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Ritorno all'intreccio

di Clotilde Bertoni

 

Nella società descritta da Jane Austen in Northanger Abbey la lettura di un romanzo era considerata un vergognoso passatempo; quasi altrettanto disdicevole è giudicata ai giorni nostri la finalizzazione della lettura alla conoscenza della trama. I problemi del cosa sono sempre posposti a quelli del come, la curiosità per la vicenda è sempre bollata come ingenuo, elementare, necessariamente “primo” livello di ricezione. È noto che buona parte della recente narrativa italiana a scoraggiare questo livello ci ha pensato fin troppo: spesso dando l’impressione di camuffare dietro raffinati arabeschi un’irrimediabile mancanza di inventiva. Gli ultimi anni sono stati però contrassegnati, anche questo è ormai evidente, dal ritorno all’intreccio, da un rinnovato peso dell’azione narrata, che si segnala come svolta significativa, ma difficilmente può fungere da riassuntiva sigla unificante, perché caratterizzato da strategie e motivazioni molto diverse. Nelle opere che con maggiore o minore consapevolezza si collocano nella categoria del postmoderno, l’energia spesso esuberante della macchina narrativa sgorga dal pastiche di testi precedenti, dal variabilissimo, sussultante grado verosimiglianza, dall’arbitrarietà, a volte dalla paradossalità del racconto. D’altra parte, al di fuori del postmoderno non è rimasta solo la letteratura di consumo a proporre formule di affabulazione più classiche, meno spiazzanti. Sono numerosi infatti i romanzi italiani - peraltro non privi di tangenze con i paradigmi postmoderni - che strutturano la propensione al plot su convenzioni famigliari: coesione avvincente, delineazione efficace di un protagonista, impegno mimetico.

Questa famigliarità delle convenzioni in alcuni testi è sottolineata, sbandierata quasi; il ritorno all’intreccio è come provocatoriamente accentuato: se lo scopo è stuzzicare la curiosità del lettore, insomma, perché non portarlo a chiedersi se l’assassino è il maggiordomo? La preponderanza della trama è orchestrata (e celebrata) mediante il ricorso al genere che forse con più evidenza sulla trama fa leva, il giallo. Un ricorso che sembra essersi fatto più frequente in volumi di pubblicazione recentissima: alcune opere di Andrea Camilleri (già noto come regista e sceneggiatore televisivo), dalla Stagione della caccia alla trilogia La forma dell’acqua, Il cane di terracotta, Il ladro di merendine (a cui si aggiunge ora La forma del violino), incentrata sulle inchieste del commissario Salvo Montalbano in un immaginario centro siciliano, Vigata; la trilogia di Carlo Lucarelli Carta bianca, L’estate torbida, Via delle oche, anch’essa aggregata dalla figura di un commissario, e delle sue indagini nell’epoca compresa fra fine del fascismo di Salò e avvento della repubblica; L’anno in cui uccisero Rosetta, romanzo d’esordio di Alessandro Perissinotto , che narra la ricostruzione di un delitto compiuto in un paese delle Alpi piemontesi; I delitti di via Medina-Sidonia altro romanzo d’esordio, di un biologo palermitano, Santo Piazzese, storia di tre omicidi ambientata appunto nella facoltà di biologia del capoluogo siciliano. Per limiti di spazio ho dovuto trascurare un materiale molto più vasto e sfrangiato, che va dal poliziesco irrisolto e ambiguo del Filo dell’orizzonte di Tabucchi, ai noir incentrati più sull’azione che sull’enigma (ultimo dei quali Almost blue), pubblicati dallo stesso Lucarelli. Il corpus scelto, d’altronde, risulta oltre che parziale, disomogeneo: assembla infatti generazioni disparate.  È palese nondimeno una matrice comune, segnalata anche da un particolare paratestuale non secondario: questi libri sono stati pubblicati dalla stessa casa editrice, la Sellerio, molto interessata all’impiego più o meno atipico di artifici del giallo, come dimostra anche il suo recupero di alcuni dimenticati romanzi inglesi e americani del Novecento (ad esempio Torno presto di James Barlow e La fine è nota di Geoffrey Holiday Hall).

