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Un sabato, con gli amici



Autore Andrea Camilleri
Prezzo € 17,50
Pagine 142
Data di pubblicazione 27 gennaio 2009
Editore Mondadori
Collana Scrittori italiani e stranieri
e-book € 6,99 (formato epub, protezione Adobe DRM)


«Volevo provare se sono capace di scrivere in italiano...» (Andrea Camilleri)

Quando il passato presenta i suoi conti. Le vite di Matteo, Gianni, Giulia, Anna, Fabio, Andrea e Renata detta Rena sono tutte vite segnate. Fin dall'infanzia, con traumi profondi che scuotono l'anima oppure vanno a interrarsi in certe zone segrete della coscienza, e dalla giovinezza che ci aggiunge il suo carico di turbamenti, di rivolte, di affermazioni di sé. Sembrerebbe che gli anni della prima maturità possano portare un inizio di pacificazione, se non altro perché le vite sembrano incanalate nei loro binari borghesi e le coppie si sono stabilizzate, ma non è così. Non è affatto così; anzi, è proprio il contrario: l'età matura è il momento giusto perché i nodi vengano al pettine, gli elementi psichici si combinino apposta per precipitare, per esplodere come una miscela assai temibile con la quale un alchimista improvvido abbia giocato troppo a lungo e con troppa fortuna. Decisamente, questo romanzo è anomalo nella produzione di Andrea Camilleri. Lo è da subito, dalla prima lettura che ci propone una lingua secca, affilata, che non cede all'espressività del dialetto né ad alcuna di quelle varie forme di pietas che spesso si ritrovano nella prosa del maestro di Porto Empedocle e che sotto forma di ironia, tenerezza, comprensione per le umane debolezze intervengono a lenire anche le situazioni più dure e crudeli. Qui invece non c'è possibilità di fuga o di nascondimento. Ogni personaggio è consegnato alla sua dannazione e alla deriva inesorabile delle sue azioni. Quella che si sente, fortissima, in queste pagine, è la voce del Camilleri uomo di teatro. La si sente nelle clausole immediate, nel disegno rigoroso della trama, nella geometria delle relazioni tra i personaggi, nelle battute perfettamente calibrate per efficacia e verosimiglianza, nelle cadenze stilizzate del tipico dramma contemporaneo: morboso, implacabile, assurdo.



Verranno i ragnetti e mi mangeranno il naso
(Anteprima pubblicata su La Stampa, 27.1.2009)

«Quando tonna papà?».
«Uffa, quanto sei noioso!».
«Pecché andato via papà?».
«Te l’ha detto lui stesso: vado a Palermo per affari ma torno presto». «E quand’è plesto?».
«Non ti reggo più!».
«Pecché non mi dici quando tonna papà?».
«Ma te l’ho già detto e ripetuto! Possibile che non capisci, scemotto? Facciamo così, dammi la mano».
«Quale, mamma?».
«Quella che vuoi. Ecco, bravo. Stammi a sentire. Vedi, in ogni mano ci sono cinque ditini. Il più piccolo, questo, si chiama mignolo, il fratellino che gli sta accanto anulare, il più lungo di tutti medio, quello accanto indice e il più grosso di tutti pollice. Uno, due, tre, quattro, cinque. Cinque dita, chiaro? Siccome papà torna tra cinque giorni, ogni sera che ti andrai a coricare, a cominciare da domani, chiuderai un dito. Quando non avrai più dita perché le avrai chiuse tutte e la tua mano sarà diventata un pugno, papà tornerà a casa. E ora vai in bagno. Appena ti sarai spogliato mi chiami e vengo a lavarti e a metterti a letto».

