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Letteratura e storia. Il caso Camilleri



Il dialetto nelle traduzioni di Andrea Camilleri



Caro Andrea,
Gentile Professor Buttita,
Gentili Signore e Signori,


vorrei riprendere la Sua divertente battuta, Professor Buttita, di poco fa secondo la quale i siciliani e i tedeschi accomuna un vizio, cioè il fatto di ritenersi entrambi una razza superiore. Nel mio caso le cose si complicano addirittura di almeno un grado se non di più, perché da un lato sono qui come il traduttore tedesco dei romanzi storici di Andrea Camilleri; dall’altro lato, con le mie origini che mi trascino appresso, non solo sono appartenente a una razza superiore, ma addirittura a una razza eletta! –

Anticipo subito che ovviamente non parlo qui delle traduzioni delle opere di Andrea Camilleri in senso comparatistico, ma esclusivamente delle mie traduzioni in lingua tedesca. E facendo questo, dovete immaginarvi che sia come se vi aprissi la porta del mio studio per farvi rischiare un’occhiata a quel che faccio. Quindi posso spiegarvi solo il mio approccio che non si può certo vantare di essere l’unico e tanto meno l’unico valido.

Comunque, vorrei subito mettere avanti una considerazione fondamentale che vale genericamente per tutte le traduzioni che hanno a che fare con uno o più dialetti nell’opera di un autore. Questa considerazione fondamentale si assume in una breve tesi: dialetti non vengono tradotti – vengono invece trattati! E con questo si apre un campo molto vasto in cui entriamo.

Vi ponete probabilmente la domanda: ma come? Allora cosa rimane dell’autore e della sua regione se il dialetto non viene tradotto? Non perde il sapore la sua opera?

Sostengo che non perde affatto il suo sapore se il colorito dialettale non viene trasferito in un’altra lingua... ma cambia di sapore, cioè il cambiamento avviene nel momento del suo adattamento alle particolarità, alle idiosincrasie dell’altra lingua che sono particolarità lessicali e semantiche, particolarità di ritmi sintattici, particolarità di ambiente, particolarità grammaticali. Alcuni di questi aspetti vorrei esporre a voi nel corso della mia considerazione, se avete la gentilezza di volermi seguire.

Il problema del dialetto per me si è posto in varie occasioni. In Germania vengo considerato un traduttore specialista per i romanzi italiani intraducibili. Ora questo gentile giudizio da parte della critica e di alcuni editori e lettori di case editrici si riferisce a due romanzi nei quali il dialetto svolge un ruolo eminente. L’uno è un romanzo di Luigi Malerba dal titolo ”Il pataffio”, pubblicato in Italia nel 1978, uscito in traduzione tedesca soltanto 10 anni dopo, proprio a causa della difficoltà del dialetto che Malerba adopera. Più precisamente si tratta di un dialetto ambientato nella valle dell’alto Tevere, quindi umbro, dell’epoca alto medievale, un dialetto tuttavvia fortemente reinventato dall’autore. Questo dialetto ”artificiale” si scinde poi in due strati sociali, cioè il linguaggio del così chiamato popolino e quello della rovinata società del castello, anch’esso in rovina. In più c’è in questo libro anche una specie di latino che possiamo chiamare un latino maccheronico. Il tutto, inclusa la trama del romanzo, estremamente buffo.

La questione era: cosa fare davanti a una tessitura linguistica del genere? Il mio editore, Klaus Wagenbach, per il quale porto grande stima e amicizia, mi aveva dato una indicazione. Mi diceva che vedeva per la versione tedesca di questo romanzo un linguaggio che si dovrebbe rifare al tedesco dell’epoca barocca. Questa idea mi piaceva molto. E siccome riesco con grande facilità di fare della lingua tedesca delle varie epoche un gran gioco, mi sono avvalso della memoria delle mie letture di scritti di Martino Luthero e di Grimmelshausen col suo ”Simplicius Simplicissimus” e di altri autori dell’epoca tra il rinascimento e il barocco, reinventando e sviluppando poi un linguaggio che si addattava idealmente al linguaggio del romanzo di Luigi Malerba. Certo non dialettale, ma di epoca e tutto reinventato.