Impiego atipico, si è detto: è il punto principale di questo intervento e richiede qualche breve delucidazione. I volumi considerati si collegano deliberatamente con uno dei filoni più noti della letteratura di consumo; ma alla letteratura di consumo non si possono assegnare. Intanto perché contraddistinti da tratti e ambizioni che esulano ampiamente dalla sfera pura evasione: inquadrature di ambiente (stimolate in Lucarelli da ricerche storiche, in Perissinotto da studi di folclore, in Camilleri dalla pungente attenzione alla realtà siciliana), rappresentazioni di caratteri e atmosfere, a volte anche originali sperimentazioni linguistiche (Camilleri ha inventato non solo per la riproduzione dei dialoghi, ma per l’intera struttura  dietetica un curioso, efficace impasto idiolettale di italiano e siciliano). Inoltre, l’etichetta stessa di giallo, come del resto, più complessivamente, quella di paraletteratura, va maneggiata con cautela, non può fondare da sola la valutazione (che è spesso liquidazione) di un testo, come invece, malgrado l’evoluzione al riguardo della teoria, finisce non di rado per fare (per limitarsi ad un solo esempio recente, è la comune connotazione di thriller giudiziari a motivare l’implacabile quanto arbitrario accostamento fra gli interessanti romanzi di Scott Turow e i modesti, artigianali prodotti in serie, oltretutto noiosi, di John Grisham). A rendere mobile, sfaccettata, e dunque non omologante né riduttiva la nozione di giallo è soprattutto la duplice identità da sempre ad essa inerente, che la vede da un lato coincidere con una categoria definita e fortemente marcata, sviluppatasi con successo immenso fra Otto e Novecento, dall’altro consistere in una tipologia utilizzata programmaticamente o inconsapevolmente anche in opere di altro impegno e rilievo. Si sa che lineamenti tipici del genere sono stati individuati, spesso non senza controversie, nelle trame di numerosi capolavori, dall’Edipo re ai Fratelli Karamazov ; la fruizione delle strutture gialle , inoltre, si è fatta più frequente e insieme problematica nella letteratura novecentesca. Per diversi grandi scrittori del nostro secolo, infatti, l’appropriazione delle convenzioni di una categoria ormai standardizzata ha significato il deliberato smontaggio dei suoi presupposti: la scomparsa cioè non solo della punizione del colpevole, ma anche della linearità della detection, dell’accertamento delle responsabilità, del ricomporsi armonico di ogni tassello nella soluzione. Dal romanzo esistenzialista al nouveau roman, sviluppi diversi della narrativa- la scoperta dell’inconscio, l’importanza del caso, il senso dell’assurdo, la perdita di peso del personaggio- hanno sgretolato le strutture fondanti e il sistema di valori del giallo. Con la ridiscussione novecentesca del genere i romanzi qui esaminati intrattengono un rapporto intenso; la loro adesione al poliziesco unisce in un orizzonte complesso i polizieschi classici e i loro ribaltamenti, riformulazioni, parodie (si pensi, per limitarsi a qualche nome, a Borges, Dürrenmatt, Gadda, Robbe-Gillet, Sciascia). Lo schema del giallo in certo modo imbriglia il recupero dell’intreccio, garantisce al racconto la tensione salda, avvincente del suspense (in un’intervista Camilleri ha spiegato la sua scelta di genere con la necessità di una gabbia entro cui ordinare l’immaginazione); d’altra parte, l’uso dello schema porta i segni della sua problematizzazione, rendendo così il suspense assai meno lineare e canonico (e dunque, meno prevedibile).

La prima, evidente peculiarità sta nello sconvolgimento delle previsioni più elementari: il finale, l’elemento sempre più vistoso e indicativo del ritorno alla trama,e, com’è noto, il centro aggregante, il catalizzatore delle attese nel poliziesco, non contempla quasi mai la ricomposizione di un ordine morale e legale. Quasi sempre, anzi, le responsabilità principali del crimine e delle sue conseguenze non sono solo dei singoli individui, ma di quelle intuizioni che dovrebbero, secondo la tradizione, fungere da garanzie. Il commissario De Luca, protagonista dei romanzi di Lucarelli, percorre un’amara carriera a ritroso in cui i suoi sforzi per portare allo scoperto le responsabilità politiche celate dietro vari delitti vengono costantemente frustrati; lo sviluppo delle vicende è intrecciato agli spaccati su celebri svolte storiche; in Via delle oche l’insabbiamento ineluttabile dell’inchiesta su una catena di omicidi – legata alla necessità della Democrazia Cristiana, alla vigilia delle elezioni del 1948, di occultare la morte in una casa di tolleranza di un irreprensibile onorevole- è preannunziato beffardamente da un epocale colpo di scena, il sorprendente effetto diversivo esercitato dalla vittoria del Tour de France di Bartali sull’indignazione popolare per l’attentato a Togliatti. Nell’Anno che uccisero Rosetta di Perissinotto, situato agli inizi degli anni Sessanta, il commissario, incaricato di occuparsi di un assassinio commesso nel secondo dopoguerra, non solo vede messo a tacere il risultato delle due indagini (l’individuazione del colpevole nel parroco del paese e del movente nella protezione di interessi ecclesiastici), ma scopre che esso era già noto all’autorità e che la riapertura del caso è stata voluta dalla Chiesa, e per uno scopo piuttosto insignificante. Nella trilogia di Camilleri, di ambientazione contemporanea, campeggiano gli intrighi della mafia, dei servizi segreti, dei parlamentari della seconda repubblica; intrighi che il commissario, peraltro in questo caso presentato come un vincente, riesce a scoprire solo parzialmente, e che ancora più parzialmente porta alla luce, nella rassegnazione a un gioco troppo fitto di interessi e connivenze. Il crimine rimane dunque spesso impunito; o è punito parzialmente, o in forme non canoniche.