Nel sonno, ha sentito le labbra di papà sulla fronte. Poi è arrivata mamma che l’ha svegliata carezzandole i capelli. Quando ha aperto gli occhi, ha visto il suo viso sorridente. Come sempre.
«Ciao, mamma».
«Buongiorno, piccola mia».
La prende in braccio. Bagnetto.
«Guarda che bel vestitino che ti ho preparato per oggi».
Quello verde. Mamma le ha detto che si chiama verde, come il prato.
«Ti piace?».
«Fi».
«Ora te ne vai nella tua stanzetta buona buona a giocare, mamma deve andare in ufficio. Fai la brava donnina, mi raccomando, e non combinare guai. Tra un’oretta viene Gemma. Ma se hai bisogno di qualcosa, vai a bussare da zio Eugenio».
Il fratello di papà che è tutto peloso e che ha una gamba storta e che non sorride mai e che non esce mai dalla sua stanza e che a tavola non parla ma che ogni tanto di nascosto da tutti le allunga una caramella.

Sul 28 a quell’ora di solito non c’è tanta gente. Erminia sta seduta dalla parte del finestrino e se l’è messo sulle ginocchia in modo che possa guardare fuori. A un certo punto lo fa alzare prendendolo da sotto le ascelle.
«Dammi la mano».
La mano d’Erminia non è liscia come quella di mamma. A lui non piace dargliela, a Erminia.
Scendono alla solita fermata, imboccano il grande viale alberato, arrivano alla «loro» panchina nella rotonda, Erminia saluta da lontano un’amica e si siede. Lui invece ha visto che ci sono già Luca, Simone e Mara, i suoi amici.
«Volio andale...».
«Vai.»
Il gioco di questa mattina è una corsa di automobiline con la chiavetta. Mara è la più brava di tutti, vince sempre lei.

Sono a tavola, stanno cenando. Ai soliti posti, lei accanto a mamma e, di fronte, suo fratello Angelo, che è più grande di due anni, allato a papà.
A lei piaceva sentire papà e mamma quando si parlavano, anche se non capiva quello che dicevano.
Ma ora papà e mamma non si parlano più, anzi nemmeno si guardano, come fanno lei e Angelo quando hanno litigato.
A un certo momento lei s’accorge che mamma sta piangendo in silenzio, anche se tenta di nasconderlo mettendosi il tovagliolo davanti alla faccia.
«Che hai, mamma?».
«Ho la bua».
Poi, senza dire niente, si alza e se ne va nella camera da letto. Dopo un poco anche papà si alza e va a chiudersi nello studio.
Da qualche giorno nello studio è stata messa una brandina perché papà possa dormirci. Mamma ha detto che hanno dovuto fare così perché papà russa troppo e la notte non la fa dormire.
Ora lei sente che Angelo sta ridendo e alza gli occhi a guardarlo. Suo fratello si sta muovendo in punta di piedi verso la cucina. Torna dopo un po’ con una grossissima fetta di torta che tiene con le due mani e comincia a mangiarsela.
«Vattela a prendere pure tu».
No, lei non farà come Angelo. Perché mamma ha detto che la torta serve per domani, quando verranno gli zii, perciò non bisogna toccarla. Lei è una bambina ubbidiente.

Ma com’è che Popeo dorme sempre? Appena mangiato, si mette a dormire. S’addormenta dopo che ha fatto i bisognini. Torna a dormire dopo avere girellato per casa. La mattina, quando mamma lo sveglia, Popeo continua a dormire ai piedi del suo letto. E quando va a coricarsi Popeo è già lì che dorme.
Un giorno lo domanda a mamma.
«Pecché Popeo domme?».
«Perché Pompeo è, come tutti i gatti, un animale che di giorno dorme e invece sta sveglio la notte».
«E che fa?».
«Va a caccia».
«Che cassia?».
«Dovrebbe andare a caccia di topi, ma siccome in casa topi per fortuna non ce ne sono, va a caccia di animaletti».
«Che animaletti?».
«Che ne so, ragnetti...».
I nagnetti no! Lo terrorizzano.
«Cambiamo cafa».
«Perché vuoi cambiare casa?».
«Pecché qua ci fono i nagnetti».
«Ma se ti ho detto che c’è il nostro Pompeo! Stai tranquillo, tesoro, che ci pensa lui».
Non apre più bocca, però ha la certezza che le cose non stanno come dice mamma.
Secondo lui, Popeo dorme anche quando c’è il buio. E i nagnetti, una notte o l’altra, gli saliranno sul letto e gli pinzeranno a sangue il naso fino a portarglielo via mentre Popeo continuerà tranquillamente a dormire.
E poi come fanno i grandi a sapere che Popeo di notte è sveglio se loro dormono tutti?

