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C'è solo San Calò
Il Vangelo secondo Camilleri

di Simona Demontis

"I preti buoni sono quelli cattivi […] il prete che contravviene alla santità o, nel suo modo di vivere, addirittura la devasta, in effetti la conferma, la innalza, la serve…"
Leonardo Sciascia, da Todo modo

 

Monaci e parrini / sènticci la missa / e stòccacci li rini” (monaci e preti, ascolta la messa e spezza loro le reni), come a dire, ammonisce Andrea Camilleri, che raramente ci si può fidare dei rappresentanti del clero. Lo scrittore ha cercato di dimostrarlo fin dal suo primo romanzo, Il corso delle cose, attraverso l’atteggiamento di monsignor Rufino, col quale ha inteso riprodurre lo stereotipo del settentrionale persuaso che i meridionali siano poco meno che dei selvaggi; sottolineare, nel contempo, la miopia della Chiesa che si preoccupa di eliminare ogni forma di sincretismo, piuttosto che considerarlo come un arricchimento in grado di cementare la devozione dei fedeli; esprimere, infine, un concetto successivamente più volte ribadito, secondo cui i siciliani siano osservanti di una sorta di superstizione piuttosto che di religione.

Si spiega in tal modo il comportamento, che rammenta la cronaca di un fatto reale, di Japichinu Sinagra ne La gita a Tindari. Il picciotto, nipote di un potente boss mafioso, sostenuto dal suo padre spirituale, manifesta un misticismo alquanto singolare in un assassino conclamato e tiene un altarino con immagini sacre, corredate di lumini accesi, nel proposito di ottenere con la preghiera la grazia di non essere rintracciato; in linea con chi, appunto, sembra condizionato da credenze popolari piuttosto che essere realmente un devoto.

Negli altri narrativi di Camilleri che si svolgono al giorno d'oggi, i religiosi rivestono solitamente ruoli di scarsa importanza. Basterà citare padre Barbera, in Meglio lo scuro, il sacerdote tanto abile nel penetrare la psicologia di Montalbano da tendergli un tranello e indurlo ad intraprendere un’indagine da romanzo d’appendice, ben cosciente che il commissario non avrebbe mollato l’osso fino alla soluzione del caso, che pure risaliva a oltre cinquant’anni prima. In Un diario del '43, un racconto da segnalare perché in qualche modo anticipa il tema de La presa di Macallè, compare invece don Celestino Zanchi, che ha l'onere di raccontare le ragioni del fratello Carlo, suicida appena quindicenne per il rimorso di essere stato autore di un massacro, originato da un malinteso senso di patriottismo.

Viceversa, nella massima parte dei volumi di ambientazione ottocentesca non è raro incontrare personaggi di ecclesiastici che hanno una parte rilevante nell’economia del racconto. Sono figure quasi sempre tratteggiate in maniera poco lusinghiera, a cominciare da padre Imbornone, il prete ladro e imbroglione stigmatizzato in Un filo di fumo. Ne Il gioco della mosca Camilleri rivela che il pattern di tali personaggi è autenticamente esistito: è padre Arnone, dissipato e donnaiolo, il quale non si fa scrupolo di utilizzare a proprio vantaggio i peccati che i parrocchiani rivelano in confessione e di popolare il paese con i propri figli illegittimi.

Accanto ad analoghe figure di sacerdoti biliosi, ottusi ed ipocriti che compaiono in altri narrativi, da La stagione della caccia a La concessione del telefono, a La scomparsa di Patò, appaiono marginalmente anche altri ministri di Dio più compresi nella loro missione, mentre ne La mossa del cavallo si incontra invece uno dei preti più fortemente caratterizzati, il depravato e avido padre Carnazza. Le sue innumerevoli conquiste, però, non creano soverchio scandalo nella città di Vigàta, data l’ampia diffusione della corruzione e del disfacimento morale; del resto il proverbio recita “L’omo è omo e tale resta macari se porta i vestimenta di lu Papa”. Il sanguigno prete subisce le conseguenze dei suoi vizi: teme la reazione di un'amante abbandonata e la vendetta di un marito tradito, invece viene assassinato da un cugino che era stato da lui depredato di ogni ricchezza: a nulla vale la richiesta di aiuto che padre Carnazza rivolge ad alcuni 'uomini d'onore', in quanto essi trovano più opportuno diventare complici dell’omicida.

