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Se i critici non ridono

In vita, Flaiano dà alle stampe sei libri. Il primo, che s’intitola Tempo d’uccidere, lo scrive dietro le affettuose insistenze di Leo Longanesi nel 1947. Con quel romanzo vince il Premio Strega. All’epoca, Flaiano ha 37 anni, e ha tutte le carte in regola per debuttare come romanziere. Molto giovane ha collaborato con articoli a Occidente, a Quadrivio, continuando poi a scrivere con frequenza su Oggi, Risorgimento liberale e Omnibus. L'esperienza del Mondo di Pannunzio verrà dopo. Inoltre è un nome ormai noto nel cinema come soggettista e sceneggiatore.
La figura di Flaiano come narratore è perfettamente definita, anche perché i suoi articoli di costume quasi sempre tendono al racconto, a organizzarsi come microstorie. Poi vengono Diario notturno, Una e una notte, Il gioco e il massacro, premio Campione, e Ombre bianche. Una produzione di così alta qualità, di così sottile, penetrante, ironica intelligenza, di così raffinata eleganza di scrittura, non ha avuto dalla maggior parte della critica militante quel serio riconoscimento che avrebbe ampiamente meritato. Anzi. I cinque grandi della critica, in quegli anni molto attivi su quotidiani e riviste, Pancrazi, De Robertis, Debenedetti, Contini e Cecchi ignorano costantemente l’opera di Flaiano. E se si vanno a consultare i dizionari divulgativi, al nome di Flaiano sono dedicate poche, riluttanti righe. Nella Storia europea della letteratura italiana di Alberto Asor Rosa, a Flaiano sono dedicate quindici righe, però capovolgendone l’iter, partendo cioè dalla sua attività di sceneggiatore con Fellini, per concludere che Tempo di uccidere è colmo di astratte ambiguità. E l'elenco delle vistose esclusioni potrebbe continuare.
Lucidamente, Flaiano questo lo aveva previsto, quando si era autodefinito scrittore “non incluso”. Le ragioni di questa indifferenza, o diffidenza, se preferite, ha tentato di spiegarle principalmente Maria Corti adducendo in primo luogo l’incapacità tutta italiana «di cogliere e assimilare ironia» e in secondo luogo la scarsissima diffusione, sempre in Italia, delle opere dei «memorialisti ironici e satirici». «Non riempiono gli scaffali», dice precisamente la Corti. Mi permetto di non essere d’accordo su queste motivazioni.
A mio avviso non sono gli italiani ad essere impermeabili all’ironia o alla satira. L’ironia e la satira hanno sempre fatto e continuano a fare parte integrante del tessuto della cultura più popolare, ne sono state anzi l’espressione più schietta e felice nel corso della nostra storia. Il rifiuto avviene non da parte degli italiani, ma da parte della togata critica italiana allorché la satira o l’ironia escono dalla suburra per salire nel, si fa per dire, tempio della letteratura. Già davanti alle porte trovano gli occhialuti cerberi custodi che negano l’accesso. Nel corso della nostra storia letteraria l’hanno concesso a pochissimi, ma una volta che li hanno fatti entrare, li hanno poi relegati in oscuri bugigattoli o in esigui pertugi nella speranza che presto vengano dimenticati. Detentori degli orientamenti letterari in Italia hanno sempre preferito far prevalere la letteratura penitenziale, quella dove lo scrittore soffre a scrivere e il lettore soffre a leggere. O quella dei narratori che inesaustamente trattano un solo tema, quello del loro ombelico.
Il secondo e forse più grave demerito di Flaiano ai loro occhi è stato di essere uno scrittore inclassificabile. Grandissima parte della critica italiana usa lavorare infatti con la stessa forma mentis degli entomologi che classificano gli insetti. Loro hanno le caselline belle e pronte con sotto la spiegazione del contenuto. C’è la casellina del romanzo di genere, del romanzo di formazione, del romanzo sperimentale, del romanzo storico, del romanzo d’amore, e via di questo passo. Quando arriva nelle loro mani l'insetto Pavese o l'insetto Brancati non fanno altro che deporlo nella casellina d'appartenenza. E se un autore, per ricchezza e varietà e novità d’argomenti, tende a debordare, a non starci dentro, loro l’amputano con le loro cesoie critiche fino a che s’incaselli esattamente.