«Dai un bacio a papà» dice piangendo zia Anna, la sorella di mamma. Sente che anche mamma, nella stanza accanto, sta piangendo, e che zia Francesca, l’altra sorella di mamma, le dice: «Coraggio, coraggio, Michela, sii forte...».
Quanti parenti per casa, venuti tutti a vedere papà che se ne sta dentro a una cassa a dormire in salotto vestito tutto di nero! Ma è un poco buffo, papà, perché ha la cravatta ma si è dimenticato di mettersi le scarpe.
«Dai un bacio a papà» insiste zia Anna spingendolo in avanti per le spalle.
Lui s’avvicina, si alza sulla punta dei piedi, si sporge. La cassa è troppo alta, è poggiata su due trespoli, non ci arriva. Allora zia Anna capisce, lo prende in braccio e l’inclina verso papà. Lui gli posa le labbra sulla fronte.
«Ma papà ha fleddo!» dice mentre viene rimesso a terra. Alla zia scappa una specie di ululato, come fanno i lupi che ha visto in televisione.
Si impaurisce e corre nella camera da pranzo dove c’è zio Carlo, il marito di zia Francesca, seduto a parlare con altri uomini. Lo zio lo prende per un braccio, lo fa sedere sulle sue ginocchia, gli bacia una guancia.
«Volio andale da mamma».
«Senti, non andare da mamma perché ha da fare e non vuole essere disturbata. Ormai sei un ometto e perciò puoi stare coi grandi.» Ma lui non è un ometto e non vuole stare coi grandi.
«Allola vado nella mia cameletta».





Prezzo € 14,00
Pagine 192 
Data di pubblicazione 3 aprile 2024
Editore Sellerio
Collana La memoria n.1301
e-book € 9,99 (formato epub, protezione acs4)


Entra nel catalogo Sellerio uno dei romanzi più sorprendenti del padre del commissario più amato d’Italia, Salvo Montalbano, pubblicato per la prima volta nel 2009. Una sperimentazione che ha saputo appassionare lettori e critica e che ritorna in libreria con una Nota inedita di Nicola Lagioia.


«Andrea Camilleri, in questo romanzo così attuale e luccicante, sembra dirci: attraversate questa porta, seguitemi giù per le scale, lì in fondo, non appena si fa buio, c’è qualcosa che riguarda anche voi».
Nicola Lagioia


Un sabato, con gli amici è tra i romanzi di Andrea Camilleri non scritti in «vigatese» ma in un limpido italiano e ambientati non in Sicilia ma in Italia. Protagonisti sette coetanei: quarantenni, borghesi, lavori sicuri. Anna e Matteo, Rena e Andrea, Giulia e Fabio si conoscono da sempre. Ognuno di loro nasconde segreti - storie dolorose sepolte dal tempo. Un sabato ai sei amici si unisce Gianni, single, che sta per intraprendere la carriera politica. E la sua presenza scardina quell’apparente equilibrio in maniera violenta e definitiva. Thriller e dramma si sovrappongono ed è la vocazione teatrale, quasi pirandelliana, di Camilleri a imporsi.