In questi ultimi anni Camilleri, nella sua poliedricità, oltre che contentare i sempre più numerosi seguaci del commissario Montalbano, ha proseguito nel suo percorso più sperimentale affidando alle stampe altri due romanzi storici. Non si discorre tuttavia di storie che si svolgono nella ‘solita’ cornice tardo ottocentesca, con la quale l’autore ha ravvivato la polemica sulla questione meridionale postunitaria: con Il re di Girgenti, ancora una volta Camilleri sceglie la più difficile strada della novità e affronta la Sicilia settecentesca, tormentata dalla dominazione spagnola e dall'ingenerosità di una terra arida, martoriata dalla carestia. Vi agiscono figure clericali antitetiche, quali il pìspico Raina, il cui primo atto di insediamento è tagliare le ostie in due per risparmiare la farina; e il magnifico ritratto dell’esaltato padre Uhù, dedito a pratiche di mortificazione, esorcista e martire in nome della fede.

È però con la narrazione del discusso La presa di Macallè - volume che per la sgradevolezza delle tematiche sviluppate e per lo stile particolarmente crudo e brutale ha diviso critica e pubblico - che Camilleri usa la letteratura in modo feroce, tutt'altro che consolatorio, allontanando da sé le accuse di ‘buonismo’ che una parte della critica gli aveva sollevato. Il racconto si dipana in un momento storico di cui l'autore si era occupato soltanto occasionalmente in certi racconti, alcuni poco noti. Si tratta di uno dei periodi più dolorosi della storia italiana, vale a dire il ventennio fascista e più precisamente, come il titolo suggerisce, il lasso di tempo della guerra d’Etiopia. È anche l’epoca immediatamente successiva ai Patti Lateranensi, dopo i quali i rapporti tra Stato e Chiesa in Italia, piuttosto conflittuali in seguito all'annessione di Roma, hanno conosciuto un periodo di distensione, anzi, in taluni casi di piena collaborazione e appoggio mutuo, se non di connivenza e di reciproca strumentalizzazione.

Nessuna forzatura storica quindi, nella foga marziale di Monsignor Miccichè, un cappellano militare che, millantando azioni di guerra mai compiute e gloriandosi di essere inquadrato nella Milizia Volontaria di Sicurezza Nazionale, prepara per la cresima i balilla che devono diventare soldati di Cristo e del Duce. Il Monsignore, compiendo una scorrettezza che il piccolo Michilino, scandalizzato, non mancherà di rimproverargli, tradisce senza scrupoli il segreto della confessione: rivela le confidenze del bambino (a cui non aveva creduto) al collega padre Burruano. Questi, azzimato e di gusti raffinati, continuando la tradizione degli Imbornone e dei Carnazza, riveste tra l'altro il ruolo del seduttore della madre di Michilino (e di molte altre fìmmine del paese). Tradito da una lettera anonima, malmenato dal marito ingannato, viene ignominiosamente trasferito a Ribera, a far ammirare la sua tonaca lustra e le scarpe accuratamente lucidate ad altre parrocchiane insoddisfatte.

Il parroco dongiovanni ha però ben più gravi responsabilità: infatti si rende colpevole di avvallare l'atteggiamento di paternalismo colonialista del governo fascista, pregno di strisciante razzismo, diffondendosi in spiegazioni sulle presunte guerri giuste, sante e biniditte. Proprio come quella che l’Italia stava conducendo in Abissinia per volere del cosiddetto uomo della Provvidenza, alfine di trasformare i selvaggi, da  presunti cannibali, in buoni cristiani. Inoltre, proprio a tale sacerdote si deve addossare il torto di aver legittimato nel bambino la folle idea dell’assassinio politico come atto di fede: dichiarando che i nemici del Duce sono anche nemici di Cristo e viceversa, contribuisce, infatti, alla demonizzazione del comunismo e al consolidamento in Michilino della convinzione che, essendo i comunisti come degli animali, ad ammazzarli non si fa peccato.

Michilino fa un ragionamento simile a quello di Tano Fragalà nel paradossale racconto inserito a mo' di parabola esemplificativa all'interno de La bolla di componenda. Infatti già in questo libro-inchiesta Camilleri si chiede: "fino a che punto un uomo che ha commesso un reato ma che ha la coscienza e l'anima a posto in virtù di una speciale concessione della Chiesa può definirsi e sentirsi colpevole?" [1]

Gli omicidi di Tano e Michilino si trasformano in un atto d'accusa nei confronti di quella parte della Chiesa ipocrita che non può non rendersi conto di operare attraverso opportunistiche suggestioni, ma addirittura ne approfitta, ottenendo maggiore ricchezza, nonché potere sulle persone più facilmente influenzabili. È a quella fetta non sana della Chiesa non mater, ma cattiva magistra, - uno dei contraenti di quel pactum sceleris costituito dalla famigerata bolla di componenda - che si deve ascrivere la responsabilità morale della trasformazione delle sue pecorelle in lupi, dell'esistenza di assassini che sono a loro volta vittime innocenti dell'ignoranza propria e dell'altrui malizia. È una Chiesa che rivendica a sé un potere superiore di quello giudiziario e si fa essa stessa promotrice del malandrinaggio, dacché accettando e addirittura pretendendo una percentuale in ragione della colpa (secondo la tesi de La bolla di componenda), diventa complice e implicitamente mandante dei più disparati delitti.