Invece ho dovuto faticare molto con il latino maccheronico. Perché diversamente da quanto si possa pensare, la corruzione del latino nel romanzo di Malerba non si poteva trasferire tale quale secondo la formula: qui corruzione, allora anche là corruzione. Il gioco, l’ésprit sarebbe stato incomprensibile per un tedesco di una certa cultura umanistica e per un lettore medio colto. E lui si sarebbe probabilmente più incavolato che divertito. Quindi mi sono dovuto inventare un latino ”patatesco”, e credo di esserci riuscito bene, perché il mio vecchio professore di latino e greco mi aveva poi mandato una lettera molto sorridente in cui si compiaceva con me per le mie ”trovate”.

L’altro romanzo era Ragazzi di vita di Pier Paolo Pasolini. Vi ricordate, forse, che questo romanzo fu pubblicato in Italia nel 1955 e suscitava all’epoca molto scandalo da tutte le parti. Bene, questo romanzo ha dovuto aspettare ben 35 anni prima della sua traduzione in tedesco, sia perché mancavano traduttori familiari con il dialetto romanesco, sia perché i traduttori dell’epoca erano ancora molto legati a un linguaggio colto letterario di tempi precedenti. Quindi la volgarità del dialetto romanesco nel romanzo di Pasolini avrebbe anche potuto trovare un, diciamo, abbellimento non giustificabile.

Il problema che mi si poneva era: quale linguaggio scegliere in tedesco. Certo, per le parti italiane non c’era alcun problema. Ma cosa fare con il romanesco? E come fare apparire al lettore tedesco che qui parlano i ragazzi e anche gli adulti delle borgate di Roma che certo non parlavano la lingua colta.

La tentazione era grande, all’inizio, di dare un colorito berlinese che sembrava il colorito più idoneo a quello delle borgate romane, perché sia di spirito che di grossolanità i due dialetti corrispondono l’uno con l’altro idealmente – almeno per un traduttore.

Ma già dopo i primi tentativi, mi sono reso conto che questo trasferimento non funzionava affatto. Perché? Perché un romanzo italiano, anche in lingua straniera, deve mantenere la sua italianità. Voglio spiegarmi meglio con un esempio: se Riccetto, il protagonista del romanzo, dialoga con un colorito berlinese, e aggiunge anche in traduzione tedesco/berlinese magari, per mantenere la sua italianità, un ”Signora”, capite che la cosa diventa altemente ridicola.

Quindi, cosa era da fare? Ho provato in varie altre direzioni, per arrivare poi alla conclusione che c’era soltanto una soluzione che non aveva neanche l’ombra del ridicolo o addiritura banale e cioè: di sviluppare un gergo in tedesco che non sia localizzabile geograficamente e che sia comprensibile a tutti, dall’ultima isola della Frisenia nel Mare del Nord fino all’ultimo villagio delle Alpi bavaresi. Un gergo che così non esiste, ma che non è neanche pura invenzione, un gergo creato da tutte le possibilità che la lingua tedesca con le sue varie risorse locali offre.

Così, preparato da queste due esperienze, mi sono buttato anni dopo nella traduzione del mio primo romanzo di Andrea Camilleri, cioè La concessione del telefono. Come sapete, in questo romanzo abbiamo da fare con due linguaggi, con un italiano estremamente formale, quello che chiamo l’italiano alto di cancelleria della fine dell’800 nelle parti di ”Cose scritte”, e il puro siciliano con coloriture dell’agrigentino.

Per quel che riguarda lo stile alto di cancelleria vorrei ricordarvi che tanto non è limitato all’800, ma che ci persegue ancor’ oggi... basta leggere testi di leggi odierni oppure delle communcazioni da parte della Telecom, delle vostre banche, della previdenza sociale ecc. E basta d’avere sempre un Devoto-Oli in casa che ci si mette accanto a queste lettere per poter deciffrare il senso e il contenuto del messaggio.

Come ho risolto questo problema? Per l’italiano formale, in traduzione tedesca, mi sono avvalso di una cartella contenente parte di una corrispondenza superstita del mio nonno materno che era più vecchio, all’epoca, dei personaggi del romanzo di Andrea Camilleri, perché avevo un nonno molto vecchio, infatti non l’ho mai conosciuto; una corrispondenza in parte d’affari, in parte privata. Ho letto e letto, e poco a poco ho assimilato questo strano stile fortemente caratterizzato da grevi strutture nominali e da infiniti periodi di frasi quasi proustiane. Quindi era un ottimo appoggio per le parti delle ”cose scritte” del romanzo.