Un sabato, con gli amici è il romanzo più sorprendente di Camilleri, pubblicato per la prima volta da Mondadori nel 2009. Non è un giallo. Anche se l’ingombro di un cadavere non manca, con gli interrogativi che pone, in margine a un finto quanto torbido tentativo di ricatto. E neppure difetta, il non giallo, di una forte tensione narrativa: subito inaugurata in copertina da quel segnale d’allarme dato dalla virgola del titolo che rende quanto meno ambigua, se non micidiale, la qualifica di amicizia. Il romanzo è spietato. Per esso, Camilleri ha dismesso gli estri umoristici e i colori del vigatese. Il non riscattabile teatro degli orrori gli ha imposto un italiano asciutto: veloce, affilato e freddo; addirittura raggelante. Volutamente imprecisata è l’ubicazione della storia. La città non ha nome. È astratta da ogni referenza. È solo il luogo della composizione, in un variare di interni borghesi (completati da una garçonnière condivisa), di un susseguirsi di dialoghi come in scene di teatro: con scarne didascalie, che rendono agevole il transito al racconto. Sono sei gli amici: tre uomini e tre donne in carriera. Hanno trascorso insieme gli anni di liceo e università. Formano adesso una comitiva esclusiva, rinsaldata da un lussuriare sostenuto dal cinismo e dall’ipocrisia; oltre che da un convulso ricambio di letti, che disegna un puzzle da ricomporre e continuamente aggiornare. La viziosità ha derive di depravazione, profondamente segnata com’è da infanzie violate o da traumi mai seppelliti. Gli amici si danno un appuntamento settimanale. È la rimpatriata del sabato sera. Per una volta, coinvolgono nel rito un compagno da tempo dato per disperso. L’ospite è scomodo, socialmente diverso. È gay dichiarato e comunista. Non ha soldi. Deve arrangiarsi. E soprattutto detiene fotografie pesantemente compromettenti per un componente del sodalizio. Viene trovato morto. Era caduto accidentalmente, sporgendosi ubriaco dal parapetto del terrazzo, si convenne. Il provvido tonfo aveva liberato la trista brigata, chiusa e refrattaria che, indisturbata, poteva continuare a ravvolgersi su sé stessa. Ma chi aveva dato la spinta, se spinta c’era stata?
Salvatore Silvano Nigro


