Le amare risate di un puparo siciliano
Il creatore di Montalbano è un raro fenomeno nella letteratura
contemporanea, avendo coniugato il successo editoriale a una scrittura di qualità,
anche se quest’ultima non sempre è stata riconosciuta dalla critica.
Nel 1948, durante gli esami di ammissione all’Accademia nazionale d’Arte
drammatica, si era soliti chiudere il colloquio domandando agli aspiranti
registi quale dramma sognassero di mettere in scena: l’Amleto, l’Edipo re, o
magari Il giardino dei ciliegi? Quando fu il suo turno, un giovane siciliano, un
certo Andrea Camilleri, li spiazzò rispondendo La vedova allegra, l’operetta
di Franz Lehár che l’aveva affascinato nella versione in pellicola di Ernst
Lubitsch. Sebbene il sogno sia rimasto tale, Camilleri passò le selezioni e si
trasferì a Roma, dove negli anni successivi intraprese una fortunata carriera
nel mondo dello spettacolo, specializzandosi nelle regie teatrali e radiofoniche
e lavorando a lungo per la Rai a partire dagli anni Cinquanta.
L’aneddoto della Vedova allegra lascia intravedere un’inclinazione che verrà
in piena luce molti anni più tardi, quando Camilleri – che nell’immediato
dopoguerra aveva pubblicato diverse poesie e alcuni brevi racconti – tornò
alla letteratura, costruendo romanzi dalle trame indemoniate, pochades innescate
e nutrite da un turbine di segreti, furbizie e malintesi; oppure gialli veri e
propri, compatti e lavoratissimi, ma non meno movimentati. È rimasta celebre
l’uscita di un lettore eccellente come il magistrato Giovanni Tinebra, secondo
il quale si dovrebbero leggere i libri di Camilleri almeno tre volte: «La prima
per ridere come pazzi, la seconda per gustare le note di costume e colore,
l’ultima per riflettere». In effetti la prima ricompensa di queste pagine è
un irresistibile umorismo, sciorinato in tutte le gradazioni, dal farsesco al
sarcastico, dal beffardo all’allegro spensierato, dal comico di situazione
alle battute fulminanti: «Quello che succedeva tra don Filippo e Trisina dopo
che si erano astutati i lumi, lo sapevano solo Dio, il campiere Pirrotta e tutta
Vigàta». Dove si può apprezzare il condimento piccante con cui lo scrittore
agrigentino ravviva sistematicamente le sue storie, passate alla fiamma delle
passioni e rifinite con generose spennellate di complicità ilare e saputa. Con
questi ingredienti forgia scene di grande suggestione, come si vede, per
esempio, nel capitolo "Il vento s’alzò da occidente" del Birraio di
Preston, quando il delegato di Pubblica Sicurezza Puglisi, nell’ispezionare un
palazzo dopo un incendio devastante al vicino teatro comunale, scopre in una
stanza la vedova Lo Russo allacciata a uno sconosciuto, entrambi ridotti a
statue d’ebano, soffocati dalla fuliggine in un amplesso estremo.
Davvero la specialità di Camilleri sta nel volgere in grottesco, quando non
proprio in farsa, eventi delittuosi o tragici. Peraltro i disinvolti andirivieni
su questo crinale, che non hanno mancato di attirargli censure risentite, vanno
di conserva con le propensioni a un riso "istruttivo", alimentato
dall’abilità con cui ritrae e incenerisce in pochi tratti vizi e malcostumi.
L’agente Catarella è solo il più celebre di una vasta serie di schizzi
ricavati con l’inchiostro che fu di Gogol’, la cui ombra aleggia sorniona
qua e là. Camilleri tuttavia non è disposto a sacrificare al macchiettismo la
credibilità dei suoi eroi e la verosimiglianza dei racconti, come dimostrano la
serietà profonda di Montalbano e la bruciante attualità di molte sue indagini
(macchinazioni politiche, traffici d’organi, terrorismo maghrebino, eccetera).