L’insetto Flaiano dove lo possiamo classificare? Si chiesero interdetti al suo apparire. Esaminarono il suo unico libro che potesse propriamente dirsi un romanzo. Certo, si dissero, ebbe successo di pubblico e di critica. Ma sedati i clamori del Premio Strega, a rifletterci bene, rimangono aperti tutti gli interrogativi su come definire questo romanzo. Un’allegoria avventurosa? Una storia crudamente realistica? Un grottesco all’italiana? Un’eco di Camus? Un gioco dell’assurdo? No, bisognò arrendersi alla sua impossibilità di definizione. E allora, vista la difficoltà delle collocazione e considerato il disagio che apportava all’armonia dell’insieme, si posero la domanda se, in fondo in fondo, Flaiano fosse un insetto, un essere degno d’appartenere alla categoria degli insetti da loro classificati. E conclusero che la meglio era d’ignorarlo, tenendolo accuratamente in disparte.
C’è un altro e più sottile motivo di disagio davanti a Flaiano. Che si riallaccia al tema della satira accennato in apertura. La grandissima maggioranza della satira, sia essa popolare o colta, ha sempre avuto come bersaglio il potere e i potenti. E quindi ha trovato e trova una larga condivisione. Solo una piccolissima minoranza fa satira di costume, si rivolge cioè al vicino di casa, al suo simile, al suo stesso lettore. E peggio, talvolta s’indirizza verso chi fa lo stesso mestiere dell’autore. Cioè i letterati, gli scrittori, i critici, gli sceneggiatori, quelli che in parole povere vengono detti intellettuali.
Personalmente, ritengo uno dei punti penetranti raggiunti da Flaiano la sua risposta alla domanda in quale paese sarebbe voluto nascere se non fosse stato italiano. Flaiano ribalta la domanda, dice che prima vuole accertarsi di essere veramente un italiano. E comincia ad analizzare il suo comportamento. Ne viene fuori un ritratto spietato degli italiani. Flaiano non concede indulgenze, spesso è feroce, elegantemente feroce verso gli altri e può permetterselo perché prima di tutto lo è verso se stesso, con malcelato dolore, con malcelata disperazione. Naturalmente, senza mai domandarsi fino a che punto gli altri avrebbero potuto reggere a continuare a guardarsi allo specchio che lui costantemente, crudelmente, teneva loro davanti.
E così gli altri, quando non ne hanno potuto più, o meglio, quando non hanno potuto più sopportare la visione di se stessi, o hanno voltato la testa da un’altra parte o hanno deciso di considerarlo alla stregua di un fool elisabettiano alla loro corte letteraria, scegliendo di sorridere alle battute che penetravano in profondità, ferivano e avrebbero dovuto farli vergognare o piangere. È una forma di difesa ormai praticata da secoli, il ridimensionamento di uno scrittore per attutire, addomesticare, la forza d’impatto della sua spietatezza.
Flaiano pubblicò in vita appena sei volumi, i libri raccolti e stampati dopo la sua morte assommano a una trentina. Il dato mi è apparso talmente sbalorditivo che sono andato a cercare un minimo di riscontro. La bibliografia delle opere curate da Maria Corti ne elenca 15 postume, ma s'arresta al 2001. Questo incessante successo editoriale sembra essere un paradosso creato proprio dalla beffarda fantasia di Flaiano. Uno scrittore postumo. Che è non un minore, è questo l'errore che segnalavo nella sua autodefinizione, e nemmeno un maggiore. E' un unico, fuori da ogni graduatoria. E ancora più beffardo è il fatto che gli si attribuiscano battute come quella sugli italiani che corrono sempre in soccorso del vincitore, che non è sua, lui si è limitato semplicemente a riferirla.
Insomma, Flaiano continua a essere vivo, a essere continuamente citato, ed è come se quelle parole le avesse dette il giorno avanti seduto al tavolo di un caffè, la sua scrittura non s’appanna, anzi, più passa il tempo e più le sue parole acquistano lucentezza e vigore. Forse perché nel frattempo la nostra società si è deteriorata in un qualcosa che è solo apparenza, mistificazione, teatrino delle volgarità e quindi le sue parole valgono come antidoto, come pillole amarissime che però ti salvano il senso della vita. E anche quando non ci sarà più niente di nuovo di suo da pubblicare, egli continuerà a essere sempre presente, più che nella nostra letteratura, nella profondità della nostra coscienza.

Andrea Camilleri

(Il Messaggero, 20 marzo 2010)

Intervento al convegno Nostalgia e attualità di Flaiano, Pescara, 6/3/2010


 
Last modified Saturday, May, 25, 2013