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Letteratura e storia. Il caso Camilleri



Quale francese per tradurre l’italiano di Camilleri ? Una proposta non pacifica.



Prima vorrei ringraziare gli organizzatori del convegno per questo invito e ringraziare anche Andrea Camilleri per la gioia di lettori che ci dà.

Un problema di fondo della traduzione dall’italiano al francese è quello della differenza di elasticità rispettiva delle due lingue. Calvino definiva l’italiano «lingua di gomma con la quale pare di poter fare tutto quel che si vuole» (1). E ne veniva questa drastica affermazione
«Una buona traduzione [in italiano] di un libro straniero può conservare un qualche saporino dell’originale; un libro di scrittore italiano tradotto il meglio possibile in qualsiasi altra lingua conserva del suo sapore originale una parte molto minore, o nulla del tutto» (2). Non lasciamoci impressionare dall’insigne scrittore: tanto  “il faut bien traduire”, cioè bisogna pur tradurre, che tuttavia suona anche col doppio significato di “bisogna tradurre bene”: non c’è via di scampo!

Però tradurre Camilleri in francese significa combinare due eccessi: una lingua di partenza, l’“italiano” tra virgolette geneticamente modificato di Camilleri, particolarmente inventiva e una lingua d’arrivo, il francese, particolarmente poco duttile.

Di necessità, tradurre Camilleri porta il traduttore in francese a confrontarsi con i limiti di elasticità della sua lingua, per respingerli, far spazio, allargare l’orizzonte pur rispettando il genio della lingua per evitare l’arbitrario, l’invenzione, che portano con sé il rischio di sfociare in un angusto e narcisistico idioletto. Per quanto mi riguarda, almeno fino a ora per i libri di Camilleri che ho tradotto, non ho ceduto a questa tentazione (3).

Vediamo quali sono, in francese, gli ostacoli maggiori all’elasticità linguistica:  lo scrupolo accademico e il centralismo linguistico, entrambi potentemente sorretti dagli ideali di matrice illuministica di chiarezza, universalità e uguaglianza.
Lo scrupolo accademico consiste in una fortissima esigenza di rispetto della norma, sintattica (le famigerate “fautes de français”), ortografica (il nostro è Paese dove è possibile fare appassionare la gente con gare nazionali di dettato…), lessicale (basti pensare all’obbrobrio che suscitano i neologismi). In altre parole, il codice linguistico francese è ferreamente strutturato e le devianze mai pacifiche. Ulteriore elemento di vigilanza è reperibile nel fatto che il non usare un francese corretto fu a lungo - e temo purtroppo lo sia ancora - un alimento alla mai sopita xenofobia francese, versione sciovinista che sia: non si dimentichi che nel francese, lingua di colonizzatori, esiste il modo di dire parler petit nègre per una persona che non sia in grado di maneggiare correttamente sintassi coniugazioni e fonemi (4). Cioè anche per quanto riguarda la lingua orale, sembra ci sia un forte autocontrollo francese tendente a riferirsi ancora e sempre al modello scritto. Almeno lo afferma uno che di queste cose se ne intendeva perché ci ha giocato su molto della propria scrittura, cioè Raymond Queneau, in un articolo del 1970 chiamato Curieuse évolution de la langue français, dove nota la non avvenuta (anche se da lui stesso pronosticata e letterariamente sfruttata) scissione tra francese parlato e francese scritto che poteva venire fuori dall’«abisso esistente tra ortografia e pronuncia» (5), abisso che in italiano non c‘è.
L’importanza psicologica del padroneggaire la lingua, l’autocontrollo, si estende quindi anche alla lingua orale. Questo un dato da non dimenticare quando si cercherà di tradurre gli scarti linguistici di Camilleri  rispetto alla norma dell’italiano nazionale, i quali sono di natura dialettale e non grammaticale o ortografica, tranne eccezione (6).

Prova a contrario dell’imperante rispetto del codice in francese è la ricchezza anche letteraria dell’argot al quale ricorsero e ricorrono autori in rottura di consenso accademico come Céline, e numerosi  autori di gialli. L’argot ha due caratteristiche: 1) è linguaggio di trasgressione sociale, di rivolta 2) è lingua solo adulta, non viene acquisito per via di trasmissione familiare, nell’infanzia, non ha cullato nessun bambino né raccontato fiabe o cantato ninne nanne.

