Scelte, equivoci e giochi onomastici nell’opera di Andrea Camilleri
Mappe del pianeta Camilleri, tra lingua, stile, arti, cultura e società
Autore | Marina Castiglione |
Data di pubblicazione | 16 aprile 2025 |
Testata | Treccani.it |
Il gioco onomastico è intrinseco alla scrittura di Andrea Camilleri. Esso riguarda sia i nomi di luogo (Vigàta, Montelusa, Fiacca, ecc.) che i nomi di persona. Mentre per i primi non appaiono, lungo la lettura dei testi narrativi, valutazioni metalinguistiche perché essi – sebbene camuffati – si offrono al lettore come reali e non «contrattabili» (Castiglione 2023, p. 234), discorso a sé meritano gli antroponimi letterari a cui lo scrittore fa ricorso. Sin dalla scelta dei nomi dei suoi stessi personaggi, Camilleri afferma da un lato di considerare importante il presupposto nomina sunt consequentia rerum, ma dall’altro di essere abbastanza restio dal cercare valori metaforici o caratterizzanti per i nomi dei propri personaggi (Brendel, Iodice 2005), cercando di riproporre nomi e cognomi effettivamente presenti nella sua memoria (ad esempio, il cognome Vasile) e sul territorio, come se non fossero altro che “etichette” realisticamente credibili. Di fatto, però, egli opta per soluzioni onomaturgiche (Migliorini 1968) evocative di una individualità determinata (ne è un esempio evidente lo stesso Salvo Montalbano, che si richiama come ringraziamento postumo allo scrittore Manuel Vázquez Montalbán, come ricostruito in Marzano 2013), allusive (Santippe, come è chiamata la moglie del preside Tamburello in L’arte della divinazione, Camilleri 1998b, pp. 23-33), fonosimboliche (Patò: «Giuda murì, Patò spirì, Spirì Patò, Cu l’ammazzò? Quantu patì? E po’; pirchì Patò spirò?», Camilleri 2000, p. 73. Si tratta di un nome reale recuperato in A ciascuno il suo di Leonardo Sciascia), trasparenti (Augello, perché «svolazzava da una donna all’altra», Brendler, Iodice 2005, p. 53). Di fatto, soprattutto per le motivazioni soprannominali, sono gli stessi personaggi che, con voce interna, suggeriscono al narratore e al lettore i perché della nominatio: «Turi di cognome faceva Borgini, la ’ngiuria con la quale era conosciuto Santalucia però gliela avevano messa che era ancora bambino, quando un’infezione agli occhi gli aveva minacciato la perdita della vista» (Camilleri 1998, p. 84). Da Tatarella a Catarella Le scelte onomastiche sono talora oggetto di casualità come nel caso del famoso appuntato del commissariato di Vigàta, Catarella: si scopre che il nome inizialmente attribuito era Tatarella, alla cui motivazione fonosimbolica (il tartagliamento dell’appuntato) si sovrapponeva, nelle intenzioni autoriali, l’identificazione di un sempliciotto. Non è lo stesso effetto procurato all’editrice: Elvira Sellerio vi scorge altre possibili e compromettenti identificazioni e il nome viene cambiato: D. Le è mai successo che la casa editrice volesse il cambiamento di un titolo per assicurare una vendita maggiore del libro? R. No, per evitare rogne. C’è una sola volta dove mi è capitato di dover cambiare un nome, ma non un titolo. Mi è capitato con Elvira Sellerio. Mi disse di cambiare un nome perché, insomma, era un po’ eccessivo. Ma la cosa bella è che questo nome, stavolta, lo avevo innocentemente scritto. Si tratta di Catarella, quello che parla quell’italiano assurdo, che io chiamavo Tatarella perché mi piaceva questa sorta di cognome che è come la tata, l’ingenuità, perché è un candido. Sennonché, in quel momento, Tatarella era un fascista vicepresidente del consiglio dei ministri. Quindi, dava l’idea di un libello, disse Elvira. «Elvì, non ci avevo pensato, lo cambio subito!». Fu così che lo chiamai Catarella (Brendler, Iodice 2005, p. 55) Nessuna compromissione, ma anzi un tributo consapevole è costituito da alcuni personaggi del Birraio di Preston (1995): nel capitolo Turiddru Macca, il figlio, si trovano nell’ordine Gegè Bufalino, Nardo Sciascia, Cecè Consolo, il dottor Addamo e «a chiudere circolarmente l’elaborata nominatio, il canonico Verga, che poi si saprà chiamarsi G.» (Danti 2014, p. 116). Analoga sfilata con chiari riferimenti ai protagonisti della storia economico-sociale locale e alla biblioteca letteraria regionale avviene in Un filo di fumo (1997 [1980]): Gli Attard, i Bouhagiar, i Camilleri, gli Hamel, gli Oates, i Peirce, gli Sciaino, gli Xerri arabi o maltesi che fossero, piedi incretati, attaccati all’osso, che sparagnavano magari l’olio ai morti; gli Ayala, i Contreras, i