Letteratura e storia. Il caso Camilleri
Non ho nulla di scritto, il che rappresenta un rischio enorme per gli ascoltatori, perché l’età mi porta a divagazioni a coda di porco spaventose dalle quali mi è difficilissimo uscire una volta che ci sono entrato dentro. Mi scuserete. Queste due giornate di studio hanno avuto un tema sbagliatissimo, perché dovevano essere non "su" ma "di" Camilleri: mi sono dovuto infatti sottoporre allo studio di me stesso attraverso le parole degli altri, la qualcosa è una fatica del diavolo, perché oltretutto non non ho avuto neppure la soddisfazione di dire "questo lo sapevo già", essendoci stata sempre qualcosina di nuovo in ogni relazione. Più che un caso, il mio è un fungo: "il fungo Camilleri" potrebbe essere un altro bel titolo per un convegno, giacché sono venuto fuori negli ultimi tre anni all’improvviso. Ma, amici miei, è dal ’48 che stampo e pubblico. Nel ’48 un signore che si chiama Giuseppe Ungaretti decide di pigliare tre poesie mie e di pubblicarle in un’antologia della prestigiosissima collana "Lo Specchio" di Mondadori. Mando racconti a "L’Ora" di Palermo e me li vedo pubblicati senza che mi conoscano neppure, oppure me li pubblica "L’Italia socialista" di Aldo Garosci di Roma in terza pagina. Io mando messaggi in bottiglia da Porto Empedocle, provincia di Agrigento, e questi messaggi da qualche parte arrivano. E prima ancora del ’48 c’è il Premio Libera Stampa di Lugano con una giuria che ha Gianfranco Contini, Carlo Bo. Giansiro Ferrata. E’ il ’47: 370 giovani autori mandano da tutt’Italia le loro produzioni e ne vengono scelti dodici. Ci sono anch’io. Mai vista una giuria così profetica: premia tutti i nomi della letteratura a venire. Non sbaglia un colpo: Pier Paolo Pasolini, che ha un anno più di me, Andrea Zanzotto, uno che diventerà prete, Davide Maria Turoldo. L’unico "traditore" sono io che arrivo quarant’anni dopo, ma tutti gli altri si sistemano subito dopo. Il mio è stato perciò un lungo cammino, che solo formalmente è stato interrotto dal teatro. Formalmente, perché il teatro è stato per me una grandissima scuola di scrittura. E’ stato detto in questo convegno che spesso e volentieri i personaggi li faccio parlare prima ancora di descriverli. E in realtà io dico questo al mio personaggio: "Vieni avanti, parla: ti fabbrico secondo come mi hai parlato, secondo le cadenze e il tono, le inflessioni e la voce". Dopodiché, se ne ho voglia, gli do un aspetto fisico, ma in genere preferisco lasciare libero il lettore di farsi da sé un’immagine. Io gli metto a disposizione i dati.
Dicevo della scuola di scrittura che è stato il teatro: ricordo che gli allievi dell’Accademia dove insegnavo regia mi dicevano sempre: "Ma quante volte ce l’ha raccontate queste storie, professore!". Perché, io le storie che ho scritto le ho sempre raccontate, me le lavoravo di classe in classe. Ho tenuto saldo un filo che non si è mai rotto e che è arrivato a queste due giornate, che sono state fondamentali per me, benché siano arrivate tardi, come tutto nella mia vita – senza nessun rimpianto. Giornate importanti perché, vedete, un uomo che va avanti negli anni diventa sempre più solitario: gli amici vengono richiamati ad altro servizio e va a finire che quelle tre, quattro persone, Dante Troisi, Ruggero Jacobbi, Niccolò Gallo, alle quali con piena fiducia potevo rivolgermi e chiedere "che ne pensi di ’sta cosa?" – trovandole magari teneramente feroci nei miei riguardi – non ce l’ho più. Posso avere solo la lucida distanza che mia moglie riesce a cogliere quando scrivo e di cui non finirò mai di esserle grato. Ma da quando ho cominciato a pubblicare mi pare di sprofondare sempre più in un abisso senza fondo: tendo l’orecchio per sentire il tonfo e non lo sento. Ecco che allora arrivano queste due giornate e il tonfo finalmente lo sento. Lanza Tomasi ha detto una cosa bellissima: che è difficile parlare con l’autore seduto in prima fila che ti sta a guardare. E’ come parlare davanti alla salma. Oggi, dopo un esame autoptico di tale intensità, orrore, la salma parla. E vorrebbe dire alcune cose.