Piuttosto, affiora tra le pieghe dei sorrisi un’amarezza disincantata che
ancora non sembra aver richiamato l’attenzione della critica.
Resta arduo trovare riscontri tra altri grandi scrittori siciliani della
medesima generazione: una covata memorabile alla quale appartengono Gesualdo
Bufalino, Stefano D’Arrigo, Leonardo Sciascia, Giuseppe Bonaviri, sino al più
giovane Vincenzo Consolo. Anche la decisione di garantire vasta libertà di
movimento al dialetto locale, pur comune a molti dei nominati, si concretizza in
Camilleri secondo modalità originalissime. Il continuo risuonare di note
regionali distingue i suoi libri dai best-seller degli scorsi trent’anni
(siano di marca Fallaci o Tamaro, Eco o Baricco), con la parziale eccezione
delle opere di Piero Chiara, che in fondo rappresenta l’unico vero precedente,
a volerne ponderare la predilezione per gli assetti giallistici, la satira del
conformismo, le locations paesane e non ultimo l’approccio allegro e
spregiudicato al tema erotico. Di Camilleri si potrebbe dire quanto Luigi
Baldacci sosteneva appunto per Chiara, che boccaccesco è pure il dono di
stringere in un unico fulcro le molteplici fila della narrazione, e il saper
restituire nella loro drammatica vivacità gli impulsi dell’istinto di contro
all’ethos sociale. Fatalmente, a entrambi sono toccate in sorte critiche
simili, incentrate su una presunta eccessiva "leggibilità".
Un’accusa, questa, tanto ingenerosa in quanto da sempre la nostra tradizione
narrativa lascia sfornito il reparto decisivo, almeno in una civiltà attenta
alla diversità delle esigenze di lettura: quello di un abile e scorrevole
artigianato di qualità. È a esso che Camilleri ha votato con umiltà il
proprio talento, venendo in fin dei conti a porgere coi suoi romanzi
mediterranei il corrispettivo letterario della tendenza a manufatti ethnic, così
in voga negli ultimi tempi.
Gialli e romanzi storici
Per un istruttivo paradosso, l’autore italiano di maggior successo
dell’ultimo periodo rimase a lungo inedito e snobbato proprio a causa del
tratto oggi considerato alla base dei suoi trionfi: la lingua, naturalmente.
Camilleri infatti dovette penare parecchio per trovare un editore disposto a
stampare il suo primo romanzo. Scritto tra il 1967 e il 1968, Il corso delle
cose, un giallo di mafia di sapore sciasciano, uscì solo dieci anni più tardi
per l’oscura Lalli di Poggibonsi, senza compenso né distribuzione e con
minimi echi di stampa. All’opposto, l’anno scorso la Mondadori ha accolto lo
scrittore agrigentino nella collana più prestigiosa dell’editoria italiana, i
"Meridiani", nei quali intende raccogliere il meglio della sua
produzione narrativa. In mezzo ai due estremi trovano posto gli impressionanti
consensi di massa ottenuti negli ultimi sei o sette anni, a partire dalle
inchieste di Montalbano. Oltre sette milioni di copie vendute in Italia, un
milione nella sola Germania, centocinquanta traduzioni, non esauriscono gli
effetti di un boom che non riguarda un solo libro, né è legato a un solo
personaggio. Per offrire un referto esauriente occorrerebbe inventariare almeno
gli amatissimi sceneggiati televisivi, le riduzioni radiofoniche e le opere
liriche.