Arriviamo alla seconda causa di poca elasticità del francese, cioè il centralismo linguistico che è uno dei tanti aspetti del centralismo tout court (con la sua grandeur e la sua miseria). In questo contesto, Parigi è norma, vanto e metro dell’identità nazionale. Di conseguenza le parlate delle province (come cadenza, come lessico) sono irrimediabilmente bollate di rozzezza, di goffaggine, di ridicola e squalificante faute de goût. Le parlate regionali presenti sul territorio furono oggetto di cancellazione, e di rimozione. Ricordo per tutte il “Divieto di sputare per terra e di parlare bretone”, scritta che veniva appesa nelle scuole elementari di Bretagna.

Non credo di sbagliare dicendo che per i francesi almeno fino a una data recente (perché forse le cose stanno cambiando con la legislazione sull’insegnamento delle lingue regionali), il patrimonio linguistico regionale era in gran parte inconscio. Eppure sicuramente presente almeno nel mondo rurale, vale a dire, fino al secondo dopoguerra, la stragrande parte del Paese. C’è una scrittrice francese che evoca bene l’arcana ma vivificante presenza di questa «altra lingua» assorbita durante l’infanzia e di cui prese coscienza solo a posteriori (nel suo caso si tratta dell’area del Trièves, di lingua occitana). Si chiama Annie Salager e così scrive in Le pré des langues (Il prato delle lingue): «Sono stata immersa nelle parole dialettali («de la langue vernaculaire») sin dall’infanzia, poi le ho dimenticate, parzialmente riconosciute che galleggiavano nella mia cadenza (…) Capita più spesso di quanto si creda che il lavoro della scrittura sia anche la ricerca di un’altra lingua sotto quella che la esprime. La si cerca senza saperlo, si nutre la propria lingua con una lieve distanza dall’altra mai cancellata, che lascia in allarme il desiderio di dire, votato a una insoddisfazione inesauribile eppure gaudiosa (…) Una lingua, anzi due intrecciate, si ingegnavano a trovare il proprio spazio comune, una specie di canto dei limiti che mi tratteneva, prigioniera e libera.» (7).
Questa evocazione, delle due lingue intrecciate nell’intimità creatrice dello scrittore, mi sembra potersi applicare quasi tale quale a Andrea Camilleri. Nel contesto linguistico italiano, è osservazione pacifica per non dire scontata, in quello francese, no. Mi è quindi apparsa come una pista stimolante e pertinente da seguire pure per la traduzione.  E  decisi di imboccarla per La stagione della caccia e Un filo di fumo, dopo approcci pensati diversamente nelle mie prime due traduzioni di Camilleri, quelle de La concessione del telefono e de Il gioco della mosca di cui dirò rapidamente per chiarire l’evoluzione del mio approccio all’opera di Camilleri. E colgo l’occasione per ribadire quanto le scelte di traduzione vengano pensate per ogni singolo libro e quanto non si tratti qui minimamente di fissare delle istruzioni per l’uso, bensì di esplicitare le esigenze che mi sono fissata in funzione sia del profilo complessivo di ogni libro sia dell’orizzonte di attesa del lettore.

