Ricordi chiusi a chiave
La casa, quella vera, quella che sempre sentii
interamente mia, interamente mia non lo fu mai. E già vedo che ci sto
ragionando sopra come se si trattasse di una persona profondamente amata che
però, di necessità, si deve spartire con gli altri. Se sto dando
quest'impressione a mia stesso, figurati come porterò a sbagliare il mio
lettore: viene a dire perciò che, mettendomi su questa strada, non mi
verranno mai le parole giuste per dire preciso concetto.
Ricomincio, senza
cadere nel sentimento. E dunque: la casa con la quale abbiamo meglio campato
insieme, perché magari lei, la casa, ne sono sicuro, se la scialava con me,
è stata la casa di campagna dei miei nonni. Tutti la chiamavano appunto
"a casa 'i campagna", mentre lei avrebbe potuto benissimo pretendere
di farsi chiamare "a villa". Perché allora i miei non lo fecero
mai? Io, quando fui più grande, ci feci pinsièro e me ne vennero due
spiegazioni. La prima era che quando venne fabbricata, alla fine del Settecénto,
si dicevano ville quelle che appartenevano ai nobili, baroni o marchesi che
fossero, mentre quelle dei ricchi burgìsi, commercianti o proprietari
terrieri, erano dette case perché ci fosse, magari nel nome, una netta
distinzione di ceto. La seconda era che nella mia casa di campagna, più che
per villeggiare, ci si andava per travagliare, per badare alle necessità dei
raccolti. E difatti i miei nonni e i miei zii stavano nella casa di paese solo
quando calava l'inverno profunno. Consistendo, l'inverno profunno, in qualche
raro acquazzone, in poco vento e in un freddo che t'obbligava, nientemeno, a
metterti la giacchetta e annodarti la cravatta. Tutto qua.
Quando venne fabbricata, quella casa era la
capintesta, l'ammiraglia di otto altre case coloniche sparse su cento e passa
ettari di terreno coltivato ad àrboli di mandorle, a frumento e a fave.
C'erano pure olivi saraceni, attortàti, parevano volere strisciare per terra
invece d'alzarsi verso il cielo. Torno torno la casa c'era "u jardinu",
un ettaro d'àrboli da frutta: aranci, mandarini, limoni, limongelli,
pistacchi, peri, piriddra, piriazzòla, melograni, fichi, gelsi, azzalòri,
pomi, nèspoli, pesche, arbicocche. Me li ricordo uno ad uno. C'era anche
qualche filare di racìna, uva da tavola. Era il mio paradiso terrestre, dal
quale venivo assai spesso scacciato da dolori di panza improvvisi e lancinanti
che m'obbligavano a correre alla disperata verso casa. Finché
un mio coetaneo capraro m'insegnò la suprema felicità di farla nel campo
stesso, con le pàmpine di vite a far da carta.
Nello splendore della sua gioventù, la casa dovette
essere cosa da vedere. Dal salone grandissimo si partiva, attraverso tre
grandi finestroni, un terrazzo ch'era una piazza d'armi. Non si vedeva che la
campagna e il mare lontano. Col binocolo, stavo ore a guardare le paranze, i
pescherecci, le grandi navi che passavano al largo. Mi sognavo ammiraglio.
Sotto il terrazzo, sorretto da cinque grandi arcate protette da vetri, c'era
la càmmara dei bigliardi. La casa aveva davanti un cortile circondato da mura
altissime, loco ideale per i duelli. Dentro il cortile s'aprivano altre
costruzioni: il palmento col suo torchio per fare il vino, il forno, la
carrozzeria capace di otto carrozze; la stalla con dieci cavalli. Nel salone
c'erano due pianòle e, tra le altre, la porta della cappella consacrata dove
la domenica il parrino ci diceva messa e non aveva bisogno di portarsi niente
appresso, la cappella era dotata di tutto, dai paramenti al calice d'argento.
E, sempre nella cappella, c'era un'altra cosa che mi faceva sognare: la Via
Crucis, tutte le stazioni in campane di vetro con i momenti della Passione
scolpiti in avorio. Sognavo d'essere un cardinale, se non c'era nessuno nei
dintorni, indossavo qualche paramento. E poi la cucina, gigantesca, che a
guardare il soffitto fatto nero dal fumo di legna pareva fosse sempre notte.
Era stata, un tempo, il regno di Monzù, il cuoco francìsi. Era stata, perché
quando io aprii gli occhi alla ragione, era sparito tutto, terra, case,
bigliardi, carrozze, cavalli, Monzù, cammarere. Restavano i mobili imponenti
e il "jardinu" con la sua "passiata", un lungo viale
sormontato da archi che sorreggevano intelaiature di fil di ferro interamente
ricoperte di roselline bianche. Me la façevo due volte al giorno a passo
lento, accompagnando il nonno che mi chiamava apposta. Era un onore, perché
il nonno, una volta biondo, occhi cilestri chiarissimi, era freddo di
carattere, non dava confidenza. Ricordo 1'emozione di quel giorno che si fermò
e mi fece: "Saccio che scrivi poesii. Dimmene una". Era vero, le
poesie le ammucciavo, le nascondevo nel doppio fondo di un baule che stava nel
magazzino. Me le mangiarono i sorci, le mie poesie.
Nel magazzino c'era un'altra meraviglia, la vecchia
automobile di marca Scat, senza più ruote, poggiava su trespoli. Non aveva
importanza, ci ho vinto le millemiglia lo stesso, ho battuto Nuvolari.
Trasformata in biga (facile: aprivo il soffietto, mettevo una testa di cavallo
impagliata sul radiatore), ecco che mi faceva incoronare d'alloro in quelle
corse che facevano i romani. La casa dimostrò il cuore che aveva durante i
bombardamenti del '42; diede ricetto a decine di famiglie sfollate, si
allocarono magari nel palmeto. Non c'era luce elettrica, arrivò verso gli
anni '50. Dovunque c'erano candele e lumi a pitroglio: contribuivano a
formare, con sciàuro della frutta, delle olive, della zàgara, delle sarde
salate, del cacio col pepe, del girsomìno, del pane appena sfornato,
l'inconfondibile e non descrivibile odore della casa.
Morti i nonni,
invecchiati gli zii, spersi i nipoti, la casa principiò a sentirsi
trascurata, il "jardinu" s'inselvaggì, caddero gli archi. In tre
passate successive ladri esperti prima caricarono su un camion mobili e cose
del Settecento, dopo quelli dell'Ottocento e infine quelli del Novecento.
Forzarono il magazzino e si portarono via le seggie di Vienna, le Singer
preistoriche, l'alte campane di vetro con gli uccelli tropicali impagliati.
Ora mi
vengono a dire che, per testamento, un quarto della casa è diventato mio. Ma
io sono anni che non ci voglio andare a trovarla, la mia casa. M'hanno detto
delle larghe crepe lungo i muri, del mezzo tetto crollato. Non me la sento
d'assistere alla sua terribile agonia. Ne serbo gelosamente le chiavi, questo
sì.
Andrea Camilleri
(da “A. D. Architectural Digest”,
Dicembre 1995) |