Letteratura e storia. Il caso Camilleri
Quale francese per tradurre l’italiano di Camilleri ? Una proposta
non pacifica.
Prima vorrei ringraziare gli organizzatori del convegno per questo invito e ringraziare anche Andrea Camilleri per la gioia di lettori che ci dà. Un problema di fondo della traduzione dall’italiano al francese è
quello della differenza di elasticità rispettiva delle due lingue.
Calvino definiva l’italiano «lingua di gomma con la quale pare di
poter fare tutto quel che si vuole» (1). E ne veniva questa drastica
affermazione
Però tradurre Camilleri in francese significa combinare due eccessi: una lingua di partenza, l’“italiano” tra virgolette geneticamente modificato di Camilleri, particolarmente inventiva e una lingua d’arrivo, il francese, particolarmente poco duttile. Di necessità, tradurre Camilleri porta il traduttore in francese a confrontarsi con i limiti di elasticità della sua lingua, per respingerli, far spazio, allargare l’orizzonte pur rispettando il genio della lingua per evitare l’arbitrario, l’invenzione, che portano con sé il rischio di sfociare in un angusto e narcisistico idioletto. Per quanto mi riguarda, almeno fino a ora per i libri di Camilleri che ho tradotto, non ho ceduto a questa tentazione (3). Vediamo quali sono, in francese, gli ostacoli maggiori all’elasticità
linguistica: lo scrupolo accademico e il centralismo linguistico,
entrambi potentemente sorretti dagli ideali di matrice illuministica di
chiarezza, universalità e uguaglianza.
Prova a contrario dell’imperante rispetto del codice in francese è la ricchezza anche letteraria dell’argot al quale ricorsero e ricorrono autori in rottura di consenso accademico come Céline, e numerosi autori di gialli. L’argot ha due caratteristiche: 1) è linguaggio di trasgressione sociale, di rivolta 2) è lingua solo adulta, non viene acquisito per via di trasmissione familiare, nell’infanzia, non ha cullato nessun bambino né raccontato fiabe o cantato ninne nanne. Arriviamo alla seconda causa di poca elasticità del francese, cioè il centralismo linguistico che è uno dei tanti aspetti del centralismo tout court (con la sua grandeur e la sua miseria). In questo contesto, Parigi è norma, vanto e metro dell’identità nazionale. Di conseguenza le parlate delle province (come cadenza, come lessico) sono irrimediabilmente bollate di rozzezza, di goffaggine, di ridicola e squalificante faute de goût. Le parlate regionali presenti sul territorio furono oggetto di cancellazione, e di rimozione. Ricordo per tutte il “Divieto di sputare per terra e di parlare bretone”, scritta che veniva appesa nelle scuole elementari di Bretagna. Non credo di sbagliare dicendo che per i francesi almeno fino a una
data recente (perché forse le cose stanno cambiando con la legislazione
sull’insegnamento delle lingue regionali), il patrimonio linguistico regionale
era in gran parte inconscio. Eppure sicuramente presente almeno nel mondo
rurale, vale a dire, fino al secondo dopoguerra, la stragrande parte del
Paese. C’è una scrittrice francese che evoca bene l’arcana ma vivificante
presenza di questa «altra lingua» assorbita durante l’infanzia
e di cui prese coscienza solo a posteriori (nel suo caso si tratta dell’area
del Trièves, di lingua occitana). Si chiama Annie Salager e così
scrive in Le pré des langues (Il prato delle lingue): «Sono
stata immersa nelle parole dialettali («de la langue vernaculaire»)
sin dall’infanzia, poi le ho dimenticate, parzialmente riconosciute che
galleggiavano nella mia cadenza (…) Capita più spesso di quanto
si creda che il lavoro della scrittura sia anche la ricerca di un’altra
lingua sotto quella che la esprime. La si cerca senza saperlo, si nutre
la propria lingua con una lieve distanza dall’altra mai cancellata, che
lascia in allarme il desiderio di dire, votato a una insoddisfazione inesauribile
eppure gaudiosa (…) Una lingua, anzi due intrecciate, si ingegnavano a
trovare il proprio spazio comune, una specie di canto dei limiti che mi
tratteneva, prigioniera e libera.» (7).