La concessione del telefono, non l’ho tradotto ricorrendo una parlata regionale ma con un lavoro stilistico sui registri di lingua. Non andai a cercare altri codici linguistici, ma prestai la massima attenzione alla miniera dei modi di dire di cui è ricchissima la lingua francese. Alla scelta di sfruttare un sostrato linguistico regionale, ci sono arrivata dopo aver tradotto Il gioco della mosca, cioè un libro dove la lingua parla di sé, dove Camilleri elargisce il suo tesoro linguistico, palesando quanto scaturisca dal vissuto di individui (egli stesso, i membri della sua famiglia, i compaesani), individui non isolati, bensì, volenti nolenti, partecipi di una collettività, del suo destino economico, politico, storico, sentimentale e sessuale al quale ognuno  partecipa con le proprie inalienabili specificità. Tradurre in francese questo libro non poneva problemi particolari in quanto le parole dialettali erano l’oggetto del testo e quindi venivano citate e spiegate così com’erano, senza necessità di trovare un equivalente in francese. Se vi alludo, è perché credo mi abbia permesso di capire il rapporto personale di Camilleri al dialetto: cioè non una fedeltà nostalgica e conservativa volta a costruire o difendere un’identità personale, di scrittore, di individuo, e intesa come gretta difesa e promozione di un particolarismo esclusivo, bensì una memoria attiva di parole e modi di dire, gravidi di un intero microcosmo da trascinare dentro una realtà geograficamente e cronologicamente più ampia: l’Italia di oggi, tutta, con i suoi lettori lontani per non dire lontanissimi da quel microcosmo. Faccio solo due esempi di parole, che poi ricorrono nei romanzi: la calatina di cui vengono dettagliati usi e ricette e nei romanzi invece si presenta quasi priva di queste esplicitazioni e taliare, ricorrentissimo come ben sa ogni lettore di Camilleri, di cui il Gioco della mosca esplicita, per il non siciliano, quanto porti con sé una specifica concezione delle relazioni umane, dell’amicizia, della fiducia.
Perciò (almeno fino a Il Re di Girgenti dove cambiano credo i presupposti della ricerca linguistica di Camilleri), la presenza del dialetto si concretizza non con l’uso mimetico di brani interi in dialetto (pacificamente concepibile nei dialoghi) ma con l’uso sporadico - ancorché denso - e non limitato al discorso diretto, di parole che sono altrettante molle pronte a scattare, o detonatori di senso che danno al testo la sua dinamica, a volte addirittura lo orientano. E ne voglio dare un solo esempio: ne La stagione della caccia, quando Trisìna invita il marchese a far l’amore nel palmento, e cominciano l’impresa dritti in piedi (prima di cambiare posizione), mi sono chiesto quanto avesse influito sull’impegnativa posizione scelta per loro dall’autore, l’esistenza del proverbio che paragona i dolori derivati dal camminare sulla sabbia e dal futtiri addritta… Voglio dire che l’allestimento della scena non risponde (o almeno non in primo luogo) a esigenze di coerenza psicologica o narrativa oppure di equilibrio strutturale, ma al piacere di dare tutto il suo spazio all’esplosione di significati di cui dicevo prima e che portano con sé le parole o espressioni venute dal dialetto. Le parole di dialetto irradiano suoni, odori, colori, gesti, paesaggi, ma non solo. Trascinano con sé giudizi e ammonizioni, esperienze proprie e altrui, guai individuali e collettivi, speranze e diffidenze, desideri e odî.

Perciò, giunta ormai al compito di  tradurre La stagione della caccia e Un filo di fumo, mi sono messa a guardare alla mia lingua, il francese, un po’ diversamente, ricordando ad un tratto che, tutto sommato, in qualche remotissima zona della mia memoria, possedevo anch’io parole portatrici dello stesso effetto deflagrante: quelle del mio patois per usare la spregiativa parole francese, oppure in termini linguistici più nobili, la parlata franco-provenzale di Lione.
Cioè, si verificava quanto auspicato da Paul Ricœur quando parla dell’attività del traduttore come di un andare «alla scoperta delle risorse lasciate incolte» (8) nella propria lingua.
Grandissimo merito dei libri di Camilleri per il traduttore francese è di obbligarlo ad andare a rivangare campi abbandonati. E di liberarsi dall’ossessione della pureté de la langue.
Si tratta quindi di coniare spudoratamente un francese meticcio. Ma non inventandolo come ho già detto, mentre di recente Louis Bonalumi ha applicato proprio questa soluzione per l’ultimo capitolo di Bolla di componenda (9). Per quanto mi riguarda, ho voluto creare un francese meticcio attingendo a quelle parlate, dal francese accademico trascurate e disprezzate, censurate, eppure piene di vitalità. A un livello più modesto, e tragedia della colonizzazione a parte, l’operazione è gemella di quella praticata da vari scrittori francofoni delle Antille o d’Africa, come Patrick Chamoiseau della Martinica o Ahmadou Kourouma della Costa d’Avorio per esempio, quando scrivono in francese, integrandovi con vendicativa e esuberante disinvoltura parole di creolo o di lingua malinkè, spiegandole se necessario ma il più delle volte dosandole e disponendole in modo che il lettore francofono non creolo o non malinkèfono possa capire lo stesso la frase o il paragrafo. Vale a dire esattamente ciò che fa Camilleri tra italiano e siciliano (10).