Effettivamente fu solo nei primi anni Novanta, dopo l’addio alle regie e agli
impegni in Rai, che Camilleri fece della narrazione in prosa il proprio impegno
primario. Nel decennio precedente aveva tuttavia inaugurato il primo dei due
filoni a cui si possono ricondurre le sue storie, il romanzo storico. Un filo di
fumo, uscito per Garzanti nel 1980, ambienta alla fine dell’Ottocento le
vicende della mancata rovina dei Barbabianca, una famiglia senza scrupoli di
commercianti di zolfo. Suppergiù alla medesima epoca appartengono le storie
ricamate in due saggi, La strage dimenticata (1984) e La bolla di componenda
(1993), così come il terzo romanzo, La stagione della caccia (1992). Il filo
giallo, che già stria questi testi, diverrà tinta dominante di lì a poco ne
La forma dell’acqua (1994), in cui fa il suo esordio Salvo Montalbano,
poliziotto schivo e irritabile, colto e sarcastico, nemico di ogni qualunquismo,
disincantato eppure prontissimo a indignarsi dinanzi alle minime e massime
nequizie. Non occorre insistere, data la notorietà del prode commissario, se
non per rimarcare come svariate sue caratteristiche richiamino un preciso
modello: Jules Maigret. Chi ebbe l’opportunità di seguirlo, ha anzi puntato
il dito sul Maigret impersonato per la televisione da Gino Cervi, alle sue
diffidenze, alle pause interminabili (in realtà dovute all’esigenza di
leggere le battute sul gobbo). Che Cervi non fosse solito studiare la parte lo
ricorda proprio Camilleri, il quale – dopo essere stato sin dall’infanzia un
fervente ammiratore di Simenon – lavorò con entusiasmo a quella celebre
produzione Rai.
Naturalmente, si dovrebbe misurare l’immensa distanza tra il piovoso Quai des
Orfèvres parigino e la salsedine della solatia Vigàta, scenario di tutte le
opere di Camilleri, il quale tiene caro il noto ammonimento di Tolstoj a cercare
l’universalità scavando nel proprio specifico locale. È quel che accade
anche negli altri romanzi sulla Sicilia post-unitaria, che continua a sfornare
in alternanza alla detection pura, e tra i quali si contano forse i suoi
capolavori. Il birraio di Preston (1995), La concessione del telefono (1998), La
mossa del cavallo (1999), La scomparsa di Patò (2000), aggiornano quelli che
Vittorio Spinazzola definì i romanzi siciliani del "disinganno",
riferendosi a monumenti del calibro dei Viceré, I vecchi e i giovani, Il
Gattopardo, nei quali viene messo a fuoco il crollo delle speranze seguite al
processo risorgimentale. De Roberto, Pirandello, Tomasi di Lampedusa mostrano
come il passaggio dal feudalesimo borbonico allo Stato italiano, liberale solo a
parole, non avesse cambiato nulla, se non le condizioni del popolo, peggiorate
con l’aumento delle tasse, la coscrizione obbligatoria, il declino economico.
In quest’ottica, per Camilleri non si tratta più di esibire agli esterrefatti
continentali un variegato campionario di magagne, quanto piuttosto di illustrare
come buona parte delle tare che diffamano la Sicilia attuale trovino origine in
quella disgraziata stagione; non diversamente dalle numerose dominazioni
precedenti, i "piemontesi" avrebbero trattato l’isola come una
colonia, disinteressandosi di eventuali opere di risanamento e catapultando in
loco i peggiori funzionari. Le grettezze e le ingiustizie di questori, prefetti
e rappresentanti vari dell’ordine pubblico, inchiodati in Sicilia per
punizione o per inettitudine, sono il leitmotiv in virtù del quale Camilleri
sposta la lente d’ingrandimento dai nobili indigeni (pure presenti) ai quadri
statali intermedi, esempi di un malcostume dilagante, nel loro nefasto nesso con
le popolazioni locali, non senza allusioni ai nostri tempi, secondo una tattica
alla quale il romanzo storico si presta bene. La tagliente massima dei Viceré:
«Ora che l’Italia è fatta, dobbiamo farci gli affari nostri», vale anche ai
piani inferiori. Al popolo non rimane che adeguarsi furbescamente o subire con
pazienza, o ancora darsi al crimine, alla macchia, come già avvenne col
brigantaggio. Ognuno sfrutta, truffa e ruba, mentre permangono saldi i vecchi
equilibri di potere, presidiati nell’ombra dalla mafia.