Beninteso, non che si tratti di una novità. La prevaricazione del potere, dei suoi complotti e misfatti, e il connesso scacco delle investigazioni hanno costituito un percorso fondamentale della vanificazione novecentesca del giallo. Per alcuni degli scrittori esaminati, specie per Camilleri, è determinante soprattutto il modello di Sciascia, il cui sovvertimento del giallo ha, diversamente che in Gadda, una connotazione più socio- politica che gnoseologica: la realtà è considerata non intrinsecamente inestricabile, ma piuttosto complicata, a volte fino all’indecifrabilità, dalle macchinazioni dello stato. L’ottica seguita si fa via via più pessimista: nel Giorno della civetta e in A ciascuno il suo il soffocamento delle scoperte sui rapporti fra mafia e politica non esclude ancora l’indicazione puntuale delle consapevolezze, e, nel primo romanzo, anche la speranza vibrante del mutamento (il “mi ci romperò la testa” del capitano Bellodi); nei grovigli del Contesto e di Todo modo l’addensarsi di pressioni e alleanze stringe una rete così spessa da precludere l’accertamento sicuro degli eventi non solo agli investigatori, ma al lettore stesso.

Al di là di Sciascia, del resto, l’incombere sulla società di cospirazioni torbide è motivo diffuso pervasivamente nella narrativa italiana del secondo Novecento (come dimostrano ad esempio i romanzi di Eco, non privi di connessioni col mio discorso); è tema soggiacente alla nostra storia, continuamente riproposto dalla nostra cronaca. La ricerca di modelli potrebbe rimontare più indietro, azzardare connessioni a tutta prima sconcertanti. Una delle quali è offerta proprio dal Contesto: il protagonista Rogas, sentendo esclamare da uno dei pezzi grossi che sta vanamente interrogando “Da bere all’ispettore”, pensa irresistibilmente alla situazione analoga di “un famoso e noioso romanzo italiano” e vede in se stesso un più ridicolo Padre Cristoforo. I Promessi Sposi, che attraverso la tecnica dell’onniscienza autoriale stabiliscono con il lettore un patto che esclude ogni suspense giallo (costruita secondo il principio della focalizzazione interna, la storia del rapimento di Lucia sarebbe un poliziesco dei più appassionanti), mettono l’accento sulle dinamiche del nostro Stato contro cui l’andamento regolare del giallo è destinato a incepparsi: la permanenza dei soprusi, le collusioni che li autorizzano, l’annichilimento dei tentativi di combatterli, l’azzeramento rituale della verità. Il dialogo fra conte zio e padre provinciale prefigura, in un’intuizione geniale, il corso intero della vita italiana: a imporsi sarà sempre la logica del “troncare, sopire”, quanto di più avverso, dunque, al successo della detection. E le manovre del potere, la strumentalizzazione dell’ingenuità popolare, distorcono gli indizi, aprono false piste, screditano l’innocenza, fabbricano i colpevoli: lo sbalordimento con cui nel Pendolo di Foucault Jacopo Belbo si vede trasformato dalla televisione in un misterioso terrorista non è troppo distante dall’incredulità sgomenta con cui Renzo all’osteria di Gorgonzola sente le voci pubbliche stravolgere il suo comportamento in quello di un pericoloso agitatore. Gli uomini onesti in faccia ai malvagi vedono frustrati i loro sforzi; la loro frustrazione si riverbera nella frustrazione deliberata degli esiti canonici di un genere. Non a caso, la denuncia delle responsabilità criminali delle istituzioni contraddistingue anche moltissimi dei gialli italiani, a volte di fattura commerciale, pubblicati fra gli anni Quaranta e Ottanta: da Giorgio Scerbanenco a Fruttero e Lucentini, parecchi commissari protagonisti sono caratterizzati come perdenti.

Quanto proliferino nella narrativa i motivi del potere e della corruzione lo confermano inoltre opere escluse da quest’analisi, che riservano agli schemi gialli un’adesione parziale o discontinua. Una delle vicende parallele di Rimini di Tondelli, l’investigazione sul falso suicidio di un senatore, rivela una losca rete di appalti e intrighi politici: secondo uno schema eccessivamente lineare, dove la transizione del giornalista detective dall’ingenuità strumentalizzata alla risentita curiosità risulta abbastanza prevedibile e meccanica (forse per la compressione della storia, o per l’esitazione  fra riuso  e ripudio del suspense che caratterizza l’impianto del libro). Nel recentissimo Un delitto fatto in casa di Gianni Farinetti il racconto di un giro di tangenti è quasi avvertito come materia ormai troppo sfruttata, non rappresenta per l’indagine nemmeno una falsa pista, rimane in posizione marginale.

