura muove da assai più lontano, ha sottili motivazioni e persegue fini assai più ampi dei miei. Molto devo invece al suo esempio: mi rese libero da dubbi ed esitazioni. E così, a 42 anni, il primo aprile [...] 1967 cominciai a scrivere il mio primo romanzo (ib.).

Passando attraverso la funzione tragediatore, la parola di Camilleri, parlante (auto)cosciente, si colora del giusto grado di finzione, di quel “fare come se” recentemente ricordato da Francesco Orlando come fondamento del fare narrativo. Questa coloritura dà gusto alla scrittura e alla lettura, il gusto della letteratura. Ma il lettore che vuole capire ha da leggervi dietro una verità.

E allora, è vero che l’italiano d’”una domanda in carta bollata o [d’]un biglietto d'auguri” sarebbe stato inadeguato come forma della funzione tragediatore di cui Camilleri era a caccia in quei suoi lontani esordi privati. Ma non è certamente vero che (tutte) le espressioni italiane che sostituirono per prova quelle dialettali abbiano potuto allora apparire allo scrittore obsolete e rifiutate dai registri quotidiani e colti dell’italiano. Sarebbe questo forse il caso di “mi venne... voglia” per il camilleriano “mi venne... gana”? di “non mi pareva possibile” per il camilleriano “non mi pareva cosa”?

Si noti allora, per esempio, che l’unica spia di una lingua connotata come forma della funzione tragediatore nella prima pagina del Corso delle cose si trova in

mentre da levante carriche nuvole d’acqua arrancavano verso il paese appena visibile ai piedi della collina.

Della forma di quell’aggettivo si potrà dir tutto, ma non che l’aggettivo standard non possa sostituirlo perché obsoleto. Sostituzione che si farebbe inoltre al modico prezzo d’una riduzione dell’espressionismo di un parallelismo fonico (“carriche”, “arrancavano”), in un brano dal lirismo forse già troppo acceso. E la seconda spia, al primo rigo della seconda pagina, sta in “Il terzo uomo, un contadino, non aveva isato gli occhi”, dove ancora una volta sarebbe arduo sostenere che “alzare gli occhi” sia una forma abbandonata dall’italiano comune.

Per chiudere definitivamente la questione: nella scrittura camilleriana “taliare” e “spiare” corrispondono sistematicamente a “guardare” e “domandare”. Si tratta di verbi italiani appartenenti ad un vocabolario desueto, obsoleto, rifiutato? In realtà, il tragediatore sta già lavorando, e quel che Camilleri scrive è da leggersi come drammatizzazione del suo processo creativo.

Lo si è già visto, però, (e si salda così il discorso sul Camilleri tematico con quello sul Camilleri funzionale e formale), non c’è drammatizzazione per Camilleri che non attinga al luogo comune. Il luogo comune in questione, il massimo dei luoghi comuni camilleriani sta inscritto nella forma che prende la funzione tragediatore. Si tratta di un argomento che nell’Italia strapaesana ricorre a condire invariabilmente discussioni d’ogni natura e genere: la presunta maggiore espressività d’un lessico e di un’espressione dialettale qualsivoglia rispetto al lessico e all’espressione dell’italiano.

In realtà, anche la lingua di Camilleri è un costrutto letterario, un artificio formale (e come potrebbe essere diversamente?). Essa prende ispirazione lessicale e, qua e là, sintattica dall’italiano regionale della borghesia siciliana, quale esso si atteggia nel parlato in area agrigentina, secondo l’esplicita testimonianza dello scrittore. Ma fissa tale italiano regionale in una forma dello scritto e lo miscela con stilemi tipici di una lingua alta e letteraria. Per esempio, l’alto grado di sfruttamento espressivo della funzione attributiva dell’aggettivo e delle sue posizioni rispetto al nome, con collocazioni e usi particolari. Già nella prima pagina del Birraio di Preston (Sellerio, Palermo 1995) si osservano, per esempio: “non si trattava di cure ma di kantiana educazione della volontà”, “infilata la mano inquisitoria”, “al subito immancabile vagnaticcio”, “per evitare la matutina punizione paterna”, “quel notturno viaggio” e poco più avanti “rare parole”, “debole luce”, “teutonica precisione e dovizia scientifica”, “patita esperienza”, “devastante russare”.

Altro esempio è l’anteposizione al predicato dell’avverbio temporale negativo mai con conseguente ellissi della negazione (due casi nelle prime due pagine della stessa opera): “da quell’orecchio mai aveva voluto sentirci”, “un fenomeno che avanti mai aveva visto”.

