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I silenzi in Sicilia

I siciliani da sempre diffidano dalle parole perché sanno benissimo che le parole o sono pietre o sono cose di vento. Le prime quindi, avendo un peso specifico, vanno usate con cura, calibrate; e in quanto alle seconde, perché usarle se sono semplicemente inutili, chiacchiere che hanno la stessa consistenza di una foglia che un refolo porta via? Un esempio? L’amicizia fraterna, durata decenni, tra Luigi Pirandello e Nino Martoglio, stando a quanto si legge nel loro carteggio, s’interrompe bruscamente perché Martoglio, secondo Pirandello, ha detto una parola, una sola, che non doveva dire. E lo strappo non sarà più ricucito.
Sono decine i modi di dire che la sapienza contadina ha elaborato nel tempo per mettere in guardia contro le parole e a favore dello stare in silenzio. Ne scelgo solo due: «Cu havi vucca havi spata» (e qui la parola non è di pietra, ma addirittura un’arma) e «Allocu di parrari metticci pagghia» (invece di parlare mettici paglia: in bocca, naturalmente, e la paglia al posto dell’acqua del modo di dire italiano non ha lo stesso significato di richiesta di silenzio complice).
Da dove nasce questa diffidenza? La vulgata più accettata la spiega come una forma di difesa verso le dieci e passa invasioni straniere che la Sicilia ha subito nel corso dei secoli. I siciliani assai presto impararono a loro spese che l’orecchio di Dionisio non era solo a Siracusa, ma era dovunque perché chiunque poteva riportare ai rappresentanti del potere parole appena sentite che potevano condurre in carcere chi le aveva pronunziate. Per questo, dice sempre la vulgata più accettata, i siciliani hanno elaborato due linguaggi che non comportano l’uso della parola: quello mimico-gestuale e quello degli occhi. Soprattutto quest’ultimo è indecifrabile all’estraneo, perché presuppone, tra chi si guarda, una conoscenza reciproca profonda, un’assoluta comunanza di pensieri.
C’è un «mimo» antichissimo che bene illustra questo parlar per sguardi. Un giorno, in un paese del Nord, due siciliani vengono portati in carcere e, perché non possano mettersi d’accordo fra loro stabilendo una comune linea di difesa, sono rinchiusi in due celle separate e lontane l’una dall’altra. Il giorno del processo davanti al re, i due, mentre fanno il tragitto per avvicinarsi al trono, si scambiarono una rapidissima occhiata. A questo punto il primo ministro, che pure lui è siciliano, salta su e grida: «Maestà, è inutile, parlarono!».
Tutto questo lascerebbe supporre che se i siciliani non fossero stati costretti alla diffidenza verso la parola sarebbero stati loquacissimi.
Io, sommessamente, dico che non ci credo. Credo invece che i siciliani, nel loro Dna, abbiano sostanzialmente il culto del silenzio. Non sto riferendomi all’omertà, che è tutt’altra cosa. Aprire la bocca solo per necessità, proprio quando non se ne può fare a meno, perché parlare è comunque una fatica, un dover mettere in fila parole secondo regole e logica che in certe giornate che il sole scattìa è proprio impossibile. In certi casi, è meglio servirsi di chi la bocca l’ha già aperta, come in questo bellissimo «mimo» di Francesco Lanza: «I due mazzarinesi badavano all’orto, e il pa’ riposava al pagliaio. Or uno della partita contava a voce forte i cocomeri da portare in piazza; e l’altro: ‘’O Pe’ - gli gridò a un punto - mentr’hai la bocca aperta, chiama il pa’!’’».
I siciliani amano il silenzio del mare, amano il silenzio della campagna, amano il silenzio che in certe ore riesce persino ad averla vinta sui rumori delle città.
Amano i rumori che da quel silenzio vengono come incastonati. «Cercavo di descrivere il suono profondo che mandano le scatole di latta prese a calci dai bambini nelle strade solitarie» ... - scrive Vitaliano Brancati, e ancora: «... il sasso che, scappando di sotto il piede di un passante, scende per i gradini di una scalinata deserta»...
Il rumore di una vanga o l’abbaiare di un cane nella campagna siciliana non hanno lo stesso suono nella campagna toscana: in quest’ultima i suoni arrivano attraverso l’aria tersa e fine, nell’altra i suoni passano attraverso un silenzio denso e se ne impregnano.
E poi c’è un silenzio prezioso, quello che spesso cade tra due o più amici. Come spiegarlo? Un giorno dissi emozionato a mia moglie che l’indomani sarebbe venuto a trovarmi dalla Sicilia a Roma, solo per qualche ora perché era di passaggio, il mio più caro amico che non vedevo da qualche anno. «Vuoi che l’invitiamo a pranzo?» - domandò mia moglie. Quando il mio amico arrivò appena in tempo per sedersi a tavola con noi, ci abbracciammo commossi. Poi prendemmo il caffè seduti in salotto. Il mio amico aprì una valigetta e mi diede un libro che aveva scritto. Lo ringraziai. Ci abbracciammo e ripartì. Mia moglie, che non è siciliana, mi guardò sbalordita: «Ma perché non vi siete parlati?». «Abbiamo parlato, e tanto». «Ma quando?» «Mentre prendevamo il caffè». «Ma se siete stati quasi sempre in silenzio!».
Appunto, lei non aveva potuto capire che il nostro silenzio era stato un colloquio intenso, un silenzio gremito di parole.

Andrea Camilleri

(Pubblicato su La Stampa, 9 maggio 2005; anticipazione del libro I silenzi (dalle Langhe alla Sicilia alla Sardegna), a cura di Ugo Roello)


 
Last modified Wednesday, July, 13, 2011