La capacità di sopraffazione del potere, dunque, è il portato di una tradizione radicata; ma assume nei romanzi qui considerati una fisionomia più inedita proprio perché investita dalla tradizione di un’ormai nota ineludibilità. La coscienza di questa ineludibilità, infatti, reimposta il ritrovato dinamismo del plot, che ha la sua pulsione principale non tanto nella volontà di giustizia del detective, quanto piuttosto nella sua curiosità. Gli investigatori protagonisti appaiono  disincantati e già dal principio tarpati da una limitata possibilità d’intervento, da un’almeno parziale impotenza, che trascorre per gradi diversi: il De Luca di Lucarelli è vulnerabile in partenza, perché ricattabile a causa della compromissione con il regime repubblicano (una vulnerabilità reiteratamente concretizzata di Perissinotto è come continuamente impacciato dal disagio, venato dal rimpianto per altre vocazioni, verso il proprio mestiere; il più brillante e disinvolto (in fondo il più “eroe”) Montalbano di Camilleri è cosciente di poter fronteggiare solo parzialmente il magma delle complicità e dei soprusi.  Ma questo destino di semi- inazione è in genere controbilanciato dall’interesse irresistibile per il disvelamento della verità; e questo interesse, appunto in virtù dell’affievolimento del potere demiurgico dell’investigatore, sembra prefigurare o riflettere quello del lettore: se ne può ritenere modello o mise en abyme. Il suspense ribalta il suo segno: non è il lettore a identificarsi col personaggio, ma piuttosto il personaggio ad assimilarsi al lettore, dal momento che è la curiosità, più che l’affermazione risolutrice dell’io, l’energia che alimenta l’indagine e dunque struttura l’azione.

Questa curiosità, d’altronde, è difficilmente gratificata da una canonica, limpida delucidazione del mistero: spesso alla mancanza di una debita assegnazione di punizioni e risarcimenti non fa nemmeno da contrappeso la linearità dell’enigma. Anche qui, nulla di cui sorprendersi. La problematizzazione novecentesca del giallo condanna spesso la detection a uno scacco irrimediabile, dovuto al dissolvimento non solo delle garanzie previste dalle istituzioni, ma anche da quelle fornite dalla razionalità: la razionalità senza sbavature di impronta positivistica, che ha ispirato l’affermazione del genere. Le confutazioni del poliziesco canonico non possono non avere ripercussioni sulla strutturazione dei testi qui esaminati, che d’altra parte, però, compiono un’azione all’incirca inversa. Mentre i loro predecessori smantellano edifici narrativi classici, e lasciano provocatoriamente svaporare nell’ambiguità le strategie di suspense, questi contemporanei si cimentano nella sfida di riproporre a lettori ormai disavvezzi trame che, pur senza scivolare in manicheismi ovvi o in artifici prefabbricati, mantengano una coesione accattivante, una tensione destinata a sfociare nello scioglimento del mistero. Il punto però è che questo scioglimento spesso non è più l’approdo di una logica rigorosa: la soluzione dell’enigma può ancora gratificare le attese, ma difficilmente può, come nel giallo classico, combaciare con la vittoria esclusiva e piena del raziocinio; perché sia crimine che indagine sono condizionati dal caso e complicati da esitazioni e contraddizioni della volontà, o dall’accavallamento di volontà diverse. La riattivazione del plot respinge gli esiti estremi di Borges o Gadda, ma conosce irregolarità, deviazioni anche più radicali, probabilmente, di quelli svolti in alcuni dei testi che fondano il “requiem del romanzo giallo”: a cominciare dal libro di Dürrenmatt che porta questo sottotitolo La Promessa, in cui l’intervento beffardo del caso (forse troppo enfatizzato dalla critica) si limita a sconvolgere il finale , sottraendo il giusto riconoscimento a un’indagine ancora fondata su rigorosi nessi logici.