Importantissima, in questo senso, è poi l’assenza di determinanti, che produce un’aura di accurata indefinitezza: si tratta di un carattere tipico della lingua della poesia, più ancora che di quella della prosa: “fu nottata stramma”, “con adeguato miracolo” etc.

Dei famigerati elementi dialettali, non è in realtà necessario in questi prolegomeni fare un’analisi dettagliata. Se ne può cogliere qualche aspetto d’insieme, lasciando l’analisi fine a eruditi e a studenti a caccia di argomenti per tesi di laurea (per gli uni e gli altri, un pingue banchetto). L’aspetto d’insieme più rilevante è che gli elementi lessicali siciliani sono trattati nel rigoroso rispetto della morfologia italiana, così da avere morfemi lessicali siciliani e morfemi funzionali italiani: scantusa e truniata, scappatina, arrisbigliò non pongono problemi. Ma l’effetto emerge immediatamente con scatasciante, che dovrebbe essere scatascianti, con trimoliare, che dovrebbe essere trimuliari. E poi: picciliddro era lento d'incascio (si osservi qui che lento di incascio ha un senso secondo, gergale: si dice di chi rivela con leggerezza cose e vicende di cui è a conoscenza e che non andrebbero propalate), stascione, muffoletto, scrafaglio, sparluccicavano, nivuro etc. Regolare l’uso di magari per anche (nel Camilleri prima del successo, era macari). Sfuggono a questa tipologia, ma non la modificano, anzi, per contrasto ne fanno la sottolineatura, le espressioni fisse, trasferite pari pari dal dialetto alla lingua: es. in un vìdiri e svìdiri, tutto quel virivirì.

L'effetto comico e di straniamento, come appunto in quella comunicazione intrafamiliare e extra-familiare tra pari, risiede proprio in questo contrasto tra espressioni lessicalmente siciliane e morfologicamente italiane (almeno per forma, se non proprio per funzione). Tale effetto non sarebbe attingibile se non presupponendo una competenza italiana di sfondo, quella che sa maneggiare con cura la morfologia. Gli effetti tradizionali sono l’abbassamento comico di ciò che è socialmente connotato come elevato, appunto la forma della lingua letteraria italiana perenne, e allo stesso tempo l’ammiccamento. La forma dell’opera di Camilleri sembra voler dire: “e chi è siciliano mi capisce”. Essa pare tendere ad escludere, ma tra glosse e trasparenze lancia un inclusivo messaggio di ambigua complicità a ogni lettore: “anche tu sei (o diventerai) siciliano e mi capisci”.

L’uso abbastanza largo del passato remoto combina ottimamente a tal fine i due tratti di una prosa di impianto alto e letterario (il passato remoto tende infatti ad uscire dall’uso nell’italiano d’ogni giorno) e d’una patina siciliana, che deborda in questo caso dal lessico alla sintassi. Ancora: dal Birraio di Preston:

[...] fu nottata stramma. Quando sentì suo padre uscire, si susì da letto, andò a serrare la porta di casa, addrumò tutti i lumi uno dopo l'altro [...] Poi si assistimò in piedi [...] si levò la camicia e [. . .] pigliò a taliarsi. Poi andò nello studio paterno, agguantò […].

Un elemento macroscopico, infine, salda infrangibilmente la forma della prosa camilleriana e la funzione tragediatore. In non poche opere dello scrittore infatti compaiono personaggi non siciliani: stranieri o italiani di altre regioni. Potrebbe parere un tratto di realismo il fatto che tali personaggi non si esprimono, come la maggioranza di quelli siciliani nell’italiano mescolato con il siciliano che è tipico della voce narrante. Per questi personaggi extra-siciliani si ricorre a forme di scrittura che riproducono le loro varietà:

“Ghe sem nun chi al busillis” fece pensoso il questore (Birraio, p. 146).

Era una gioia appiccà er foco, su questo nun ce stava dubbio gnuno, ma a vedello cresce, annarsene sempre più arto, guadambiare spazio, magnasse cantanto tutto quelo che je se parava avanti, la gioia poco a poco se mutava in piacere e te l’arritrovavi duro come quanno stavi a chiavà (ib., p. 194).

