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Il terrore della violenza suggerita

 

Mi è capitato di vedere recentemente due pregevoli film, di molto interesse non solo per l'importanza e l'attualità dei temi trattati, ma anche per il diverso modo con il quale questi temi venivano dai rispettivi registi affrontati e a noi raccontati. Il primo è The Lady di Luc Besson, una biografia di Aung San Suu Kyi, Premio Nobel per la pace 1991, la strenue, indomita combattente per la libertà del suo Paese, la Birmania, che è stata dopo anni e anni, oltre venti, di persecuzione e segregazione da parte dei militari al potere, finalmente liberata ed eletta al Parlamento.
Il secondo, diretto da Daniele Vicari, si intitola Diaz ed è imperniato sui tristemente noti fatti accaduti, durante il G8 di Genova, alla scuola omonima dove un gruppo di manifestanti si era riunito per passare la notte. Circa trecento poliziotti vi fecero un'irruzione tanto violenta quanto immotivata abbandonandosi a una sorta di "macelleria messicana", per usare l'espressione di un funzionario di polizia che era presente. Infatti l'irruzione provocò tra i civili 87 feriti, i fermati furono quasi un centinaio. Questi ultimi, portati alla caserma Bolzaneto, vennero poi sottoposti a dure violenze fisiche e psicologiche. Non essendo un critico cinematografico, ma un semplice spettatore, non dirò delle qualità di questi film più di quanto abbia già scritto all'inizio. Aggiungerò solo che tra la congerie di pellicole sciocche, vacue, quando non addirittura irritanti, che affollano i nostri cinema, queste sono due eccezioni utili e necessarie per la manutenzione quotidiana, in tutti noi, dell'idea di democrazia, di cosa significhi il non rispetto dei diritti civili e a quali conseguenze possa portare. Mi offrono anche l'occasione di potermi soffermare a ragionare sui due diversi modi cinematografici coi quali Besson e Vicari hanno rappresentato la violenza fisica alla quale talvolta il Potere, o chi lo rappresenta, fa ricorso. Fatta salva la diversità iniziale e sostanziale che in Birmania la violenza era, ed è, un sistema, mentre nel caso della Diaz e della caserma Bolzaneto si è trattato di un'aberrazione, certo volontaria e voluta, certo preparata, certo spietata, certo disumana, ma pur sempre un'aberrazione. E ne fa fede il fatto che 27 tra i poliziotti che parteciparono all'assalto della Diaz sono stati condannati, mentre i generali birmani, persecutori e mandanti di assassinii, rimangono ancora al loro posto. Besson, incentrando quasi tutto il suo racconto sulle terribili vicissitudini di Suu Kyi, interpretata da un'attrice di straordinaria potenza espressiva, sposta in un certo senso il campo della violenza da quello fisico a quello psicologico: l'assassinio del padre di Suu Kyi e dei suoi collaboratori ci viene mostrato in modo quasi asettico, direi impersonale, così come il primo impatto della protagonista con la brutalità della polizia birmana, durante una visita alla madre ricoverata all'ospedale, viene dato, a noi spettatori, in modo indiretto, attraverso una sua soggettiva. La rappresentazione della violenza fisica si viene così a vedere riflessa negli occhi della protagonista.
Totalmente differente è il modo di raccontare la violenza di Vicari. Qui tutto è diretto, immediato, con la sottesa volontà d'arrivare a una secchezza documentaristica e, nello stesso tempo, di far sì che lo spettatore ne sia coinvolto al punto tale da sentirsi anche lui preda inerme di quella ferocia. Le immagini dell'irruzione sono, credo volutamente, di non immediata decifrabilità, solo un confuso agitarsi d'ombre in un sottofondo di urla e di lamenti. E hanno suscitano in me uno smarrimento assai più profondo di quando, poco dopo, si vede una ragazza mostrare il viso sfregiato e insanguinato. E uno smarrimento maggiore ho provato quando nel buio si sente un poliziotto urlare ai suoi compagni un crescendo di «basta, basta, basta!».
Forse l'orrore di una violenza in atto non è possibile farlo rivivere in chi non l'ha mai patito. Lo si può tutt'al più suggerire, raccontare, lasciar immaginare. Lo sapevano bene i grandi tragediografi greci che non fecero mai accadere in scena un fatto cruento. Mostravano i corpi degli uccisi coperti da un panno rosso a simulare il sangue e un attore raccontava com'era andata.

Andrea Camilleri

(pubblicato su Il Sole 24 Ore del 29.4.2012)

 



Last modified Saturday, June, 16, 2012