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Realtà, invenzione e memoria dei luoghi letterari



Il profugo, il poeta ed il narratore. Tre diversi personaggi ed un denominatore comune: la ricerca di uno spazio. Ma, laddove il profugo vive della memoria dei luoghi passati, il poeta partecipa dei senso dell'esilio, nella ricerca di un luogo ideale, reale o immaginario, dove poter vivere. Ed infine, il narratore semplicemente crea una terra dove far stare i suoi personaggi. Ora edificando assolute utopie, ora esprimendosi nella massima fedeltà ai reali luoghi d'ambientazione.

Per scrivere sul rapporto tra geografia reale e geografia letterari, mi si offrono due strade tra lo diverse, che portano in direzioni diametralmente opposte. La prima è indicata da Franco Moretti, docente di letteratura comparata alla Columbia University di New York, che ha pubblicato un esemplare Atlante del romanzo europeo 1800-1990. In questo dotto e complesso studio, Moretti individua com’era fatta, per esempio, l’Inghilterra di Jane Austen, la Spagna del romanzo picaresco, la Francia balzacchiana della Comédie humaine. Dice acutamente il risvolto di copertina che l’intento dell’opera è quello di dare vita a "un progetto critico in cui lo spazio è il protagonista segreto della costruzione narrativa". L’altra strada è quella offertami da un giovane autore italiano che scrive romanzi a metà strada tra il noir e il poliziesco, un milanese il cui nome è Andrea G. Pinketts. In limine al suo romanzo Lazzaro vieni fuori (Feltrinelli, 1997), Pinketts testualmente avverte: "I fatti, i luoghi e i personaggi di questo romanzo sono puramente immaginari. Mi si potrebbe obiettare che esiste una regione chiamata Trentino Alto Adige e un paesino chiamato Bellamonte. Mi sento obbligato a specificare che sia il Trentino che Bellamonte, com'è noto, li ho inventati io". Non essendo né un letterato né uno studioso di letteratura, ma semplicemente uno che racconta le storie che si inventa, trovo percorribile solo la seconda strada. Il romanziere è un uomo di grande fede, nel senso dato da Monterosso in un suo brevissimo, fulminante racconto nel quale è detto come gli uomini, un tempo, fossero di grande fede. E la fede, com’è noto, smuovendo le montagne, provocava crisi tremende nei cartografi che non riuscivano a tracciare una carta geografica fissa: con perdite di carovane, intralcio nei commerci, sparizione d’intere civiltà. Solo l'affievolirsi della fede, sempre secondo Monterosso, permise la possibilità di una carta geografica attendibile. Restando quindi i romanzieri gli unici ancor oggi in grado di spostare le montagna, si apre il problema del come e del perché lo facciano, ammesso che il problema abbia una qualche importanza. C’è una battuta, nei Dialoghi di profughi di Brecht, che chiarisce molte cose al riguardo. Dice, suppergiù, uno dei due protagonisti: "Perché devo amare la mia patria? Perché devo amare il davanzale dal quale sono caduto da bambino? la mia patria non è la Germania, ma è fatta d una collina toscana, da alcuni alberi della Foresta Nera, da una spiaggia che vidi in Olanda, da un minuscolo laghetto che un giorno scorsi in Francia"… Chiarisce, le cose, solo fino a un certo punto. Questa patria-puzzle è fatta da frammenti di luoghi reali e visti, è composta da pezzetti di cartoline illustrate, luoghi veri dove il profugo conobbe probabilmente un momento di felice quiete. E lo stesso per un poeta, per un narratore? In parte, si potrebbe rispondere affermativamente. Il profugo e il poeta, si usava una volta romanticamente affermare, hanno in comune l’esilio, vero o immaginario che sia. Ma questo connaturato senso dell'esilio, della lontananza da un ideale paese dell'anima attiene quasi esclusivamente alla poesia, anzi molto spesso è la condizione primaria del far poesia. Ho commesso un evidente errore assieme aggruppando poeti e narratori. Sono due razze diverse. La differenza si può definire in modo quasi brutale: il poeta cerca una terra dove poterci stare, il narratore crea una terra dove poter far stare i suoi personaggi. Con "creare" intendo rimodellazione e strutturazione ex novo da materia preesistente. Voglio dire che dal nulla non si crea nulla, mentre da una materia ancorché minuscola si può ricavare (o creare, se più v’aggrada) l'universo. L’essenziale è che quella materia di base ci sia. Dirò subito che elimino da questo mio velocissimo excursus quegli scrittori