Totò contro i Ciclopi
Luigi Pirandello si cimentò in due traduzioni in dialetto siciliano di testi non
suoi dietro invito dell’amico commediografo Nino Martoglio, catanese,
che aveva fondato a Roma al Teatro Argentina nel 1918 la «Compagnia drammatica
del Teatro mediterraneo» con la collaborazione dello stesso Pirandello e del
giovanissimo Rosso di San Secondo. Martoglio non era solo un autore teatrale di
conclamato successo, era anche un abile organizzatore teatrale e un direttore di
recitazione d'alto livello. Sadoul, lo storico del cinema, scrive che un film di
Martoglio, Sperduti nel buio, segna
addirittura l'inizio del realismo cinematografico.
Questa compagnia del «Teatro mediterraneo» è dichiaratamente una compagnia di
complesso, ha ottimi attori ma non ha mattatori e intende combattere appunto «le
falsificazioni brutali» che grandi attori «troppo acclamati» operano sui
testi degli autori. L'appunto è evidentemente rivolto, tra gli altri, ad Angelo
Musco, che fino a poco tempo prima ha portato al successo opere di Martoglio e
di Pirandello, costringendole però al suo temperamento di straripante comicità.
Ma sarà proprio per questa lotta al mattatore che la compagnia, osteggiata dai
grandi impresari, non avrà vita facile né lunga. Il repertorio è ambizioso:
opere del ventunenne Rosso di San Secondo, di Verga, di De Roberto, la ripresa
della traduzione siciliana della Figlia di Jorio di D’Annunzio dovuta a
Giuseppe Antonio Borgese, e due traduzioni pirandelliane, Glauco di
Ercole Luigi Morselli e Il Ciclope di Euripide. L’opera di Morselli non
riusciva a trovare un capocomico disposto a metterla in scena: fu per amicizia
verso l’autore che Martoglio e Pirandello gli promisero la rappresentazione
col «Teatro mediterraneo» che, essendo composto da attori siciliani, doveva
per forza essere prima tradotta in dialetto. Pirandello, che non amava il
linguaggio dannunziano di Morselli, prese in mano quel testo non per elezione,
ma per aiutare l’amico Morselli che versava in disagiate condizioni. Portata a
termine la traduzione e appena cominciate le prove, giunse la notizia che il più
noto e raffinato dei direttori artistici dell' epoca, Virgilio Talli, aveva
manifestato l'intenzione di mettere lui in scena Glauco
con la sua compagnia (cosa che poi fece e fu un trionfo). Per non far
perdere all'amico Morselli questa grande opportunità, Martoglio tolse l'opera
dal cartellone. La traduzione pirandelliana venne messa in scena da Grasso
Junior nel 1922 e poi ripresa con la mia regia, nel 1970, al teatro greco di
Tindari.
Di questa traduzione dirò solo una cosa che mi pare di qualche rilievo. E cioè
che le battute del personaggio della maga Circe Pirandello non le traduce in
dialetto: le lascia in italiano, nel linguaggio paradannunziano di Morselli.
Perché questa voluta omissione?
Perché l’italiano sontuoso e ricercato di Morselli diventi una lingua «altra»?
Ma qui non è il caso di dilungarci oltre. Diciamo subito invece che la
traduzione del dramma satiresco di Euripide, col titolo 'u
Ciclopu, andò in scena al Teatro Argentina di Roma il 25 gennaio 1919.
Risulta del tutto evidente che Pirandello non tradusse il testo dall'originale
greco, ma dalla traduzione italiana di Ettore Romagnoli. E' una traduzione della
traduzione. L'hanno rilevato gli studiosi che, da Antonino Pagliaro in poi, si
sono occupati dell'opera. Un solo esempio, a riprova. Dice il Ciclope a Ulisse
nella traduzione letterale: «La caldaia, bollendo, circonderà bellamente le
tue carni sbranate»; nella versione Romagnoli: «E la caldaia, che col suo
bollore / ti terrà caldo meglio di un vestito»; nella versione Pirandello: «E
'na quadara, chi cu l'acqua cauda / ti teni caudu megghiu d'un vestitu». E
inoltre, tutti i versi che Romagnoli omette nella sua traduzione sono parimenti
assenti nella traduzione pirandelliana. A parte questo, perché Pirandello
sceglie proprio Il Ciclope? Acutamente
Pagliaro afferma che la scelta avvenne soprattutto, ma non solo, perché essa
poteva proporsi come una sorta di prova del nove della concezione dell'umorismo
pirandelliano, concentrata nella figura grottesca del Ciclope. Mi permetto di
aggiungere alle ragioni di Pagliaro che Pirandello certamente avrà trovato
delle affinità, che la sua traduzione avrebbe reso più evidenti, tra il mondo
contadino di Liolà (1916) e di ‘A
giarra (1917) e quello del Ciclope.