Nei romanzi di Camilleri già gli itinerari del delitto sono sghembi: per il rapporto accidentato con le contingenze, per l’interferenza fra motivazioni differenti. Nella trilogia, in particolare ne La forma dell’acqua e nel ladro di merendine, l’inchiesta è complicata dalla riconducibilità degli omicidi a un’intersecazione fortuita fra istanze separate: trame politiche, passioni e calcoli individuali. Si è già accennato all’influsso di Sciascia su Camilleri (influsso esplicitato da riferimenti a Candido, La scomparsa di Majorana, Il consiglio d’Egitto). Poiché le indagini di Montalbano non fanno affiorare che uno squarcio di verità (e spesso inutilmente), la suggestione forse più intensa è quella dell’ultimo romanzo dello scrittore di Racalmuto, Una storia semplice: opera che ripristina una straordinaria tensione, economica e densa, il cui approdo, la scoperta (che è anche punizione) di un colpevole, rappresenta però un’esile scheggia di responsabilità assai più ampie e rende quasi fittizio l’appagamento della curiosità del lettore. Camilleri però in qualche modo complica ulteriormente il suo modello: perché se in Sciascia l’intorbidimento più o meno fitto della realtà  è sempre di un solo ordine, nella trilogia di Montalbano deriva invece dall’affastellamento di fattori istituzionali e privati. In Sciascia l’attenzione è incentrata esclusivamente sigli intrighi del potere e le motivazioni intime entrano nei testi solo in quanto dal potere usate con intenti di depistaggio (come omicidi passionali sono contrabbandati quelli del Giorno della civetta e di A ciascuno il suo); in Camilleri disegni politici e ragioni personali si giustappongono, si alternano, si condizionano involontariamente. Nella Forma dell’acqua la morte improvvisa, in circostanze scabrose, di un ingegnere bisessuale, esponente di punta della locale Democrazia Cristiana in via di riciclarsi dopo Tangentopoli, è usata dai colleghi del posto per screditarne l’immagine e manovrare il ricambio ai vertici (una situazione analoga, anche se specularmente, a quella esposta in Via delle oche). Il giovane amante dell’ingegnere ne vendica la memoria uccidendo l’avvocato che ha diretto l’operazione, ma, date le losche frequentazione di quest’ultimo, tutti, tranne il commissario, credono a un regolamento di conti di altro tipo: con dinamica inversa da quella di Sciascia, qui un delitto passionale è ritenuto delitto di mafia. Il ladro di merendine presenta l’efficace metafora del puzzle che, contrariamente a quelli consueti, può essere ricomposto in due modi diversi: Montalbano scopre che la vittima, un commerciante in pensione, sfruttato e ricattato, tramite una prostituta, da un terrorista tunisino al soldo dei servizi segreti, era destinato a essere ucciso dal terrorista se quello stesso giorno non lo fosse stato, per ragioni di gelosia e interesse da sua moglie, che ha così destabilizzato inconsapevolmente i piani dei servizi (anche la trama del primo romanzo della trilogia di Lucarelli, Carta bianca, segue uno schema analogo: negli ultimi giorni della Repubblica di Salò una vendetta passionale, attribuita a moventi politici, innesca involontariamente crimini del traballante e spaventato regime fascista). Una certa disarticolazione contrassegna le stesse indagini di Montalbano. Non che questi non sia appassionato al proprio compito e acuto nelle deduzioni: alcune sue illuminazioni, culmine folgorante del ragionamento, sembrano anzi modellate su quelle ben note di Poirot o Ellery Queen (di tutti i personaggi considerati, del resto, Montalbano rappresenta probabilmente la combinazione più sofisticata di modelli precedenti). Ma nel suo approdo alla verità è determinante – soprattutto nel Cane di terracotta – il ruolo delle coincidenze impreviste, delle occasioni opportune. Ancora una volta è indispensabile un riferimento a Sciascia, che già in A ciascuno il suo sottolinea, in polemica con il poliziesco tradizionale, la funzione del caso: è quasi inutile specificare che questa funzione, anche se rispetto a Dürrenmatt cambia di segno e assume una valenza non tragicamente fatale alla riuscita di un’inchiesta, ma al contrario ad essa giovevole, indica comunque lo sgretolamento del potere della razionalità, l’impossibilità della sua piena asserzione. Un’impossibilità a cui il commissario di Camilleri oppone un gusto dell’investigazione quasi spudoratamente fine a se stesso: nel Cane di terracotta, indagando su un traffico d’armi mafioso, si imbatte in un mistero relativo alla morte di due giovani, avvenuta cinquant’anni prima, e vi concentra totalmente l’attenzione, non solo consapevole, ma affascinato dalla perfetta inutilità della soluzione. Proprio l’attesa da parte di Montalbano della prova che suffraghi la sua ipotesi su questa vicenda (e che non tarda a giungere) ispira un riferimento a un’altra attesa, quella eterna dell’ispettore nella Promessa di Dürrenmatt. Paragone che sottende la specularità e al tempo stesso le comuni radice delle situazioni: la tensione del Matthai di Dürrenmatt ha un risultato concreto, la cattura di un pericoloso maniaco, e frustrata da un imprevisto che trasforma un lucido appostamento in una perenne e vaneggiante immobilità; Montalbano invece gratificato dalla conferma di supposizioni che, però, relative a eventi remoti, non possono approdare ad alcun esito effettivo, e la cui cosciente gratuità è appunto reazione a quell’irrazionalità del reale che secondo Dürrenmatt vanifica lo schema consequenziale e coerente del giallo canonico.