Ci si potrebbe allora chiedere che cosa ci sia da ridere, in quest’isola zeppa
di individui che fanno a gara per somigliare al Mazzarò verghiano, protesi a
cercar "roba" in una competizione sfrenata, in una sarabanda vorticosa
danzata sull’orlo del precipizio: proprio questo la rende buffa e meschina. È
così che dinanzi al fatale perire delle umane cose, alla violenza bestiale e
alle storture radicatesi nell’isola, si fa strada un certo sgomento, che si
avverte con maggior chiarezza nella Stagione della caccia, nella Mossa del
cavallo e nelle più recenti avventure di Montalbano. Il narratore, che dipinge
con tinte squillanti un universo conosciuto sin nelle minime pieghe, pare allora
scrivere da una distanza siderale, una distanza da cui i maneggi instancabili
dei personaggi appaiono labili frulli sulla forma dell’acqua.
Un narratore cordiale
Sarebbe comunque un equivoco confondere Camilleri con un altro nipotino
siciliano di Gogol’, Vitaliano Brancati, comunque lo scrittore corregionale a
lui più affine. Se è vero che li accomuna l’attitudine a una comicità
grottesca, d’altra parte nel nostro le venature d’amarezza non aggallano in
un’atmosfera di inerzia e dissipazione, ma balenano a tratti, continuamente
travolte dall’attivismo sfrenato, fisico e mentale, in cui si consumano le sue
creature. Gli eventi sembrano legarsi gli uni agli altri per carambola, quando
invece a rileggere in controluce si riconoscono i segni precisi di squadra e
compasso. Il balletto svaria senza tregua, ma con passi studiati al millimetro,
quasi si trattasse di uno sgargiante teatrino di marionette. L’immagine del
puparo, del resto, risulta poco più che ovvia per designare il regista
agrigentino, che tra l’altro alle proprie esperienze teatrali ha dedicato un
dizionario aneddotico (Le parole raccontate, 2001) e diversi interventi critici
assai godibili, in buona parte raccolti in L’ombrello di Noè (2002). Ciò che
più conta, in materia, è che il retaggio del primo mestiere investe le
strutture stesse della scrittura di Camilleri. Di chiara matrice teatrale è, ad
esempio, la tendenziale eclissi del narratore, sino al caso limite della
Concessione del telefono (1998), in cui si alternano "cose scritte" e
"cose dette", cioè capitoli fatti di lettere, ritagli, documenti vari
e capitoli fatti di semplici dialogati, senza didascalie. Lo spazio concesso a
quest’ultimo procedimento discende da una lunga esperienza di sceneggiatore:
per converso, non è un caso che le trasposizioni per la radio o lo schermo di
rado presentino stravolgimenti rispetto alle fonti cartacee. La prodigiosa
scioltezza dei colloqui merita di essere valorizzata. Dove trovare, per dirne
una, la spontaneità delle telefonate che punteggiano le giornate di Montalbano?
Non meno incisiva (e spesso esilarante) è la resa dei linguaggi non verbali,
parecchio sfruttati dai personaggi, fedeli al cliché che vuole i siciliani in
grado di mettersi d’accordo a gesti o solo con uno sguardo. Stando così le
cose, il lettore ideale è spinto a imitare le strategie con cui Montalbano si
orienta nel suo acquario, a tenersi sempre sul chi va là, a cercare i doppi
fondi dietro ogni frase, sino a intuire il profilo sorridente del burattinaio
sul palcoscenico dove i botta e risposta si avvicendano senza respiro. È
precisamente da questi scontri che scaturisce l’aromatica polifonia così
tipica di Camilleri, fatta di sfumature, cadenze, inflessioni sicule impastate
con l’italiano; senza trascurare l’esuberante apporto di altri idiomi, come
testimonia lo spagnolo del Re di Girgenti, il genovese della Mossa del cavallo e
ancor prima il montaggio cubista del Birraio di Preston, rutilante commedia
delle lingue in cui si incrociano tedesco, milanese, fiorentino, piemontese,
romanesco e vigatese.