Ora è stato osservato (talvolta non proprio con appropriatezza) che queste rappresentazioni non sono buone rappresentazioni delle diverse varietà adoperate. Lo sarebbero tanto meno, se confrontate con quelle del siciliano, per definizione ottime. E se ne è fatto un rilievo allo scrittore. Chi ha fatto questo rilievo semplicemente non capisce che con Camilleri non si tratta in ogni caso d’una rappresentazione realistica. Ciò che viene reso è infatti sempre il modo in cui la voce narrante o, come si è detto, il tragediatore riflette narrativamente il diverso atteggiarsi linguistico dei personaggi. In Camilleri, si potrebbe dire non troppo paradossalmente, i personaggi non parlano mai. Chi parla è il tragediatore ed egli parla come sa che parlano e come vuole che parlino i personaggi. Quando costoro sono siciliani e per qualche ragione narrativa devono esprimersi in una varietà più prossima al dialetto, la voce narrante, dichiarata siciliana in quanto funzione narrativa, è atta a riprodurre appropriatamente tale prossimità. Dove questa condizione fa difetto, e per esigenze narrative parla per esempio un dialettofono non siciliano o uno straniero, ciò che sortisce è il modo con cui il tragediatore raffigura tale espressione.

In apertura del Birraia di Preston, il dialogo tra il giovane Gerd Hoffer e suo padre e poi i modi cui viene rappresentata la parlata di quest’ultimo sono in proposito esemplari: si tratta dell’approssimata mimesi di un accento tedesco come un italiano lo riprodurrebbe quando volesse raffigurare un tedesco che parlasse italiano: “”Sissignore, vater, fa alba di mattino a Vigàta”. “Fai subito in kamera tua!” Ordinò l’ingegnere [...]” (Birraio, p. Il). Un altro autentico luogo comune, anche grafico, come si può notare: un luogo comune perfettamente appropriato, trovandosi sotto la penna del tragediatore.

Insomma, la voce narrante-tragediatore è la voce che ci parla attraverso i libri di Camilleri. Essa ha un impianto letterario tradizionale, l’impianto della lingua italiana letteraria perenne, l’unica che il lettore italiano comune ancora percepisce come tale. Variata con un lessico dialettale di facile accesso, reso contestualmente sempre o molto spesso trasparente e trattato morfologicamente come se fosse italiano (non solo per ottenere un effetto comico e di straniamento), questa lingua fornisce al lettore il piacere della diversità nell’identità. Questo è il tratto caratterizzante dell'atteggiamento linguistico degli italiani, abituati da sempre a vedere atteggiarsi la loro lingua secondo le diverse articolazioni locali. Il piacere di sentirsi diversi e al tempo stesso uguali. Il piacere di un luogo comune, ma nobile, forse il più nobile dei luoghi comuni, tematici e formali, con cui Camilleri costruisce le sue storie. Quelle storie che poi racconta e che spesso sarebbero poco, se non addirittura implausibili oggetti narrativi, senza che fosse proprio quella voce narrante, quel tragediatore a raccontarcele. Una funzione formale, una procedura letteraria d’avanguardia messa in atto intorno al tavolo del tinello di una casa borghese o tra le poltrone di un circolo di notabili di provincia. Anche questi, in fondo, sono luoghi comuni arcitaliani, tanto più mitici quanto più oggi celati e in apparenza scomparsi o inesistenti. Ma con un libro di Camilleri in mano, tutti i suoi lettori sono virtualmente seduti attorno a quel tavolo o sulle poltrone di quel circolo: “E allora, caro signor Andrea, perché non ci racconta un’altra delle sue consolanti fandonie?”.

NOTE

1) Dal testo ancora inedito della comunicazione “L’italiano perenne e Andrea Camilleri” tenuta a Firenze nell’ottobre del 2000 in occasione del Congresso annuale della Società di Linguistica Italiana (sul tema “Italiano: anno Mille. Italiano: anno Duemila”) e dal testo, anch’esso inedito, di una conferenza dal titolo “Il tinello dell’avanguardia: Andrea Camilleri”, tenuta al Poli- tecnico Federale di Zurigo nel dicembre dello stesso anno.

2) B. Porcelli, Due capitoli per Andrea Camilleri, “Italianistica. Rivista di letteratura italiana”, 28, 2, Maggio/Agosto 1999, pp. 207-220.

3) Un esempio per tutti. Sulla prima pagina del “Corriere della Sera” di lunedì 11 dicembre 2000, un commento di F. Merlo ha per occhiello: “La falsa Sicilia di uno scrittore mito”, e per titolo: Camilleri, che noia

 

(pubblicato in Lucia, Marcovaldo ed altri soggetti pericolosi, Meltemi, 2001)



Last modified Wednesday, July, 13, 2011