È chiaro che lì ci stiamo muovendo su strade poco frequentate anche se non proprio deserte. E comunque, va detto, sempre con dosaggi prudenti, per non dire minimi. Tanto più interessante quindi citare una delle eccezioni all’universalità (o uniformità) linguistica francese: si tratta di Le feu d’Henri Barbusse, pubblicato nel 1915, testimonianza e racconto della vita dei soldati nelle trincee, dove troviamo trascritte specificità lessicali e fonetiche delle varie regioni dalle quali provenivano i vari soldati. Vale a dire, la stessa situazione letteraria di un libro che molto conta per Camilleri: La paura che Federico De Roberto pubblicò quasi negli stessi anni (1921) e sullo stesso tema. De Roberto fa parlare i soldati nei vari dialetti della Penisola. Anche Barbusse rispetta accuratamente nei dialoghi il linguaggio usato dai soldati e di cui dà una definizione: «una parlata mista di gerghi di fabbrica e di caserma, e di dialetti» (11). Eppure la traduttrice francese de La paura spiegando le sue scelte nella postfazione, afferma non aver la possibilità di rendere il multilinguismo del testo italiano, la sua varietà e ricchezza geografica e perciò invoca… proprio Le feu di Barbusse dove, secondo lei, Barbusse ha usato «il gergo francese del tempo, une lingua artificiale, a volte efficace» (12). Come vedete, della definizione di Barbusse, e dei dialoghi del libro, la traduttrice ha dimenticato tutti gli aspetti dialettali (o patois che dir si vogliano), certo non dominante ma pur sempre presente. Questa credo sia una prova delle notevoli reticenze legate alla rigidità accademica di cui ho detto all’inizio.

Non sono neppure totalmente isolata. Si verifica in ambiente di studi linguistici un interesse per le varianti regionali del francese che alimenta una produzione utilissima di vocabolari, come nel caso del parlanjhe ou poitevin-saintongeais (dialetto d’oil con elementi di lingua d’oc del Poitou Charentes Vendée (13)). E le serissime edizioni Duculot hanno pubblicato l’anno scorso l’imponente lavoro lessicografico di Pierre Rézeau, Dictionnaire des régionalismes de France. Géographie et histoire d’un patrimoine linguistique (14) - vero è che a pubblicarlo è una Casa belga e non francese…  In ambito di traduzioni poi, una traduttrice dal russo e dal lituano, Denise Yoccoz-Neugnot, ha attinto a varie parlate regionali francesi per tradurre la realtà soprattutto rurale espressa dal lituano nel romanzo di Youozas Baltouchis, La saga de Youza (15), fornendola pure di un glossario.