A me è capitata la fortuna di mettere in scena 'u
Ciclopu nel 1969, nel 1979 e infine nel 1982, sempre con attori diversi. Una
lunghissima frequentazione che ha segnato, al di fuori dell'esperienza teatrale,
anche la mia scrittura di romanziere.
Va detto, anzitutto, che il dialetto adoperato qui da Pirandello non è la
parlata girgentana della quale si è servito per Liolà, quella parlata che «per
certe sue particolarità fonetiche» forse più d'ogni altra s'avvicina alla
lingua italiana, si tratta piuttosto di una sorta di siciliano ecumenico, come
lo definì Jacobbi, che tiene sostanzialmente conto del fatto che gli attori
siciliani appartenevano a stragrande maggioranza alla Sicilia orientale dove
erano, e sono, in vigore particolarità fonetiche assai diverse. Un solo esempio
anche qui: meglio in girgentano si
dice megliu, ma in catanese suona megghiu.
Pirandello aveva scritto che «l'umorismo ha bisogno del più vivace,
libero, spontaneo e immediato movimento della lingua... il movimento è nella
lingua viva e nella forma che si crea. E l'umorismo che non può farne a meno lo
troveremo nelle espressioni dialettali, nella poesia macaronica e negli
scrittori ribelli alla retorica». Fedele a queste sue idee, Pirandello nella
traduzione trascina il linguaggio verso espressioni e modi e parole (anche
volgari) di registro scopertamente comico, senza temere forzature alte, sopra le
righe. Leggete a cosa si riduce la guerra di Troia, agli occhi del Ciclope:
nell'inseguimento fino a Troia di una “mala fruscula» (cattiva pianta), di un
«du' grana di fimmina» (un due soldi di femmina) da parte di un gruppo di
greci che sarebbero da prendere tutti «a naticati» (a sculaccioni). Oppure la
descrizione di quello che il Ciclope usa fare durante un temporale: «...iu mi
staju ccà, riparatu / nt' 'a me' grutta; e, pappànnumi ddà quarchi /
vitidduzzu di latti o, metti, quarchi / quartu di sirvaggina, mi cunsolu; / mi
jettu a panza all'aria; poi cci vivu / supra una beddra mastrella di latti / e
tiro certi pìrita all'urvigna, / pìrita, ca li trona di lu patri/ Giovi mi
fannu ridiri»...
Ma l'invenzione più geniale e sorprendente di questa traduzione è nell'uso,
del tutto assente tanto in Euripide quanto in Romagnoli, di tre parlate diverse
tra loro, quella del Ciclope, quella di Ulisse e quella di Sileno, ognuna delle
quali connota l'appartenenza a un diverso status sociale. Le parole che il
Ciclope spesso adopera appartengono al più ristretto ambito contadino, sono
proprie ed esclusive della gente di campagna: 'mpidicati
(legati per i piedi), frusteri (forestiero),
scramuceddu (vitellino appena nato), chianca
(grosso ceppo), brìnghisi (brindisi)
ecc. Ma è soprattutto nella costruzione delle frasi che emerge la mentalità
contadina, fatta di diffidenza e di chiusura verso gli estranei e di «affettività
elementare per gli animali e per le forze della natura» (Pagliaro). Invece il
modo di parlare di Ulisse fa venire in mente immediatamente Totò che si ritiene
uomo di mondo perché ha fatto il militare a Cuneo. La sua parlata è, per tre
quarti, una parlata di rappresentanza: un alternarsi continuo di
italianizzazione e di sicilianizzazione che sta a dimostrare il suo, come dire,
cosmopolitismo di eroe guerriero che ne ha viste tante.
Ho detto
per tre quarti, perché questa parlata di rappresentanza Ulisse la perde di
colpo, la dimentica, quando vede i suoi compagni mangiati dal Ciclope: qui egli
ritrova il dialetto natio puro e semplice, senza ricercatezze. E' un bellissimo
effetto teatrale. E infine la parlata di Sileno nella quale giustamente Pagliaro
trovava «qualcosa di cittadinesco», ma un cittadinesco da bassifondi. Credo in
definitiva che la vera ricchezza di questa traduzione, il suo impareggiabile
dono, consista in questa felice invenzione di tre parlate che nella loro vivezza
e nel loro contrapporsi trasformano la parola in pura azione scenica.
Andrea Camilleri
(Pubblicato
su La Stampa, 14 maggio 2005) |