Per le parti delle ”cose dette” ho adoperato un tedesco moderno, molto parlato, veloce, strascicando in alcuni rari casi delle sillabe, per caratterizzare magari un personaggio proveniente da una strato sociale piuttosto basso. Però dovevo stare attento a non inserire parole che all’epoca non esistevano ancora. E non ho esitato neanche di inserire qua e là, raramente, una parola che magari oggi non è più in uso e che, semmai, ci sbalordisce.

Diverso e più difficile si poneva il problema del mio secondo romanzo di Andrea Camilleri, cioè La mossa del cavallo. In questo romanzo abbiamo a che fare con tre lingue o linguaggi: con l’italiano, col siciliano/agrigentino e col genovese/ligure.

Quando si tratta di due lingue diverse, il traduttore se la cava ancora, in qualche maniera. Con tre lingue il problema diventa un vero problema, e secondo la mia esperienza bisogna fare una chiara scelta. Per La mossa del Cavallo mi sono, dunque, deciso di trattare il genovese come l’italiano e di lasciare il siciliano tale quale anche nella versione tedesca. Perché questo?

Camilleri racconta che il protagonista del romanzo è di origine siciliana, ma ancora da molto piccolo i suoi genitori, in cerca di una sorte migliore, lo portarono con se a Genova dove era cresciuto, quindi aveva imparato a parlare, a ragionare e perfino a sognare in genovese. Poi arriva in Sicilia, da adulto, a Montelusa e Vigatà, e viene confrontato per la prima volta con la lingua siciliana che lui non capisce nonostante che è di origine siciliana. Per lui è una lingua straniera, all’inizio, e lui si deve reimpadronire di questa lingua se vuole portare il suo lavoro per il quale era stato inviato in Sicilia, a termine con successo.

C’è un unico momento nel romanzo in cui potevo fare capire al lettore tedesco che il romanzo non si limita solamente a raccontare in italiano l’impronta genovese del suo protagonista, ma che esso si trova oramai in un vero e proprio conflitto esistenziale tra il suo essere genovese e la sua nuovamente assimilata esistenza siciliana. Quel momento è la cavalcata notturna quando il protagonista ritorna a casa. Vede la luna splendere sui campi, sente dei cani abbaiare in lontananza, avverte in se una grande felicità e contentezza. E tutto questo vede e sente e avverte in genovese.

Allora ho deciso di spezzettare questi periodi in brevi unità, inserendo nella versione tedesca questi brevi periodi in genovese facendoli subito seguire dalla traduzione tedesca per continuare poi con il successivo periodo. Così anche il lettore tedesco si poteva rendere conto di quello che stava accadendo in quel personaggio, cioè una lotta tra due culture, una lotta tra la perdita di una cultura familiare e la non ancora del tutto avvenuta assimilazione della nuova cultura d’origine.

Il siciliano potevo lasciare all’inizio tale quale perché era lingua straniera per il protagonista, quindi anche lingua straniera per il lettore tedesco. Il problema non era grave perché il ragazzo siciliano che chiama il protagonista steso al sole sulla spiaggia e dice ”Acchianasse!” sbalordisce tanto il protagonista che non capisce quanto il lettore tedesco che non capisce. Ma poi il ragazzo si spiega con gesti, e il protagonista come il lettore tedesco capiscono cosa vuole dire ”Acchianasse!”

Così ci avviciniamo finalmente all’ultimo romanzo di Andrea Camilleri, Il re di Girgenti. Devo dirvi che non l’ho ancora tradotto, e a causa di altri impegni attuali, non ho nemmeno iniziato la traduzione. Eppure sento, quando penso cosa mi aspetta, un leggero malessere. Poiché ho letto il romanzo, anzi l’ho letto due volte, e sono ancora in fase di preparazione, per superare, da un lato, la mia perplessità da traduttore e per affrontare, dall’altro lato, questa impresa. E di impresa si tratta, anzi di impresa impervia e irta, temo.

Vi dico la vera difficoltà e il massimo scopo di un traduttore consistono nel dare a ogni libro che traduce un colore e un suono inconfondibile. A volte mi ci vogliono 60 o 70 pagine tradotte prima di essere intimamente convinto di avere trovato finalmente il colore giusto e il suono giusto. Questi non esistono fin dall’inizio del lavoro, questi si sviluppano man mano e con mille ispirazioni di più vario genere.

Il problema del Re di Girgenti che vedo in questo momento sono i vari linguaggi. Abbiamo da fare precisamente con quattro strati ben distinti: con un siciliano antico reinventato; con l’italiano; con lo spagnolo corrotto; e con il latino corrotto.