Ho già rilevato che non c’è stata una sola relazione inutile. Dove e quando io potrò utilizzare le cose utili che ne ho ricavato non lo so. L’essenziale è che ci siano state. E la prima questione di cui vorrei parlare è il debito grosso con Manzoni. Dopo che una scuola voleva adottare il mio Birraio di Preston in sostituzione dei Promessi sposi, gli ho scritto una lettera su La Stampa per dirgli che me ne sono innamorato a 32 anni leggendolo per i fatti miei tre o quattro volte. E’ quindi naturale che io faccia delle citazioni non accorgendomene e chiami un personaggio col nome di Minzoni. C’è stato il traduttore tedesco che ha detto di essersi servito del Simplicissimus per tradurmi. Io Il Simplicissimus l’ho letto a dodici anni! Era un libro pubblicato da Salani e stava nella biblioteca di mio padre. E lo stesso Le feu di Barbusse, che è stato citato dalla traduttrice francese come libro di paragone, è stato per me un altro romanzo formativo. In questi due giorni ho dunque scoperto che i miei fili si riannodano oggi.
Un’altra questione da discutere è l’uso del dialetto. Nel teatro ho sempre tenuto presente Shakespeare che dice: "Il mio uomo è attore e tutto il mondo è teatro". E’ una frase da me messa in scena interamente nella creazione della mia scrittura. E’ stato bene osservato che il punto di partenza per me è la parlata piccolo-borghese: e in realtà quando torno a Porto Empedocle è in questo modo che parlo con i miei amici superstiti, un misto di siciliano e italiano che appartiene al parlato contadino. Da bambino sono stato un attento ascoltatore di Minicu, un narratore di cose straordinarie, che è molto presente dietro il mio Re di Girgenti, un vero contadino che insegnava la virtù della pelle del serpente per "stagnare u sangu" contro i tagli della falce o come cercare una certa erba medicamentosa.
Ai miei allievi chiedevo sempre quale fosse la bibliografia della loro regia, cioè che letture avessero fatto, che spettacoli avessero visto. Perché quando metti in scena la riduzione pirandelliana in dialetto del Ciclopu di Euripide devi fare i conti con molteplici piani linguistici, fra cui la versione catanese del testo, perché destinato agli attori della compagnia di Musco. Il ciclope è un contadino e Pirandello lo fa esprimere in stretto vernacolo. Poi arriva Ulisse, che ha fatto il militare a Cuneo e vuole parlare in italiano e dice: "Per favuri, vulissivu ’nsignaricci quarchi deflussu d’acqua pi smorzarinni la siti chi nn’avvampa" Nel Birraio di Preston la signora che ha avuto il marito marinaio e si esprime con le stesse parole mi viene tutta da Pirandello. Da lui ho imparato a lavorare su più piani linguistici. Un’altra cosa. Nel Re di Girgenti non è stata la singolarità del fatto ad attrarmi, perché sapevo che non era singolare. E’ stata nella civiltà degli irochesi che ho trovato le tre righe che riguardano Zosimo. E’ così. Gli irochesi, ovvero i contadini siciliani, l’occupazione delle terre nel dopoguerra, la loro generosa storia. E ho scritto il romanzo perché mi permetteva di scrivere di un sogno che mi auguro che continui.
Un’ultima cosa che voglio dire riguarda l’impegno politico nella mia scrittura. Ho ricevuto la lettera di uno che diceva di avere raccolto voci negative e di aver letto tutti i miei libri: "Non riesco a capire perché lei venga indicato come un uomo di sinistra" mi ha scritto. Ma come aveva letto i miei libri? Cosa aveva letto?
Tratto da Stilos del 19.03.2002 |
Last modified
Wednesday, July, 13, 2011
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