Fernandez, i Lopez, i Martinez, i Vanasco, i Villaroel, i Villasevaglios spagnoli tutti scocchi e maniglie, ma sostanza niente, sempre col naso arricciato come se sentissero feto; i Gotheil, gli Hoefer, i Jacobs, mangiapatate, scecchi tedeschi col paraocchi capaci di sdirruparsi dentro un fosso pure di non spostarsi di un centimetro sulla strada segnata, teste di chiummo, e poi la fila che non finiva mai di paesani garrusi, Brancati e Buttitta, Cacciatore e Consolo, D’Arrigo e De Stefani, Farinella e Fiore, Isgrò e Joppolo, Lanza e Longo, Mazzaglia e Mormino, Napoli e Nicosia, Padellaro e Pizzuto, Ronsisvalle e Russello, Savarese e Sciascia, Terranova e Turrisi, Uccello e Uliano, Vilardo e Virduzzo, Zagarrìo e Zinna, tutto il paese insomma… (pp. 28-29) Strategie difensive Sull’antroponimo equivocato nulla diremo sui fraintendimenti dei “nomi (im)propri” catarelliani, per cui cfr. de Fazio 2019, mentre ci soffermeremo su due testi camilleriani: La mossa del cavallo (1999) e La tripla vita di Michele Sparacino (2009). Del primo romanzo è protagonista il ragionier Giovanni Bovara, siciliano cresciuto a Genova, inviato a Vigàta in qualità di ispettore dei Mulini e inviso al sistema mafioso locale. Il suo nome è reale: «Giovanni Bovara, mi pare di ricordare, è stato ministro della guerra durante la repubblica genovese del 1802-05. Poi, con altro incarico mise la tassa sul macinato» (Bonina 2007, p. 439). Percepito come un estraneo perché parla il ligure e adotta un sistema di controllo che non tiene conto delle “regole” locali, «scoprirà presto che per sfuggire alla ragnatela di inganni orditi contro di lui, gli converrà riacquisire l’habitus del siciliano, riprendere cioè a parlare e persino a pensare nella lingua locale, imparare a “comportarsi” come i suoi avversari» (Caocci 2020, p. 50). Infatti, nell’interrogatorio che lo vede accusato di un delitto mai commesso, sfrutta a suo favore le strategie metalinguistiche con cui è stato incastrato. Padre Carnazza in punto di morte ha biascicato sillabe incomprensibili, dalla cui ricostruzione è possibile identificare i nomi di mandanti ed esecutori: […] mi fece pirsuaso che “moro”, in dialettu sicilianu, prima significa omo scuro di capelli, doppo significa africanu, doppo ancora significa voce di verbo e doppo doppo ancora cognomi. […] pinsai, all’ultimu, ca m’avesse mannato a fare in culu, rispetto parlanno, dispiratu pirchi non lo capivo. E inveci non mi manno a fare in culu. […] Quannu il parrinu si addunò ca io gli stavo allatu, murmuriò una parola che mi sono, allura, comu “spaiatu”. Che veniva a significari? Nenti. E quindi pinsai che avesse malamente detto “sparatu”. Ma che bisogna aveva di farimillo sapiri quanno si vedeva benissimo che era stato sparatu? Fece un nome. […] Spampinatu […] Secondo lei dunque il prete avrebbe fatto i nomi di Spampinato e di Moro? Di Spampinatu, di Moro e di… […] Fasulo. Non “fa’ n culo”. […] Ci ho ragionato sopra doppo che il signor La Mantia m’ebbe spiegatu come funziona u nostru dialettu. Chiarissimamente patre Carnazza disse “ulo”. Cognome. Se avesse voluto dire culu, avrebbe detto “ulu”. È semplici. […] (pp. 212-216) Un’imprecazione diventa Fasulo; un participio diventa Spampinato; un verbo diventa Moro. Nel passaggio dal lessico comune a quello proprio si realizzano la strategia difensiva di Bovara e il conseguimento della sua libertà. Il fantasma omonimo Nell’altro testo, La tripla vita di Michele Sparacino, ci troviamo di fronte ad uno «scangio», una delle cifre inequivocabili prima di Pirandello e poi di Camilleri. Chi è il protagonista del racconto? Vi sono almeno quattro risposte: il sobillatore socialista latitante e pericoloso, brigante e ateo descritto nei servizi giornalistici; il contadinello, ultimo di sette figli di Nanà ed Ersilia Sparacino, arruolatosi come soldato semplice a diciotto anni e morto sul Carso; il disertore facinoroso punito dal capitano Fillipoti e dal tenente Pintacuda; il cadavere che tutti onorano presso il Vittoriano di piazza Venezia a Roma. L’intreccio nasce da una ispirazione contenuta nell’ultima pagina di I vecchi e i giovani di Pirandello: «mi è nata l’idea di scrivere di uno che è esistito ma era come se non fosse esistito; o è sempre esistito equivocato ogni volta per essere un altro e che, quando muore, finalmente nella terza vita riesce a essere quello che è, cioè un ignoto» (Camilleri 2009, pp. 53-54). In realtà, il protagonista del racconto è un’etichetta, una sequenza di