Una volta appurato che si doveva attivare un processo di irrigazione tra francese e parlata regionale, restava da scegliere quale. Perché quindi il lionnese?
Un motivo ovvio, anche se non sufficiente, era che, pur nel modo quasi inconscio che ho evocato prima, mi era familiare. Gli altri motivi sono tre:
- 1) l’esistenza di un ricco lessico del tutto distinto da quello francese
- 2) l’assenza di deformazioni fonetiche troppo distanti  dalla norma dell’eleganza: l’udito francese ha sue permalosità che vanno rispettate
- 3) possiede una tradizione culturale di novelle, canti, e, con un linguaggio derivato, il teatro di Guignol .
Sia chiaro che oggi a Lione e dintorni, è un patrimonio linguistico quasi morto. Eppure nel Cinquecento, viene evocato dal grammatico Geoffroy Tory come una delle cinque lingue regionali da sollecitare per codificare la lingua francese (16). E proprio lì sta la differenza con la situazione linguistica tedesca dove, come ha spiegato Moshe Kahn, si può molto difficilmente sfruttare un dialetto di Germania per sostituirlo al dialetto di Camilleri in quanto troppo evocatore per il lettore tedesco. La parlata di Lione invece offre insieme un autentico patrimonio linguistico e un effetto straniante non riconducibile (o solo per pochi lettori) ad una precisa regione di Francia con le sue caratteristiche geografiche, sociali e umane. Senza contare che se anche fosse, è proprio questo comunque il salto operato dalla traduzione da una lingua ad un’altra, operazione violenta che ad ogni modo immette nella lingua di un territorio diverso vicende in partenza ambientate altrove.
 Per dare un’idea delle possibilità espressive, farò una serie di esempi, classificandoli in tre gruppi di soluzione. Il primo, il più fedele, consiste a dare alla parola siciliana un equivalente lionnese per cui taliare (regarder) è tradotto con apincher, strammo (étrange) con bachique, babbiare (plaisanter) con gandoiser, alliffarisi (se pomponner) con se rapapilloter, timbulata (gifle) con plamuse, cato (bassine) con seille, alloccuto (étonné) con couame, intortato (rabougri) con recrénillé, strùmmula (toupie) con fiarde, una troffa (un buisson) con une sévelée, fùttiri (accomplir l’acte sexuel, pur un homme) con fifrer, tirribìlio (remue-ménage) con sicotis, fare una curruta (courir) con pataler, scantato (effrayé) con ébravagé, assammarare (tremper) con benouiller, quadiarsi (se chauffer) con se cafourner, minchia di (saleté de) con sampillerie de, alloppiare (donner de l’opium) con potringuer, essere allocato (perdre la raison) con détrancaner, far nesciri la guàllara (se faire une hernie) con se faire peter la basaneandare nel retré (aller aux toilettes) con prendre faute, mi fa raggia (il m’énerve) con il me fait endéver, si fici mali a una gamma (il s’est fait mal à la jambe) con il s’est déclaveté une piotte e via dicendo.
Ovviamente restavano tutti i casi in cui non esisteva un parola lionnese soddisfacente per rendere il siciliano, bisognava allora realizzare delle compensazioni. Il secondo guppo di soluzioni sono le compensazioni di prossimità: «mezzi annegati nel succo di racina» è stato tradotto da «moitié gourdés dans le moût», «il padre dà un càvucio nel culo al caruso» con «son père atouse au mami un coup de pied au cul» , «ci trasì il sole in testa» con «le soleil lui est entré dans le questin», «le farlacche traballanti» con «les passerelles guenivelantes», «se n’è iuto a spasso» con «il est sorti se bambaner».
Nel terzo gruppo di soluzioni, le compensazioni si fanno a scala dell’intero libro: ho introdotto il lionnese rebriquer (répliquer) o quinchée (cri) mentre Camilleri usa per queste nozioni i termini italiani. Ho tradotto déclavetée (mise à mal) quando la marchesa  è «massacrata» in italiano; «Natale était à plat de lit» quando Camilleri scrive italianamente «Natale stava sul letto»; «la tâche d’huile s’éclapa» quando Camilleri usa l’italiano «la macchia d’olio si ruppe»; «s’abousant au sol comme une boge de pommes de terre» quando l’originale è senza dialetto «cadendo a terra come un sacco di patate». Fra le parole di Camilleri che sono restate per me intraducibili se non in francese standard, si trovano il termine di derivazione spagnola pilaja (plage), spiare (demander), trasire (entrer), addunarisi (se rendre compte), appinnicato (endormi), ammàtola (en vain) e, ahimè, troppi altri.

Dopo questi miei esempi vorrei tornare al filone lionnese in francese, anche per informare Andrea Camilleri della gente con la quale lo metto a stare gomito a gomito.
Il lionnese ha sotterraneamente nutrito un romanzo che ha molti punti in comune con l’ambientazione paesana dei libri di Camilleri e la sua, a volte feroce, osservazione dei vizi e debolezze dei singoli sotto lo sguardo impietoso e ipocrita della collettività: si tratta di Clochemerle di Gabriel Chevallier (1934) che vale la pena riscoprire (ebbe allora un enorme successo) fosse solo per il vigore anticonformista e antimilitarista nonché - altro punto comune con le tematiche di Camilleri - per la gran soddisfazione di mettere in campo la forza eversiva del desiderio sessuale e la sua prorompente realizzazione contro ogni moralismo o strategia sociale e economica.

Altro figlio della parlata lionnese, è uno dei più inventivi fra i giallisti francesi dal punto di vista della lingua, cioè Frédéric Dard, in arte San Antonio col quale (e qui si ferma il paragone) condivido il paese di nascita, Jallieu.