Non è che l’interferenza fra pubblico e privato  a impedire la linearità: l’intervento dell’imprevisto, le slabbrature della volontà, permeano storie più aderenti a schemi convenzionali, incentrate su vicende private, che lasciano le istituzioni sullo sfondo. Dell’incoerenza dei comportamenti, delle sovrapposizioni fra progetti diversi, è intessuto anche un altro romanzo di Camilleri, La stagione della caccia, che, ambientato sempre nella immaginaria Vigata, ma nel secondo Ottocento, trae spunto da un episodio riferito nella parlamentare Inchiesta sulle condizioni sociali ed economiche della Sicilia del 1875-76. Ne vien fuori una vivacissima storia di umorismo nero: tornato nel paese di origine, un farmacista, innamorato di una ragazza nobile, e cosciente dell’ostacolo insormontabile costituito dalla differenza di classe, stabilisce che l’unico mezzo per sposarla è lo sterminio di tutti i membri della sua famiglia. La prima infrazione dei canoni del giallo (fra tutte le opere considerate, senz’altro la più clamorosa) è costituita dalla collocazione atipica della rivelazione del colpevole, che, se nel testo è convenzionalmente situata nel finale, è invece sfrontatamente esibita nel paratesto, perché inserita addirittura nella quarta di copertina. E la peculiarità del romanzo è appunto che la conoscenza dell’assassino non intacca il suspense: l’azzardo costituito dal dotare il lettore dell’informazione fondamentale è controbilanciato da una strategia più sottile di coinvolgimento delle attese, fondata sulle torsioni irregolari degli eventi. Appare evidente che le morti dei vari aristocratici, per le loro diversissime dinamiche, non possono rientrare in un disegno coerente; infatti l’intento delittuoso, anziché imporsi con rigida predeterminazione sulle volontà e gli avvenimenti, si compie proprio aderendo alle loro svolte volubili, e trascorrendo per gradi di responsabilità diversissimi. A un iniziale, anomalo suicidio indotto, seguono un omissione di soccorso, un blando favoreggiamento di un altro suicidio, un omicidio vero e proprio (ritardato per irresistibile simpatia verso la vittima), un altro omicidio premeditato, e infine un decesso per cause naturali, da tutti creduto però, per connessione con gli altri, anch’esso omicidio, Una serie così tortuosa che nessuna obbiettiva logica di detective potrebbe ricomporla: a ricostruirla è infatti l’assassino, in conclusione reo confesso, in virtù dell’ultimo colpo di scena: la sua scoperta della vanità del movente passionale, il disinteresse per la donna amata  e per l’amore in genere, una volta raggiunto il matrimonio.

Una vicenda di rancori, passioni, ricatti, racchiusa all’interno di un microcosmo universitario, è al centro dei Delitti di via Medina-Sidonia di Piazzese: la nostalgia di un personaggio del romanzo – che accosta riferimenti a Chandler, Simenon e Gadda – per i “sani, buoni, delitti”, risalenti a meccanismi più profondi della psiche, non offuscati, com’è quasi inevitabile in Sicilia, dall’ombra mafiosa, è evidente notazione metanarrativa, che enfatizza la specificità del testo, giallo siciliano che ignora la mafia. Anche qui il procedere dei crimini e della detection è deviato dalla pressione della casualità, alterato dalle screpolature dell’iniziativa. Il primo delitto, appartenente all’antefatto della storia, avviene mediante una lenta e complicatissima forma di avvelenamento: persino dopo la scoperta tardiva del progetto omicida rimane il dubbio che la morte sia dovuta a cause naturali. Il secondo delitto, motore dell’intreccio, è innescato da circostanze imprevedibili: è l’inaspettato svenimento della vittima non solo a permettere ma addirittura a provocare l’intenzione criminale; e con calzante ossimoro l’assassinio viene definito “occasionalmente premeditato”. L’indagine del protagonista, per quanto sorretta anche da tracce concrete e argomenti solidi, è lontana da ogni approccio lucidamente oggettivo: per l’appartenenza dell’improvviso investigatore all’ambiente in cui gli omicidi si verificano, per le consonanze più o meno consapevoli sia con una delle vittime che con l’assassino stesso, per la disinvolta enfatizzata intrusione di un elemento neanche a dirlo rigorosamente bandito dal giallo, la sfera onirica (uno degli indizi principali, quasi quello determinante, è fornito da un sogno ricorrente). La coesione, insomma è ristabilita, ma è una coesione che non esprime più coerenza, ma che anzi dell’incoerenza si alimenta.