Beninteso, anche la colloquialità amichevole del narratore contribuisce a
conferire quell’inconfondibile clima di conversazione quotidiana che ha messo
a proprio agio tanti lettori. Pettinate energicamente da almeno tre o quattro
revisioni, lette e rilette ad alta voce per saggiarne il ritmo, le pagine di
Camilleri non intendono a nessun costo lasciar trasparire la fatica della
scrittura. Il perno attorno al quale ruota l’intera compagine stilistica va
individuato in una lingua d’uso vivo e popolare, fondata su un originale
compromesso tra italiano e agrigentino, plasmato con un orecchio alle
chiacchierate con gli amici di gioventù e soprattutto nel vivo ricordo del
lessico familiare d’anteguerra. Ne derivano larghe macchie siciliane, che
tuttavia non impediscono effetti di singolare trasparenza.
L’ibrido vigatese
Il ricorso di Camilleri al dialetto non ha nulla a che spartire con
l’esibizionismo nostalgico oggi sempre più diffuso, proprio di chi ama
incollanare lemmi desueti o del tutto scomparsi. Certo non si tratta di una
fioritura minima, coltivata giusto per camuffare un’intelaiatura rigidamente
italiana: tant’è vero che Livio Garzanti, quando decise di scommettere su Un
filo di fumo, lo volle corredato da un glossario, di cui si incaricò l’autore
stesso. In realtà Camilleri si volge al bacino dialettale guidato
dall’ossessiva volontà di spremere dalla realtà orale le fragranze che la
vivificano. Adotta perciò varie tecniche per conferire spigliatezza e massima
comprensibilità al dettato, contando inoltre sul fatto che, nell’Italia
odierna, alle diminuite competenze nel proprio dialetto fa spesso riscontro un
diffuso aumento di nozioni sulle altrui specificità regionali, favorito
dall’immigrazione, i viaggi, i media, la scuola. La Sicilia, del resto,
rappresenta uno scenario conosciuto in tutto il mondo, al pari degli stereotipi
caratteriali in cui tutte le arti hanno sovente imprigionato i suoi abitanti.
Resta il vigatese a costituire il gradino d’accesso, la competenza da
acquisire per chi voglia accostarsi proficuamente ai lavori in questione.
Superato l’ostacolo delle continue traduzioni mentali, il lettore potrà
ricavare un senso di complice soddisfazione dall’esplorazione di un mondo
misterioso e suggestivo, godendo l’impagabile impressione di muoversi da
esperto là dove nulla è davvero ciò che sembra.