In conlusione, vorrei tornare all’ultima produzione di Camilleri, Il Re di Girgenti, in cui gli equilibri linguistici finora attuati sono, credo, profondamente modificati. Invadente si è fatto il dialetto, addirittura dominante (eccezion fatta dello spagnolo che, nel nostro caso, non fa problema in quanto lingua terza che mi auguro di poter lasciare tale quale, rispettando il lavoro di elaborazione compiuto da Camilleri). Questa volta, temo basterà il solo ricorso a parole di lionnese. Per via del colorito seicentesco della faccenda, mi sto chiedendo se sfruttare anche il patrimonio storico della lingua francese, cioè il moyen français (1350-1600) che si situa tra l’ancien français e il français classique. Mi sto nutrendo con la lettura di Rabelais et Scarron, e la consultazione dei vecchi vocabolari dell’Académie française. Ma devo confessare che con Il re di Girgenti da tradurre entro un po’ di mesi, sono daccapo con il problema che dà il titolo alla mia relazione: quale francese per l’italiano di Camilleri ? Di nuovo, le prospettive sono aperte e non per ora non fissate. Se ne riparlerà a traduzione avvenuta.

Forse mi si rimprovererà come brutale ingerenza questo mio lavoro su La stagione della caccia e Un filo di fumo. A mia difesa citerò Maurice Blanchot: «Il traduttore è il segreto maestro della differenza delle lingue, non per cancellarla, ma per sfruttarla, in modo da far nascere, nella propria, per vie dei cambiamenti violenti o sottili che lui le arreca, una presenza di quanto di originariamente diverso ci sia nell’originale.» (17).
Grazie quindi a Andrea Camilleri per permetterci di accedere, per citare un’altra volta Patrick Chamoiseau (tradotto in Italia, guarda caso, da Sergio Atzeni  (18)), non all’universalità con connessi rischi di piallatura delle culture e delle sensibilità, bensì alla bella e variopinta diversalité.
 
 

Note

(1) I. Calvino, L’italiano, una lingua tra le altre lingue, in Una pietra sopra, Milano, Mondadori, 1965, p. 142.

(2) Ibidem.

(3) Per ordine cronologico di traduzione: La concessione del telefono, Il gioco della mosca, La stagione della caccia e Un filo di fumo.

(4) Proprio con un’osservazione su questa espressione si apre il libro Allah n’est pas obligé, di Ahmadou Kourouma, scrittore francofono di Costa d’Avorio, «Et d’abord… et un… M’appelle Birahima. Suis p’tit nègre. Pas parce que suis black et gosse. Non ! Mais suis p’tit nègre parce que je parle mal le français. C’é comme ça. Même si on est grand, même vieux, même arabe, chinois, blanc, russe, même américain ; si on parle mal le français, on dit on parle p’tit nègre, on est p’tit nègre quand même. Ça, c’est la loi du français de tous les jours qui veut ça.», Ahmadou Kourouma, Allah n’est pas obligé, Paris, Seuil, 2000, p. 3.

(5) «On pouvait prévoir un moment où la différence entre français parlé et français écrit serait tel qu’il se produirait une véritable catastrophe (…) Tout d’un coup, il y aurait deux langues : l’une, le français écrit, deviendrait l’équivalent du latin ; et l’autre, dûment codifiée, serait à son tour enseignée dans les écoles. On reconnaîtrait dans le néo-français un idiome indépendant. Cette thèse que je me suis plu à soutenir à plusieurs reprises il y a une vingtaine d’années, ne me paraît plus aussi bien fondée» car dvpmt TV et «A force de voir sur le petit écran d’autres eux-mêmes s’exprimer en un français (en général à peu près correct) les Français se sont mis à surveiller la façon dont ils s’expriment. N’importe qui peut être appelé pour une raison quelconque à “dire deux mots” devant une caméra : comme il ne faut pas se rendre ridicule, disons-les en bon français.», R. Queneau, Curieuse évolution de la langue française, in Le voyage en Grèce, Gallimard, 1973, p. 224-225.

(6) Alcuni biglietti scritti da quasi analfabeti in Concessione del telefono (il biglietto d’amore sgrammaticato di Lillina a Pippo, in Cose scritte tre, pp. 95-96) o La scomparsa di Patò (lettera ai carabinieri dettata da Onofrio Vasapolli per denunciare la scomparsa di casa del fratello pericolosamente pazzo, pp.16-17)

(7) Annie Salager, Le pré des langues, Martel, éditions du Laquet, 2001, p. 24-26.