Nei libri esaminati, certo, l’atipicità del suspense conosce esiti divergenti. I più felici mi sembrano quelli di Camilleri: forse perché attraverso la già notata originalità della cifra stilistica, lo scrittore segnala palpabilmente l’instabilità della propria adesione al giallo, la deformazione dello schema convenzionale. La distorsione delle formule linguistiche manifesta quella delle formule narrative; gli sbilanciamenti, le contraddizioni, le idiosincrasie che muovono gli eventi sono immediatamente travasati nella miscela, così singolarmente calibrata, fra italiano standard e dialetto. In Perissinotto è interessante la divaricazione fra la concatenazione serrata degli indizi e il ritmo sconnesso con cui sono esposti, fra la canonicità della storia e l’andamento sfilacciato, discontinuo del discorso, ingorgato dagli umori, modellato dall’angolatura scettica, titubante del protagonista; così che attraverso lo stile il volume rinnega le sue possibilità di avvincere, e una vicenda congegnata abilmente finisce per risultare discretamente noiosa.

Se ho fatto in precedenza riferimento ai romanzi di Eco è perché vi si ritrovano, in una declinazione esasperata, alcune delle costanti individuate: la mancanza di un disegno unitario e robusto dietro le manovre del potere (mancanza che ne accentua e insieme ne ridicolizza l’imperscrutabilità), l’irrazionalità degli avvenimenti, la convergenza imprevedibile dei fattori. Motivi anche qui svolti, è questo il punto di contatto, attraverso il ricorso al giallo. È scontato che si tratta di un ricorso diverso da quello osservato finora, perché riplasmato dall’impasto dei modelli, dal rispecchiamento irregolare, trasposto o frantumato dell’attualità, dall’ambizione enciclopedica della scrittura, dall’alternanza fra preponderanza ed eclisse del soggetto protagonista; in definitiva dall’impianto postmoderno. Ma è appunto significativo che il mantenimento in quest’impianto di una tensione diegetica comune “forte”, si fondi sull’uso, pur peculiare (tanto che se molti accademici hanno snobbato i romanzi di eco come polizieschi, alcuni esperti del poliziesco ne hanno sprezzatamente negato l’appartenenza al genere), del suspense. E abbastanza paradossalmente, il suspense dimostra a mio parere la sua  efficacia, la sua ricchezza di potenziale più nel Pendolo di Foucault che nel Nome della rosa: mentre nel primo romanzo è infatti maneggiato, esibito (e dunque in qualche modo sminuito) come esca per un primo strato di lettura, ingannevole nella sua facilità, manifesta la sua energia ricomparendo, filo sotterraneo ma permanente, nell’orchestrazione saggistica e digressiva del secondo. Nel Pendolo lo scarto tra fabula e intreccio e il conseguente avvicendamento dei piano temporali imbastisce immediatamente un enigma che garantisce alla lettura tensione: la conversazione telefonica incipitaria fra Casaubon e Belbo, con il contrasto fra l’aderenza del primo all’abituale registro comune di astrazione ironica, e l’inedita concitazione febbrile del secondo, innesca il mistero, preannunzia che le costruzioni cerebrali della lunghissima analessi sfoceranno in esiti concreti. Se il primo colpo di scena rivela l’insussistenza grottesca delle ipotesi sul piano dei Templari, il secondo, di poco successivo, mostra come questa insussistenza sia stata tragicamente presa sul serio. La frizione fra le supposizioni vacue che occupano il centro del testo, e il pericolo effettivo, anticipato dall’esordio in medias res, a cui approdano nel finale, si carica di significato: sulla vacuità si regge il potere, i complotti che inquinano lo stato, così presenti, e sempre nebulosamente, nella coscienza popolare, sono fondati sul nulla. La trama non rinunzia a catturare l’attenzione; ma in modo più evidente che nei testi già analizzati questa cattura non combacia con un lineare soddisfacimento delle attese. Il suspence riafferma i suoi diritti, ma tanto alterato da dimostrare le sfasature fra cause e effetti, l’ingovernabilità del reale.