Sennonché non è accettabile sostenere tout court, come capita spesso, che
Camilleri scriva in dialetto. Nei suoi libri – con l’eccezione del Re di
Girgenti – il siciliano stretto è riservato ad alcune uscite estemporanee di
elementi popolari (come Adelina, la cammarera di Montalbano). Allo stesso modo,
l’italiano corretto si deve accontentare di apparizioni saltuarie, per lo più
sulle labbra infide di funzionari disonesti. A dominare è piuttosto un idioma
meticcio, un ibrido siculo-italiano che anima la voce del narratore ma anche
buona parte dei discorsi (e persino degli scritti) dei personaggi. Si prenda
l’inizio della Forma dell’acqua: «Lume d’alba non filtrava nel cortiglio
della Splendor, la società che aveva in appalto la nettezza urbana di Vigàta,
una nuvolaglia bassa e densa cummigliava completamente il cielo come se fosse
stato tirato un telone grigio da cornicione a cornicione, foglia non si
cataminava, il vento di scirocco tardava ad arrisbigliarsi dal suo sonno
piombigno, già si faticava a scangiare parole». Basta un’occhiata per capire
come Camilleri muti i suoni anche nei termini più localmente connotati, in modo
da evitare il faticoso rosario di "i" e "u" su cui si fonda
il vocalismo siciliano. Altrettanto evidente è il rilievo offerto alla
disposizione "a destra" del verbo, così come al passato remoto
sistematico: «Bene facesti, Catarella», non «bini facisti» ma neppure «hai
fatto bene»; in queste parole tolte di bocca a Montalbano si colgono le scelte
stilistiche di fondo dell’autore, che non teme di servirsi di costrutti
regionali severamente proscritti dalla scuola: «Lei a questo suo parente l’ha
informato?», può domandare lo stesso commissario in tutta tranquillità. Per
quanto breve, il brano dà un’idea anche delle fortissime peculiarità
lessicali di Camilleri, che punta su un centinaio di vocaboli ricorrenti, come
taliata, camurrìa, gana, macari, tanticchia, catafottere; rinforzati da un
vasto campionario di locuzioni: avere il carbone bagnato, farsi venire il
firticchio, occhi a pampineddra, tirarsi il paro e lo sparo... Gli spessori
locali, le voci, i profumi dell’isola si compongono in un reticolo fittissimo
e stuzzicante, specie a indugiare sull’ampia serie di prelibatezze alimentari:
attupateddri al suco, salsa corallina, purpiteddri tenerissimi, pasta
’ncasciata, sarde a beccafico e mille altre ricette.
Perché Camilleri in pochi anni è diventato l’autore italiano contemporaneo
più letto e conosciuto al mondo, voltato nelle principali lingue del pianeta,
come pure in estone, gaelico, turco, ungherese? Meriterebbe anzi un’indagine a
sé il comportamento dei traduttori dinanzi a quella che una volta era detta la
"malerba" dialettale: come regolarsi, di fronte ad essa? Svellerla,
senza temere danni gravi? Oppure trapiantarla in terreni linguistici che solo
eccezionalmente presentano situazioni paragonabili? Ma non c’è allora il
rischio di suggerire effetti del tutto assenti nell’originale? Ad esempio,
scegliendo negli Stati Uniti lo slang "broccolino", o in Francia il
gergo marsigliese. Non meravigliano affatto le divergenze d’opinioni e di
tecniche emerse nelle discussioni tra gli interpreti invitati al convegno
palermitano su Camilleri tenutosi nel 2002.
Occorre aggiungere che il tasso di sicilianismi è soggetto a forti variazioni,
risultando in genere maggiore nei romanzi storici rispetto ai gialli
contemporanei, e comunque in crescita nelle prove di fresca data. In questo
senso, l’impresa più ardita è senza dubbio Il re di Girgenti (2001), dove al
dilagare del dialetto corrisponde una vicenda quanto mai improntata ai toni del
grottesco e della dismisura. La storia di Zosimo, che da villano si fece re,
rappresenta un unicum, a cominciare dall’ambientazione a cavallo tra XVII e
XVIII secolo, che chiama in causa con forza l’elemento spagnolo, su cui poggia
la prima delle cinque parti del volume. Per quanto probabilmente non vi si
configuri l’architettura meglio riuscita, nel vasto contenitore del Re di
Girgenti sfilano forse le pagine migliori dell’autore. Non è di quelle che si
dimenticano l’atmosfera di fantastico rurale nella quale sono immerse
l’infanzia e la giovinezza di Zosimo. Né può lasciare indifferenti
l’intensità del finale, in cui Camilleri per la prima volta si accosta al
tragico per narrare la salita dell’eroe lungo i cinque gradini che lo separano
dall’impiccagione. Come in un miraggio di Chagall, la morte lo porterà via su
un aquilone, sulle ali della fantasia darà l’addio alla sua gente, venuta a
rendere l’ultimo omaggio a chi aveva tentato invano di restituirle dignità e
giustizia.
Mauro Novelli
(pubblicato su Letture,
6/7.2003)
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