che attraverso le trecento pagine (o quelle che sono) di un loro romanzo proclamare verità a misura d'uomo su scala 1:1. Già Umberto Eco ha brillantemente dimostrato le difficoltà enormi che hanno incontrato i cartografi cinesi nel voler tracciare, su scala 1:1, una mappa dell’Impero. Figurarsi una mappa del cosmo! E sono costretto ad escludere (ma questa volta di mala voglia), i narratori di ascese e cadute di imperi galattici come Isaac Asimov o gli estensori di mappe lunari come Ray Bradbury o i creatori di città spaziali come Arthur Clarke. Gli scrittori che invece si limitano, assai più modestamente, a disegnare e a erigere un habitat ideale ai loro personaggi, si dividono sostanzialmente, a mio parere, in tre categorie: in geografi, topografi, e topologi-toponomastici. Scrittori geografi sono indiscutibilmente, e per necessità, autori delle grandi e piccole utopie e gli autori della grande satira sociale. Curiosamente, sono gli scrittori dell’utopia, cioè del nessun luogo, che riescono a tracciare luoghi tra i più probabili. E’ plausibilissima l'isola a forma di falce di luna che il marinaio-filosofo ltlodeo descrive a Tommaso Moro, specificandogli anche che l’isola in origine si chiamava Abraxa e che cambiò in Utopia quando venne conquistata da Utopo; e la campanelliana Città del Sole, dove vige un rigoroso comunismo monastico, ha mura e strade percorribili allo stesso modo della Repubblica di Platone che resta l’archetipo. La plausibilità geografica regge anche in testi utopici di più libera e meno finalizzata invenzione, come nella scatenata, folle e fantastica Histoire des Etats et Empires du Soleil che Cyrano de Bérgerac scrive dopo un Voyage sur la lune. Così in Jonathan Swift, l'autore della satira più feroce contro l'umanità intera e da noi esorcizzata fino al punto di farne, con opportuni tagli, un innocuo romanzo per ragazzi. Samuel Gulliver s’imbarca come medico di bordo e naufraga nell'isola di Lilliput. Le prime pagine del romanzo non lasciano per niente presagire la distruttiva carica satirica dell'opera. Gli abitanti dell'isola, negli usi e nei costumi non si distinguono in nulla da altri uomini, la loro diversità è quella di essere alti solo sei pollici. E ogni cosa che li circonda è in proporzione. Basta a Swift questa alterazione di scala per far considerare le cose umane in una luce grottesca. Guerre, lotte intestine, cerimonie, gerarchie, viste come in uno specchio che rimpicciolisce, diventano fatti insensati o ridicoli. Poi Swift rovescia il suo cannocchiale e tutto diventa gigantesco. Gulliver viene lasciato sulla riva di Brobdingnag, i cui abitanti sono alti come campanili e tutto il resto è in proporzione. Quest'altra geniale alterazione di scala permetterà a Swift di mettere in bocca al re di Brobdingnag la celebre battuta: "Da quel che raccolgo dalla vostra relazione non posso non concludere che la maggioranza dei vostri indigeni è la più perniciosa razza di vermiciattoli che la Natura mai soffrì che strisciasse sulla superficie della Terra". Altri scrittori indubbiamente geografi sono gli autori di viaggi fantastici, dichiaratamente fantastici, come ad esempio Jules Verne. Naturalmente i suoi Viaggi straordinari attraverso mondi conosciuti e sconosciuti dovettero essere oggetto d'irrisione da parte dei geografi veri, se Verne sottilmente di loro si vendicò raccontando in un suo romanzo di un geografo francese che, dovendo partecipare a una spedizione in Brasile, si mette a studiare lo spagnolo ignaro che in Brasile si parla il portoghese. Mi limiterò invece a due soli esempi tra quelli che chiamo scrittori-topografi. Nel 1926 William Faulkner creò la Contea di Yoknapatawpha dove i Sartoris, gli Snopes, i Benbow, i negri, gli indiani, poooleranno, da allora in poi, un costmo personale, grande, dirà lo stesso Faulkner, quanto un francobollo ma che rappresenterà (come ha scritto Agostino Loimbardo) la più grande "'metafora sia della storia del Sud dopo la Guerra Civile sia del destino dell'uomo". Di questa Contea Faulkner, attraverso numerosi racconti e romanzi, non ci narra solamente le vicende degli uomini che l’abitano al presente, ma ne disegna anche la storia attraverso i racconti che il vecchio John Sartoris fa del periodo della Guerra Civile. Sarà pure un francobollo rispetto ad altre più grandi contee, ma assai raramente uno scrittore è riuscito a creare con tanta evidenza un luogo ideale che comprende case e