In tutti i testi considerati la trama si snoda lungo un tessuto di citazioni, più o meno fitto o compatto; l’uso del giallo è regolato, scandito dall’evocazione dei classici del genere: l’esibizione della cifra metaletteraria, così caratteristica del postmoderno, è qui assorbita dalla mimesi, perché profondamente inserita nell’ottica dei personaggi. L’opzione comune per la narrazione omodiegetica o la focalizzazione interna consente infatti di mediare i rinvii intertestuali attraverso tratti ricorrenti dei protagonisti: la propensione a ricordi e paragoni, il senso già scontato di inadeguatezza, le ansie di riscatto già filtrate dall’autoironia. Il richiamo a un immaginario prediletto – che, come spessissimo nelle opere contemporanee, intreccia in accavallamenti o assimilazioni spesso confusi cinema e letteratura (non a caso, il riferimento del Cane di terracotta alla Promessa di Dürrenmatt non è citazione del libro, ma memoria vaga di un film da questo ricavato) – si profila sempre come consapevolezza di una frattura incolmabile, di una riproposizione solo maldestra e caricaturale. La caricaturalità è brillantemente accentuata nel finale dei Delitti di via Medina-Sidonia, in cui il topico momento del “sei stato tu”, del faccia a faccia fra investigatore e assassino, ispira il riferimento non a un classico del giallo ma a un suo ribaltamento parodico, uno di quei romanzi di Wodehouse che rivisitano in chiave ludico-paradossale trame e atmosfere di Agatha Christie. Nel romanzo di Perissinotto il confronto e l’inevitabile discrepanza del narratore con i modelli, si condensano nelle variazioni metaletterarie, compenso, subito denunciato come illusorio, degli scacchi subiti: variazioni consistenti nell’ipotesi di un finale alternativo, obbediente alle norme del giallo, e nell’autoironica riscrittura secondo i canoni del genere, dichiarata infine impossibile, dell’amara conclusione. Della citazione Camilleri fa un uso molto ramificato, sempre funzionalizzato al coinvolgimento del lettore, che trascorre dall’ammicco trasparente (il legame con un orizzonte testuale che va da Simenon a Vasquez Montalban, non senza il rilievo della quasi omonimia del protagonista con quest’ultimo), alla deformazione godibile (in una scena di perlustrazione di un luogo deserto, ricalcata su moduli cinematografici, il commissario finisce per sparare alla propria immagine in uno specchio) all’esca maliziosa, che è richiesta di una competenza più scaltrita: nella Stagione della caccia l’apertura di un’ellissi sui movimenti di un personaggio, segnalata dalla formula “fatto quello che aveva da fare”, funziona come falso indizio, la cui natura depistante è palese se si coglie l’allusione all’espressione analoga – celebre sia per i cultori del giallo che per i narratologi – che nell’Assassinio di Roger Ackroyd della Christie consente al narratore di ripercorrere gli eventi senza confessare la sua colpevolezza. La citazione esalta quindi il ruolo di lettori dei personaggi, costituisce insomma un complemento, un’enfatizzazione del loro atteggiamento di disincantata curiosità e dunque di quell’identificazione alla rovescia fra eroi e pubblico che notavo in precedenza: identificazione che procede all’insegna dell’assaporamento di luoghi familiari, della contrapposizione fra coerenza della fiction del passato e crepe e contraddizioni della contemporaneità. L’affollata e disinvolta varietà intertestuale mette a fuoco ma controbilancia anche la gratificazione mancata delle aspettative più ovvie.

L’esercizio metaletterario è chiave dell’azione in un altro recentissimo romanzo, Sei tu l’assassino di Raul Montanari: qui l’autore raccogliendo una sfida lanciata dall’Oulipo e riproposta da Eco, escogita l’unico espediente mai architettato nella storia del giallo, la colpevolezza del lettore, manovrando piuttosto ingegnosamente la difficile strategia della metalessi, mantenuta, diversamente che nella maggior parte dei casi (si pensi a Cortazar) nella sfera del verosimile (al mondo fantastico si accostano invece altri momenti del racconto). Lo stratagemma che determina la responsabilità involontaria del lettore è definito dal personaggio che l’ha ideato punizione della forma più ingenua e diffusa, dell’anelito di identificazione o rivalsa che muove gran parte degli acquirenti di libri. Anche nei volumi qui esaminati quest’anelito è, come si è visto, in parte schernito dall’azione irrazionale, dalle soluzioni precarie; ma lo schernimento è attutito dalla blandizie derivante dal riattraversamento di un orizzonte comune.

Certo la citazione non è propriamente consolatoria, non ha più quella valenza di indice della frattura fra verità dei testi, e disagi e ingiustizie del reale, così palese ad esempio (per tornare un’ultima volta sul modello più spesso rammentato) nelle opere di Sciascia – che ne offre una struggente mise en abyme nel Consiglio d’Egitto, il passo in cui Di Blasi si aggrappa furiosamente al ricordo dei libri più amati per sopportare il dolore della tortura. Tuttavia la sollecitazione del lettore perché assorba i riferimenti evidenti e ravvisi quelli impliciti costituisce un piano se non di antidoto, di gratificazione contro lo smarrimento della sicurezza dei nessi causali e delle nette individuazioni di responsabilità. La complicità che nasce all’insegna del recupero e insieme della divaricazione rispetto al patrimonio poliziesco – così sfruttato e riproposto da essersi infiltrato anche nelle competenze dei non patiti – sottolinea e al tempo stesso compensa l’anomalia di questo ritorno alla trama.

 

(pubblicato su Inchiesta, gennaio-marzo 1998)



Last modified Wednesday, July, 13, 2011