La classe media vista da Camilleri
Il 15 settembre del 1984, dal Teatro Antico di Taormina, durante la sua ultima apparizione pubblica, Eduardo De Filippo tenne un discorso diventato celebre. Non pronunciò parole facili da maneggiare, né da ricevere. Dopo aver parlato del proprio carattere difficile, De Filippo affrontò il tema delle sue abitudini. Disse che il figlio Luca (anche lui attore e regista), nonostante il cognome che portava, aveva fatto la gavetta, era venuto su dal nulla sotto il gelo delle abitudini paterne. Su questa parola, gelo, Eduardo si soffermò in modo stentoreo. «È stata tutta una vita di sacrifici e di gelo! - disse - così si fa il teatro, così ho fatto».
Tra i figli putativi di Eduardo c’era Andrea Camilleri. Nel 1960 Camilleri fu incaricato da Maurizio Ferrara, un funzionario di Rai2, di curare come delegato alla produzione la prima serie televisiva tratta dalle commedie di Eduardo. Camilleri vide Eduardo alle prese con gli attori, gli scenografi, gli addetti del centro di produzione, i piccoli censori della tv di Stato. Il grande drammaturgo e il futuro romanziere strinsero un buon rapporto. «Tutti i registi sono cattivi - ebbe a dire Camilleri - Eduardo probabilmente era esplicitamente cattivo, ma torno a dire che era una cattiveria mirata, per tirare fuori dall’attore i suoi personaggi». Il teatro. La cattiveria. Il gelo. Sono queste le forze che muovono Un sabato, con gli amici, romanzo che Camilleri pubblicò nel 2009, quando il successo lo aveva reso già da tempo lo scrittore più popolare d’Italia e la morte era lontana dieci anni.
A chi ha conosciuto Camilleri attraverso le storie di Montalbano, Un sabato, con gli amici risulterà un libro totalmente imprevisto nella sua oscurità, un romanzo duro, perfino disturbante, un viaggio nelle tenebre della normalità borghese, in Italia, all’inizio del XXI secolo.
Come agiscono su di noi i traumi infantili? Quanto ci si può guastare nel passaggio dalla giovinezza all’età adulta? Questa storia ruota intorno a una delle più equivoche abitudini borghesi: la rimpatriata. Un gruppo di amici si rivede dieci anni dopo la fine dell’università, vent’anni dopo la fine del liceo. Oppure, un amico di cui tutti avevano perso le tracce ricompare dal nulla dopo tempo, fa irruzione nelle vite di chi ha continuato a frequentarsi o non è riuscito a farne a meno. Solo chi ci ha visti durante gli anni della formazione ci conosce davvero, solo con lui o con lei scatta (anche se non lo vogliamo) un’intimità profonda, a volte imbarazzante. Con quali occhi ci si rivede? Che cosa sono diventati il dolore, le speranze, le paure che avevano caratterizzato la nostra giovinezza? Quali virtù sono rimaste intatte? E quali guasti, allora germinali, sono cresciuti a dismisura? Soprattutto: che tipo di segreti legano gli amici di vecchia data? Tra chi si conosce da un pezzo c’è quasi sempre un patto di riservatezza. Quei segreti sono a volte terribili. Il patto diventa allora una bomba inesplosa.
A partire dalla seconda metà del Novecento, sono molte le letterature nazionali (e le cinematografie) che si occupano della questione. Con esiti e poetiche diversi. Negli Stati Uniti, ad esempio, è facile pensare a It di Stephen King o a Pastorale americana di Philip Roth. Un horror e un romanzo sociale, due generi lontani tra loro, accomunati da una medesima vibrazione di fondo: la nostalgia, la tenerezza (al limite un dolente e affettuoso senso del ridicolo) con cui King e Roth guardano i propri personaggi diventati adulti alle prese con gli amici di un tempo. Alcuni sogni sono infranti, d’accordo, ma verso le imperfezioni (e la fragilità) del camminare verso la vecchiaia (nel presagire, per la prima volta, la fine) c’è una quieta compassione. Nei casi estremi, il potere annichilente della tragedia travolge – nobilitandoli – alcuni di questi personaggi.