Per quel che riguarda il siciliano antico reinventato, penso di potermela cavare fiduciosamente, perché in questo periodo sto rileggendo un autore romanziere della fine del ‘700 e l’inizio dell’800 che all’epoca era molto molto famoso e tenuto in grande stima dai nostri grandi autori e personaggi dell’epoca. Parlo di Jean Paul, un romanziere di grande successo – e in qualche maniera si potrebbe dire che era il Andrea Camilleri tedesco dell’epoca. Oggi è meno conosciuto, ma devo dire che mi diverte molto la rilettura dei suoi romanzi, appunto per ispirarmi a una certa linea linguistica per la mia traduzione.

Credo che potrò anche adattare l’italiano a questo stile.

Ma quando penso alle parti spagnole e quelle latine mi cresce dentro una invidia quasi urlante per i miei colleghi traduttori inglese e francese, perché loro hanno molto più facilità di giocare sia con la sitassi che con la grammatica soprattutto dei verbi, perché non sono mai troppo lontani dall’italiano. Io invece devo obbedire ad altri ritmi dovuti alla costruzione sintattica così diversa in tedesco. E non posso affatto giocare con la stessa leggerezza dei miei colleghi sui gerundi, perché non abbiamo dei gerundi nella lingua tedesca, ma soltanto participi del presente che non sono la stessa cosa. Per tradurre un semplice gerundio italiano mi devo grattare il capo per lungo tempo, perché ho la scelta tra almeno 8 o 9 modi di come rendere quel maledetto gerundio, e devo decidere infine quale di queste molte possibilità sia più idonea al testo originale e al testo in tedesco. Potrei tenere una conferenza sul solo gerundio in traduzione tedesca. Ma mi pare que questo non sia molto eccitante, quindi lasciamo stare questo problema nel mio studio.

Alla fine vi voglio ancora parlare brevemente di un problema che mi tortura in grande stile appena quello si presenta, cioè il linguaggio erotico di cui abbonda anche la scrittura di Camilleri.

Ah, Andrea, se sapessi davanti a quale abbisso mi stai mettendo!

Perché tu non ti rendi conto del fatto che la lingua tedesca ha un linguaggio erotico molto ristretto e quel poco è ambientato per la maggior parte, se lo vogliamo localizzare anatomicamente per la sua provenienza, nella zona del deretano, mentre la lingua italiana - come tutte le lingue romanze - gioca liberamente, gioisamente e impudicamente con le parti sessuali.

Allora cosa fare e come fare? Vi devo dire che questi problemi si siano posti già una volta con il citato romanzo di Luigi Malerba. Ma sembra che i grattacapi non finiscono mai. Quando mi vedo di fronte alle cose apparentemente più semplici, potrei urlare per la disperazione. Perché i problemi sembrano del tutto nuovi. Non sono mai risolti una volta per sempre, come si potrebbe pensare. Succede sempre così: le cose più semplici in una lingua, sono in verità le cose più difficili in un’altra lingua, e non solo nel campo del linguaggio erotico. Quindi mi ci metto a riflettere, a meditare, a considerare, a ponderare, a volte con l’aiuto del fantastico psicologo e sessuologo Ernest Bornemann e del suo libro ”Sex im Volksmund”, ”Il Sesso nel linguaggio popolare”, che mi porta subito a certi limiti soprattutto di natura, diciamo, estetica. Questo significa che in fondo rimango solo a riflettere e a provare che cosa possa meglio corrispondere a certe frasi o espressioni erotiche. Perché una cosa è di fondamentale importanza: mai una espressione o addirittura una frase erotica deve avere il sapore del tradotto, deve invece apparire del tutto naturale, come tutta la traduzione, come se il traduttore l’avesse trovata in altri strati del linguaggio quotidiano non più conosciuti. In fondo è sempre una nuova operazione, i risultati trovati una volta, in una determinata circostanza per un determinato libro, non sono necessariamente repetibili o trasferibili a un altro libro. Vi posso assicurare questo: ho impiegato infinitamente tanto tempo per questo trapianto del deretano erotico-linguistico del tedesco verso le parti sessuali anteriori del linguaggio italiano... e credo di potere affermare che io, con la mia operazione, sia riuscito ad arricchire il tedesco erotico considerevolmente.

Vi ringrazio tutti di cuore di aver voluto assistere e a ascoltare questa conferenza

Moshe Kahn, Altwiller, Francia (traduttore tedesco)





Last modified Wednesday, July, 13, 2011