fattorie, fiumi, colline, pianure. Sinceramente, ci si meraviglia di non trovarla sulla carta geografica delle terre lungo il Mississippi. Garbiel Garcia Marquez è nato in un piccolo centro della costa colombiana, in quella parte del mondo chiamata Caraibi. Il centro, quel paese, ha nome Aracataca, ma diventerà famoso in tutto il mondo come Macondo. A Macondo, come ad Aracataca, piogge torrenziali si alternano al caldo soffocante, alla prosperità passeggera data dalla coltura delle banane succede la povertà più nera, un passato di guerre intestine alimenta la violenza d'oggi. Macondo è già nel primo romanzo di Garcia Marquez, Foglie morte. Vi si narra del momento di maggior fulgore del paese, provocato dall'arrivo di una compagnia bananiera. Già in questo romanzo la geografia e. la storia di Macondo ci sono tutte, dal 1883, prima guerra civile, al 1918 che segna il ritiro della compagnia e l'inizio della decadenza di Macondo. Dodici anni appresso, Cent'anni di solitudine dirà di quel vento finale che cancellerà Macondo dalla faccia della terra. Dario Puccini ha scritto che Macondo è il microcosmo di un superiore macrocosmo, dentro il quale e è quel destino d'emarginazione al quale pare destinata l'America latina. Gli autori italiani (e quelli siciliani in particolare) sono essenzialmente topologi e toponomastici. Voglio dire che in loro prevale l’ambientazione in luoghi reali, concedendosi solo, e di tanto in tanto, dei leggeri spostamenti, degli aggiustamenti direi, del paesaggio urbano o delle campagne. Ma questi spostamenti sono timidi, spesso poco avvertibili. I biografi ci raccontano che due furono i paesi dell'infanzia di Pirandello, Girgenti e Porto Empedocle. Nel corpus delle novelle pirandelliane, una decina sono ambientate a Porto Empedocle. Ebbene in tutti e dieci i racconti sempre il paese è triangolato con tre immutabili punti di riferimento: il porto, la torre, il camposanto sulla collinetta. E poi Girgenti. In questa città Pirandello ambienterà non solo racconti, ma anche romanzi. Nelle novelle non si presenta mai una sia pur lieve alterazione dei luoghi; una, intitolata Il vitalizio, contiene probabilmente meno errori di uno stradario dell'epoca. Lo stesso accade nei romanzi: nel Turno la descrizione della via percorsa per arrivare ai Templi pare suggerita da una guida turistica. Le cose invece cambiano nel romanzo I vecchi e i giovani, ambientato principalmente a Girgenti e a Roma. In questo romanzo "storico" Pirandello opera parecchie alterazioni del paesaggio urbano. La successione delle strade, così pignolescamente riportata nel Turno, qui viene notevolmente scomposta e ricostruita; per permettere a due ville di potersi tra di loro guardare fa scomparire un'intera collina, una piazza che non c'è viene opportunamente allocata per necessità di racconto. Noti sono cambiamenti sostanziali, ma colpiscono per l'assoluta inosservanza dei luoghi altrove sempre dimostrata. "Dei suoi viaggi - ha scrtto Corrado Alvaro che gli fu attento amico – non gli sentii nessun ricordo di paese, molto sugli uomini". I personaggi, cioè gli uomini di Pirandello, gli unici che l’interessassero, sono quegli agrigentini che - parole di Leonardo Sciascia - "l'amore di sé, parossistico, ipertrofico, spingeva ai confini della follia: lucidi notomizzatori dei propri sentimenti e dei propri guai, presi fino al delirio dalla passione del ragionare ancor più che da quella della donna e della roba, intenti a difendere ossessivamente il loro apparire dal loro essere, di fronte agli altri e a volte di fronte a se stessi". Non tanto paradossalmente mi sento di concludere che se Girgenti non fosse esistita e Pirandello avesse ritenuto necessara l'invenzione di un luogo ideale per i suoi personaggi, avrebbe creato un suo Macondo che aveva esattamente i confini, le strade, le case, la campagna e il mare della vera Girgenti. Di Pirandello però non si può fare a meno di ricordare una novella pochissimo conosciuta che parla dell'uso, come dire, terapeutico, della geografia. S'intitola infatti Rimedio: la geografia. Il protagonista in prima persona, racconta dello strazio, e anche della fatica fisica, che prova in lunghe notti d'assistenza alla madre in agonia. Durante una di queste notti si siede, stremato, sulla scrivanietta che la figlia ha portato nella camera della nonna ammalata per tenerle compagnia mentre fa i compiti. La citazione è lunga, ma credo ne valga la pena: "Non so