Non può stupire, viste queste premesse, che Andrea Camilleri affermi di non credere nella vita dopo la morte e di non avere convinzioni religiose di sorta; parallelamente, lo scrittore manifesta senza remore la sua personale convinzione dell'esistenza di San Calogero, santo nìvuro e vendicativo. San Calogero c'è, sostiene lo scrittore: è superstizione, probabilmente, certo non fede, né religiosità, piuttosto "una cara compagnia dalla quale non mi voglio separare."[2]

Ai nostri occhi ciò è anche il sintomo che una coscienza civile, una condotta etica come quella di Camilleri si siano formate prescindendo dal fatto religioso e facendo a meno di qualsiasi imprimatur. Per questo sorprende, de La presa di Macallè, il fatto che in questa storia laida non si trovi alcun personaggio positivo: nemmeno la piccola vittima e suo padre sono dipinti con simpatia, nessun varco è rintracciabile, neppure nella chiave magico-realistica realizzata ne Il re di Girgenti, nel quale si proponeva nondimeno un altro protagonista di grande precocità. Molti dei personaggi sembrano pervasi da incontrollabili e profani furori, da pulsioni devastanti in cui la sensualità – sorniona e divertita nel ‘solito’ Camilleri - si tramuta in una carnalità esasperata e quasi bestiale, descritta in particolari minuziosi e voyeristici, tali da indurre alla repellenza. Altrettanto incontenibili sono gli impulsi violenti di un bimbo i quali si realizzano in un climax ascendente che oltrepassa le sevizie agli animali (che tanto non hanno l’anima), per proseguire verso il ferimento e infine l’assassinio di persone (che ai suoi occhi quell’anima l’hanno persa). Plagiato nel corpo e nella mente, Michilino si sente un angelo sterminatore, uno spirito vendicatore, in missione per conto di Dio. Se si parte dal presupposto che l'argomento trattato è stato preannunciato sia ne La bolla di componenda (1993) che in Un diario del '43 (1998), si indovina quanto la gestazione di questo libro sia stata lunga e probabilmente tormentata.

Attraverso lo sguardo disincantato de La presa di Macallè si procede con altra attenzione a una lettura seconda, più avvertita, dell'ultimo Montalbano, Il giro di boa, la cui vicenda riguardava già bambini senza infanzia, adulti anzitempo, cinicamente trattati come schiavi o come 'pezzi di ricambio'. Se nelle ultime storie di Montalbano il sarcasmo camilleriano è più amaro del solito, e l'atmosfera che si respira è diventata più cupa e claustrofoba, ne La presa di Macallè non solo non si ride, ma non si sorride mai. Non c'è nessuna concessione ai siparietti comici che solitamente Camilleri inserisce nella narrazione per sdrammatizzare: quella che vuole raccontare è una storia tragica - a suo dire non politica, ma metaforica -, che non lascia spazio ad una sana risata, perché, sembra insinuare l'autore, la nostra società non ha delle ragioni di serenità, non ha più – e da tempo - niente di sano da salvaguardare.

Questa inconsueta mancanza di umorismo in un narratore generalmente così ironico pare voglia suggerire verso quali abissi insospettati l’esaltazione di un fanatismo integralista può far precipitare; quanto facilmente si possa soggiogare e subornare una personalità debole ed indurla ad assecondare le pulsioni più brutali; che gravi guasti possa provocare una propaganda senza contraddittorio e un'autorità imposta con la prepotenza; quanti mostri produca il sonno oppiato della ragione e della religione. Non sembra possibile che Camilleri voglia ammonire Lasciate ogni speranza voi ch'entrate: più probabilmente questo romanzo grottesco che mostra la matta bestialità, priapico fin quasi alla pornografia, non velatamente gaddiano nella sua connessione fra eros e potere, si propone come una parodia, un iperbolico percorso di non-formazione che ha scelto di percorrere la strada dell'eccesso e dell'inverosimiglianza.

 

[1] ANDREA CAMILLERI, La bolla di componenda, Sellerio, Palermo, 1993, p. 60.
[2] La linea del palma. Saverio Lodato fa raccontare Andrea Camilleri, Rizzoli, Milano, 2002, p. 48.


Pubblicato su NAE, n° 5, Dicembre 2003, Edizioni Cuec, Cagliari


Ripubblicato col titolo C’è solo San Calò: il Vangelo secondo Camilleri, in versione aggiornata, in La letteratura e il sacro, vol. V (a cura di Francesco Diego Tosto, Bastogi, 2017)



Last modified Saturday, February, 25, 2017