suoni apparentemente innocui, ma ominosi, che trascinano verso un destino involontario l’involontario e inconsapevole portatore. Lui, giovane comune e anonimo, semplice e analfabeta, non capirà sino alla fine l’ingombro del nome che lo ha perseguitato determinandone la fine, tanto che in trincea si chiederà «Ma che minchia gli ho fatto, a questi qua?» (p. 32). Nella sostanza, colui il quale porta il nome di Michele Sparacino non ha fatto niente di male a nessuno; il nome, però, precede il suo possessore, con un carico di connotazioni negative che determinano i comportamenti altrui, sin dal suo primo affacciarsi alla vita sociale e nazionale, ossia durante la visita di leva. Alla richiesta di generalità, lo sventurato risponde e pronuncia la burocratica sequenza di cognome più nome: «“Come ti chiami tu?”. “Sparacino Michele”. Il maresciallo circo tra i fogli che aviva davanti, ne piglio uno, lo liggì ’mpiccicanno il naso supra la carta. “Minchia!” fici tutto ’nzemmula». (p. 32) Il nome coinciderebbe con quello di un pericoloso assassino che soltanto un giornalista sostiene di avere visto e da cui avrebbe avuto in confessione una serie di reati di sedizione e sovvertimento pubblico. Nessuno controllerà la verità di quanto sostenuto dal giornalista: gli altri colleghi aggiungeranno particolari truculenti per non essere da meno e non farsi sfuggire la notizia, i carabinieri troveranno in questo sedicente latitante il capro espiatorio per giustificare ogni malefatta, il generale non vorrà arrendersi all’evidenza di una costruzione mistificatoria e anagraficamente impossibile di cui il vero Michele Sparacino è vittima. Dunque, la vita militare per il vero Michele Sparacino sarà un incubo non tanto perché la guerra è «una fitinzia» (p. 33), quanto per l’accanimento dei suoi superiori, decisi a fargli pagare tutti gli atti sediziosi attribuiti al fantasma omonimo. Ferito e con gli abiti stracciati, verrà scambiato per un tedesco e ucciso dal fuoco amico, proprio come nel finale di I vecchi e i giovani cui Camilleri dice di essersi ispirato. Persa la piastrina militare, il giovane si libera del suo nome di battesimo finendo in un cimitero «che era tutto fatto di croci senza nomi» e il suo corpo, scelto tra tanti, verrà traslato e deposto in una cassa d’ebano massiccio, onorato in un maestoso funerale nella veste, sempre pubblica ma innominata, di Milite ignoto, tra un corteo di madri afflitte. In entrambi i testi camilleriani, non verrà reso merito alla realtà biografica (sia pur letteraria) degli antroponimi che resteranno a contrassegnare gli antieroi di una verità dei fatti negata.
Bibliografia Brendler, A., Iodice, F., Intervista ad Andrea Camilleri sui nomi, in «Italianistica», 34/2 (2005), pp. 47-57. Bonina, G., Il carico da undici. Le carte di Andrea Camilleri. Intervista, Siena, Barbera Ed., 2007. Camilleri, A., Il birraio di Preston, Palermo, Sellerio, 1995. Camilleri, A., Un filo di fumo, Palermo, Sellerio editore, 1997 (1ª edizione 1980). Camilleri, A., Il corso delle cose, Palermo, Sellerio editore, 1998 (1ª edizione 1978). Camilleri, A., Un mese con Montalbano, Milano, Mondadori, 1998b. Camilleri, A., La mossa del cavallo, Milano, Mondadori, 1999. Camilleri, A., La scomparsa di Patò, Milano Mondadori, 2000. Camilleri, A., La tripla vita di Michele Sparacino, con in appendice la conversazione con Francesco Piccolo (pp. 53-91), Un destino ritardato, Milano, Rizzoli 2009. Caocci, D., Ironia e sarcasmo in Un filo di fumo di Andrea Camilleri, in «Italica Wratislaviensia», 11/2 (2020), pp. 41-54. Castiglione, M., Intorno al nome camilleriano, tra motore e scioglimento dell’azione narrativa, in «Il Nome del testo», XV (2013), pp. 191-204. Castiglione, M., Toponimi schermo in Sicilia, in «RION», XXIX/1 (2023), p. 234. Danti, L., «Una vistosa omissione» o quasi. Pirandello nel Birraio di Preston di Camilleri, in «Italianistica», 43/3 (2014), pp. 115-124. De Fazio, D., La lingua pirsonale di Agatino Catarella, Lingua italiana, Treccani.it Marzano, P., L’altra faccia di Montalbano: Vincenzo Collura, per gli amici Cecè. Note di onomastica camilleriana, in «Italianistica», 42/3 (2013), pp. 143-151. Migliorini, B., Dal nome proprio al nome comune, Firenze, L. S. Olschki, 1968. Porcelli, P., Gli antroponimi nella narrativa di Camilleri, in «Italianistica», 35/2 (2006), pp. 53-60.
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Saturday, April, 19, 2025
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