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Come vendere un milione di copie e vivere felici



Autore Antonio D'Orrico
Prezzo Euro 19,00
Pagine 303
Data di pubblicazione 2010
Editore Mondadori
Collana  


"Per diventare scrittori dovete imparare a rubare": è questo uno degli insegnamenti fondamentali che il professor Federico Sicoli impartisce ai suoi allievi della Scuola superiore di scrittura "C. Pavese". Perché se ne convincano, durante le lezioni fa addirittura indossare loro delle mascherine nere, come quelle della Banda Bassotti. Vittorio Campari di quel principio fa subito tesoro. Non a caso è l'allievo prediletto. Forse è proprio lui quello destinato a diventare l'autore del bestseller da un milione di copie, come promette il titolo del corso e come non è ancora mai avvenuto. Vittorio però è impacciato ed esitante, sempre pronto a esaltarsi per ogni nuova idea per poi buttarsi giù alla prima contrarietà. In realtà un allievo c'era, che possedeva tutte le qualità necessarie per diventare autore di bestseller: lo scaltro e spregiudicato Kashmir Paolazzi. Ma era talmente privo di scrupoli che aveva tentato di trafugare dal cassetto della scrivania di Sicoli il manoscritto del suo romanzo inedito ed era stato espulso dalla scuola. Allora, a forza di falsi scoop e vere cialtronate, da ottimo allievo si era trasformato in giornalista di successo, presenza fissa e acclamata in salotti e talk-show, prima firma del "quotidiano più autorevole e diffuso del Paese", nonché prima causa dei travasi di bile di Vittorio Campari. Il quale, però, nel frattempo ne ha fatta di strada. Dopo un'infelice serata nel salotto di Selvaggia Venanzi, regina della mondanità romana, quando la sua carriera letteraria gli era sembrata finita ancora prima di cominciare, scrive una telenovela che piace nientemeno che aI papa Christian l, con l'acclamata attrice Costanza Lesbii nella parte della protagonista. Potrebbe ritenersi soddisfatto. Anche perché intanto con Costanza Lesbii ci si è pure fidanzato. I guai però (ri)cominciano quando si mette a scrivere un romanzo-verità su Cosa Nostra dove rivela alcuni segreti di famiglia del boss Ninì Ussorio...
In una esilarante cornice romanzesca Antonio D'Orrico cala il suo gioco di rimandi e citazioni, di richiami e allusioni, riciclando, in una spericolata operazione di ecologia letteraria, alcuni dei racconti più belli e dimenticati della letteratura italiana del primo Novecento (D'Annunzio, Tozzi, Verga, Pirandello). Restaurandoli con il massimo rispetto e il massimo dispetto, ammodernandoli, onorandoli e disonorandoli, sottoponendoli a lifting e liposuzioni, Antonio D'Orrico ha scritto un romanzo che è un intervento di chirurgia estetica nel senso medico, cosmetico ma anche filosofico della parola. Con un esito che oscilla tra il noir e la commedia brillante alla Frank Capra. Anche se la scelta definitiva, forse per calcolo deliberato, forse per inconscia affinità, sembra propendere per la seconda soluzione.


Troppo silenzio intorno al critico
Recensione di Andrea Camilleri (Corriere della Sera, 12.5.2011)

Questa mia non intende essere una recensione, ma una pubblica ammenda. Ho letto il romanzo d'esordio del noto critico Antonio D'Orrico, "Come vendere un milione di copie e vivere felici" non appena la Mondadori lo pubblicò, più di sette mesi fa. Devo confessare, adesso non senza una certa vergogna, che cominciai a esserne preso già da subito, iniziai a divertirmi fin dalla prima lezione che il professor Federico Sicoli, docente della Scuola superiore di scrittura «C. Pavese», tiene agli allievi del suo corso, il cui tema è lo stesso cha dà il titolo al romanzo. La sua discettazione sul doppio significato della parola «membro» o la risposta che dà all'allievo Campari che gli chiede se Giuseppe Gioacchino Belli, vivendo ai giorni nostri, sarebbe stato romanista o laziale, le trovai veramente spassose. Giunto alla fine, mi congratulai mentalmente con l'autore: egli aveva saputo mantenere sino all'ultimo rigo, senza un momento di stanchezza, un tanto brillante quanto difficile tono narrativo che era sì paradossale e stralunato ma che non perdeva mai di vista la sgradevole realtà dei nostri giorni. Un romanzo che non rispettava le regole, un romanzo felicemente anarchico, ilare e feroce, ironico e sarcastico, dove s'aggiravano, oltre ai due ex allievi del corso di scrittura, il dotato ma instabile Vittorio Campari e l'arrivista giornalista di successo Kashmir Paolazzi, anche un boss di Cosa nostra, un senatore sonnolento e Premio Nobel, uno psicoanalista naturalmente viennese, il Papa, Billy the Kid, la padrona di un salotto mondano e sua figlia... E, come se non bastasse si ritrovavano, «restaurati» e riproposti, personaggi celebri della nostra letteratura quali Nicola Petix della splendida novella pirandelliana "La distruzione dell'uomo" o Rosso Malpelo di Giovanni Verga, e ancora rivisitazioni di racconti di Tozzi e di d'Annunzio. Un cocktail che in mani meno abili sarebbe risultato imbevibile e che invece, dopo lo shakeraggio di D'Orrico, si rivelava sapientemente amalgamato, gustoso e forte. Devo anche confessare che lo consigliai ad alcuni amici che convennero che si trattava di un romanzo fuori dal coro, originale e godibilissimo. Naturale dunque che mi venisse la curiosità di sapere quale giudizio ne avrebbero dato i recensori abituali. La mia curiosità era destinata però a rimanere insoddisfatta. Può darsi che qualche recensione ci sia stata e mi sia sfuggita, ma la mia impressione fu che su questo libro fosse calata una cappa di silenzio. E fu proprio questo silenzio, che definirei salutare, a farmi lungamente riflettere, a farmi infine capire tutta la portata dell'enorme errore di valutazione che avevo commesso. A mia unica discolpa posso portare solo l'avanzata età, che ci fa tornare bambini e ci fa ridere di un nonnulla. Adesso, rinsavito, mi pongo alcune domande che allora non mi posi. Può un critico letterario che scrive sul magazine «del quotidiano più autorevole e diffuso del Paese», dare alle stampe un romanzo che non sia una guida illuminata, quintessenziale, severa, direi addirittura austera, alla letteratura «alta», quella che svetta solitaria com'era una volta la cima dell'Everest? Un romanzo che non sia un faro alla cui luce possano guardare i giovani scrittori d' oggi che tanto hanno da apprendere? Può un critico militante scompigliare il lavoro dei suoi colleghi con un romanzo letteralmente inqualificabile, che non rientra nei binari di quei generi pacificamente codificati che spaziano dal noir al romanzo di formazione e sui quali i recensori si muovono ormai meccanicamente senza nemmeno più bisogno di leggere il romanzo da recensire? Può un critico militante sbeffeggiare senza ritegno le scuole di scrittura e il mondo letterario? Può un critico militante osare metter mano a capolavori eccelsi della nostra letteratura e manipolarli senza rispetto? Può un critico militante oltraggiare la sacralità della scrittura, il sacerdozio dello scrittore, e anche la vocazione del giornalista? Può un critico militante, attraverso il suo romanzo, incitare l'incauto lettore all'irriverenza e, indirettamente, al dileggio verso altissime personalità? E infine, per dirla col sommo Gogol', perché si scrivono cose simili? Che ne viene alla Patria?



Last modified Wednesday, July, 13, 2011