quanto rimasi lì. So che a giorno chiaro, dopo un tempo incommensurabile, durante il quale non avevo più avvertito né la stanchezza, né il freddo, né la disperazione, mi ritrovai col trattatello di geografia della mia figliuola sotto gli occhi, aperto a pagina 73, sgorbiato nei margini e con una bella macchia di inchiostro cilestrino su l’emme di Giamaica. Ero stato tutto quel tempo nell’isola di Giamaica, dove sono le Montagne azzurre… Avevo veduto sotto le acque chiare le mura delle case della città di Porto Reale sprofondate nel mare da un terribile terremoto; avevo sentito e respirato con indicibile conforto il tanfo caldo e grasso del letame nelle grandi stalle degli allevamenti… con la certezza precisa e tangibile che tutto questo era vero, in quella parte del mondo così lontana; così vero da sentirlo e opporlo come una realtà altrettanto viva a quella che mi circondava là nella camera di mia madre moribonda. Ecco, nient’altro che questa certezza d’una realtà di vita altrove, da contrapporre, volta per volta, alla realtà presente che v’opprime; ma così, senza alcun nesso, neppure di contrasto, senz’alcuna intenzione, come una cosa che è perché è, e che voi non potete fare a meno che sia. Questo, il rimedio che vi consiglio, amici miei. Il rimedio che io mi trovai inopinatamente quella notte". Fino a qua, niente d’eccezionale, interi volumi sono stati scritti sul tema dell’evasione offerta dalla possibilità di sognarsi in terre lontane e sconosciute. Il racconto fortunatamente prosegue e proprio sul finale acquista un’assoluta originalità: "…Fate come ho fatto io, che a ciascuno dei miei quattro figliuoli e a mia moglie ho assegnato una parte di mondo, a cui mi metto subito a pensare, appena essi mi danno un fastidio o un’afflizione. Mia moglie, per esempio, è la Lapponia. Vuole da me una cosa che io non le posso dare? Appena comincia a domandarmela, io sono già nel golfo di Bòtnia e le dico come se nulla fosse: Umèa, Lulèa, Pitèa, Skelleftèa… "Ma che dici? "Niente, cara. I fiumi della Lapponia. "E che c’entrano i fiumi della Lapponia? "Niente, cara. Non c’entrano per niente affatto. Ma ci sono, e né tu né io possiamo negare che in questo preciso momento sboccano là nel golfo di Bòtnia. E se vedessi, cara, vedessi come vedo io l atristezza di certi salici e di certe betulle, là… D’accordo, sì, non c’entrano neanche i salici e le betulle; ma ci sono anch’essi, cara, e tanto tristi attorno ai laghi gelati delle steppe… "Ma che diavolo dici? Sei pazzo? Io ti sto domandando… "Sì, cara. Tu mi stai domandando, non dico di no. Ma che triste paese, la Lapponia!" In anni più vicini a noi, Vitaliano Brancati anagramma falsamente Catania in Natàca ma nelle planimetrie dei suoi romanzi il Giardino Bellini e la Via Etnea si trovano situati allo stesso posto anche in una pianta stradale; Giuseppe Bonaviri lascia sempre intravedere in filigrana il paesaggio della sua Mineo e dei Monti Erei, anche se lo ricopre, o almeno tenta, con una visione trasfiguratrice alla quale concorrono nomi, evocazioni, magiche allusioni alla civilità degli Arabi in Sicilia; Stefano D’Arrigo nel poderoso Horcynus Orca dona al viaggio di Ndria Cambrìa un tono lirico-epico che lo sgancia da ogni coordinata possibile. L’unico che, a mia conoscenza, abbia tentato il salto dalla topologia alla topografia, nel senso di Faulkner e di Garcia Marquez, è stato Elio Vittorini con l’incompiuto Le città del mondo. In una Sicilia inquieta, percorsa da auto della polizia, autocisterne, camion, macchine a velocità folle, contadini in rivolta, camminano per trazzere, valloni, strade asfaltate, un padre e un figlio pastori, una ragazza in fuga dal suo paese, un’anziana meretrice girovaga, un’altra coppia padre-figlio. Le strade di queste persone ogni tanto s’incrociano, tracciando una mappa intricata d’itinerari, e poco a poco tutte le vie percorse, i paesi e le città intraviste o attraversate, finiscono per costituire un unicum che racchiude non solo la Sicilia tutta, ma il mondo stesso, Samarcanda o Gerusalemme, e la storia dell’uomo, un episodio della Bibbia, ad esempio, è come un fatto accaduto nell’Isola. "Una Sicilia – dichiarava lo stesso Vittorini – che potrebbe essere quella dei Borboni come quella di oggi, la Sicilia di sempre, fertile e desolata, isola felice e terra di fame".

Andrea Camilleri da Sicilia n. 2 (91), Febbraio-Maggio 2001



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