In Italia, niente di tutto questo. La tragedia ci è preclusa, la commedia non è quella di Billy Wilder. La commedia all’italiana è molto più dura, cattiva, sferzante, irriverente di qualunque genere analogo proveniente da altri Paesi. L’assoluta mancanza di autoindulgenza ci distingue. È una mancanza ammirevole e sospetta. E quale canovaccio segue, di solito, la commedia della rimpatriata all’italiana? Se altrove diventare adulti significa fare (anche dolorosamente) i conti con i propri limiti e fallimenti, in Italia vuol dire constatare la trasformazione dei ragazzi di un tempo in veri e propri mostri, e in un modo così conclamato, sbracato, assordante, ustorio, irredimibile da lasciare attoniti. Basti pensare a Compagni di scuola, film di Carlo Verdone del 1988, tra i meno scanzonati (e tra i più riusciti) del regista romano. In modo analogo, gli ex ragazzi di Un sabato, con gli amici, sono uomini e donne di buona presenza, vivace intelligenza e discreta posizione sociale a cui gli anni hanno infuso una dose di cinismo, malevolenza, perfidia, e uno sfrenato individualismo difficili da trovare in altri contesti. Ricatti, vendette, doppiogiochismi, esche e trappole pronte a scattare, il tutto allestito tra studi professionali ben avviati, uffici di rappresentanza e scannatoi nascosti nei quartieri residenziali: viene in mente il più tagliente dei secoli, il Settecento, e la cattiveria adamantina di Pierre de Laclos.
Ma perché Camilleri allestisce, intorno a questi personaggi, e in modo così chirurgico e spietato, il suo teatro della crudeltà? Tra le diverse, ho rintracciato almeno tre ragioni degne di nota. La prima riguarda il disprezzo, cioè l’opinione che Camilleri doveva essersi fatto del popolo italiano all’inizio del XXI secolo. O, perlomeno, di una sua particolare rappresentanza. Lo scrittore di Porto Empedocle aveva visto il fascismo da ragazzo (il cui disastro, non si stancava di ripetere, gli era sembrato pari solo al ridicolo di cui il regime era riuscito a circondarsi), ma aveva vissuto poi da giovane uomo la nascita della democrazia e del suffragio universale, il protagonismo dei partiti popolari, il riscatto degli umili, la conquista di diritti a lungo negati, il boom economico, la trasformazione di un paese arretrato in una potenza moderna. Aveva riposto speranze nel comunismo italiano, Camilleri, ma aveva creduto in modo ancora più intenso nella possibilità che gli italiani (da sudditi, sottoposti, conquistati, obbligati a saltare nei cerchi infuocati) diventassero un popolo libero, affrancato. Lui stesso (da scrittore, drammaturgo, insegnante, intellettuale, artista, quando l’arte era considerata istituzionalmente una forza emancipativa) aveva fatto la sua parte in questo lungo e appassionato cammino. Solo che poi qualcosa aveva cominciato ad andare storto.
«Ce l’avevamo quasi fatta, a diventare un popolo». È una frase attribuita al Mario Monicelli degli ultimi anni. Non è detto l’abbia davvero pronunciata lui, ma rende l’idea. L’arrivo del nuovo secolo e, ancora più, qualche anno addietro, il passaggio dalla prima alla seconda Repubblica ha segnato (per dirla questa volta con Umberto Eco) l’evidenza di una marcia a passo di gambero. Il tracollo della classe politica con la politica ridotta a farsa e mercato, l’ingiustizia sociale di nuovo galoppante, la crisi economica e l’ancora più evidente smarrimento sociale e civico si sono fatti sempre più evidenti, la volgarità più conclamata, la gente comune di nuovo tentata dal diventare plebe. Questa ennesima mutazione ha trovato presto i suoi nuovi protagonisti, una nuova classe se non di privilegiati (il potere vero è altrove) di galleggianti. Sono i personaggi che mette in scena Camilleri in questo libro. Non sono più le facce in bianco e nero del neorealismo, non gli irresistibili gradassi del boom, non le masse rivoluzionarie, non i grandi notabili o i mafiosi e nemmeno quel certo tipo di borghesia «con il suo intelligente qualunquismo e la sua triste disperazione» elogiata da Marco Pannella. Piuttosto, sono i discendenti ripuliti di quegli «avvocatucci unti di brillantina e i piedi sporchi» di cui scriveva Pier Paolo Pasolini nella Ballata delle madri, i rappresentanti di una nuova classe media, istruiti, aggiornati, disinvolti, ma divorati da una terrificante amoralità che rischia di diventare la modalità emotiva standard del paese. Tutta la simpatia che Camilleri riserva altrove ai suoi commissari, agli ispettori capo, ai centralinisti, ai giornalisti locali, alle donne coraggiose, agli arrangiati e ai rubagalline qui è assente. C’è una grande differenza tra gente comune e uomo medio. La gente comune può ancora farsi popolo, l’uomo medio no. «Sa cos’è un uomo medio?» (questo è sempre Pasolini, attraverso la bocca e il corpo di Orson Welles ne La ricotta), «è un mostro, un pericoloso delinquente, conformista, colonialista, razzista, schiavista, qualunquista».
Nicola Lagioia
(Il brano sopra riportato è stato pubblicato su La Stampa del 3 aprile 2024)



Last modified Thursday, April, 04, 2024