(8) Paul Ricœur, “Le paradigme de la traduction”, in Esprit, juin 1999, p. 15.

(9) Purtroppo non si è potuto entrare in un dibattito che sarebbe appassionante e proficuo. Constato che la scelta dell’invenzione di parole è indubbiamente facilitata dalle dimensioni ridotte del testo che comporta una percentuale molto bassa di dialetto rispetto alla lingua consueta di Camilleri. In questo senso, è forse proprio la scelta più azzeccata. Meno felice invece, a mio parere, l’esito delle deformazioni fonetiche proposte per rendere alcune battute in dialetto stretto. Faccio due esempi: «Ah, chi sciàuru bellu di pisci friscu!»  (ed. Sellerio, p. 27) diventa «Ah qué beau reniffe de pissonfré!» (Indulgences à la carte, trad. de Louis Bonalumi, Paris, Le Promeneur, 2002, p. 32) e «Ciccino, come fu?» (ed. Sellerio, p. 29) diventa «Cicciro, kom’manceuffut?» (p. 34) che in bocca al ministro Scelba suona inopportunamente infantile. La differenza sul nome del personaggio credo sia da attribuire ad un disattento editing e non a una scelta del traduttore.

(10) Appassionnante la teorizzazione della créolité per cui non si tratta né di idolatrare il francese né di idolatrare il creolo, bensì di usarli contemporaneamente tutti e due (e anche altre lingue, come l’inglese), a scapito di ogni esigenza di purismo e con unica bussola la creatività letteraria. La parola d’ordine è «rompre l’ordre coutumier de ces langues, renverser leurs significations établies»  (Jean Bernabé, Patrick Chamoiseau et Raphaël Confiant, Éloge de la créolité, Paris Gallimard, 1990, p. 48). Il traguardo è l’instaurazione della diversalité: «Et si nous recommandons à nos créateurs cette exploration de nos particularités c’est parce qu’elle ramène au naturel du monde, hors du Même et de l’Un, et qu’elle oppose à l’Universalité, la chance du monde diffracté mais recomposé, l’harmonisation consciente des diversités préservées : la DIVERSALITÉ » (ibidem, p. 54)

(11) «Le même parler, fait d’un mélange d’argots d’atelier et de caserme, et de patois, assaisonné de quelques néologismes, nous amalgame, comme une sauce, à la multitude d’hommes qui, depuis des saisons, vide la France pour s’accumuler au Nord-Est.», Henri Barbusse, Le feu, Paris, Flammarion, 1965, p. 21.

(12)   F. De Roberto, La peur, trad. par Muriel Gallot, ed. Le Passeur, Nantes, 1999, p. 74.

(13) Voir Liliane Jagueneau, Le parlanjhe de Poitou Charentes Vendée, La Crèche, Geste Editions, 1999, pp. 8-10.

(14) P. Rézeau, Dictionnaire des régionalismes de France. Géographie et histoire d’un patrimoine linguistique, Bruxelles, Duculot,  2001, 1140 p

(15) Y. Baltouchis, La saga de Youza, trad. par Denise Yoccoz-Neugnot, éd. Alinea, 1990.

(16) «Nostre langue est aussi facile a reigler et mettre en bon ordre, que fut jadis la langue grecque, en laquelle y a cinq diversites de langage, qui sont la langue Attique, la Dorique, la Aeolique, la Ionique e la Comune… Tout ainsi pourrios-nous faire de la langue de Court et Parrhisienne, de la langue Picarde, de la Lionnoise, de la Lymosine et de la Prouvensalle », Geoffroy Tory, Champ Fleury, 1529, cité in Mireille Huchon, Le français de la Renaissance, Puf, 1988.

(17) «Le traducteur est le maître secret de la différence des langues, non pas pour l’abolir, mais pour l’utiliser, afin d’éveiller, dans la sienne, par les changements violents ou subtils qu’il lui apporte, une présence de ce qu’il y a de différent, originellement, dans l’original.», M. Blanchot, Traduire, in L’amitié, Gallimard, 1971.

(18) Texaco, Einaudi, 1994.

Dominique Vittoz





Last modified Wednesday, July, 13, 2011