La concessione del telefono, non l’ho tradotto ricorrendo una
parlata regionale ma con un lavoro stilistico sui registri di lingua. Non
andai a cercare altri codici linguistici, ma prestai la massima attenzione
alla miniera dei modi di dire di cui è ricchissima la lingua francese.
Alla scelta di sfruttare un sostrato linguistico regionale, ci sono arrivata
dopo aver tradotto Il gioco della mosca, cioè un libro dove
la lingua parla di sé, dove Camilleri elargisce il suo tesoro linguistico,
palesando quanto scaturisca dal vissuto di individui (egli stesso, i membri
della sua famiglia, i compaesani), individui non isolati, bensì,
volenti nolenti, partecipi di una collettività, del suo destino
economico, politico, storico, sentimentale e sessuale al quale ognuno
partecipa con le proprie inalienabili specificità. Tradurre in francese
questo libro non poneva problemi particolari in quanto le parole dialettali
erano l’oggetto del testo e quindi venivano citate e spiegate così
com’erano, senza necessità di trovare un equivalente in francese.
Se vi alludo, è perché credo mi abbia permesso di capire
il rapporto personale di Camilleri al dialetto: cioè non una fedeltà
nostalgica e conservativa volta a costruire o difendere un’identità
personale, di scrittore, di individuo, e intesa come gretta difesa e promozione
di un particolarismo esclusivo, bensì una memoria attiva di parole
e modi di dire, gravidi di un intero microcosmo da trascinare dentro una
realtà geograficamente e cronologicamente più ampia: l’Italia
di oggi, tutta, con i suoi lettori lontani per non dire lontanissimi da
quel microcosmo. Faccio solo due esempi di parole, che poi ricorrono nei
romanzi: la calatina di cui vengono dettagliati usi e ricette e
nei romanzi invece si presenta quasi priva di queste esplicitazioni e taliare,
ricorrentissimo come ben sa ogni lettore di Camilleri, di cui il Gioco
della mosca esplicita, per il non siciliano, quanto porti con sé
una specifica concezione delle relazioni umane, dell’amicizia, della fiducia.
Perciò, giunta ormai al compito di tradurre La stagione
della caccia e Un filo di fumo, mi sono messa a guardare alla
mia lingua, il francese, un po’ diversamente, ricordando ad un tratto che,
tutto sommato, in qualche remotissima zona della mia memoria, possedevo
anch’io parole portatrici dello stesso effetto deflagrante: quelle del
mio patois per usare la spregiativa parole francese, oppure in termini
linguistici più nobili, la parlata franco-provenzale di Lione.
È chiaro che lì ci stiamo muovendo su strade poco frequentate anche se non proprio deserte. E comunque, va detto, sempre con dosaggi prudenti, per non dire minimi. Tanto più interessante quindi citare una delle eccezioni all’universalità (o uniformità) linguistica francese: si tratta di Le feu d’Henri Barbusse, pubblicato nel 1915, testimonianza e racconto della vita dei soldati nelle trincee, dove troviamo trascritte specificità lessicali e fonetiche delle varie regioni dalle quali provenivano i vari soldati. Vale a dire, la stessa situazione letteraria di un libro che molto conta per Camilleri: La paura che Federico De Roberto pubblicò quasi negli stessi anni (1921) e sullo stesso tema. De Roberto fa parlare i soldati nei vari dialetti della Penisola. Anche Barbusse rispetta accuratamente nei dialoghi il linguaggio usato dai soldati e di cui dà una definizione: «una parlata mista di gerghi di fabbrica e di caserma, e di dialetti» (11). Eppure la traduttrice francese de La paura spiegando le sue scelte nella postfazione, afferma non aver la possibilità di rendere il multilinguismo del testo italiano, la sua varietà e ricchezza geografica e perciò invoca… proprio Le feu di Barbusse dove, secondo lei, Barbusse ha usato «il gergo francese del tempo, une lingua artificiale, a volte efficace» (12). Come vedete, della definizione di Barbusse, e dei dialoghi del libro, la traduttrice ha dimenticato tutti gli aspetti dialettali (o patois che dir si vogliano), certo non dominante ma pur sempre presente. Questa credo sia una prova delle notevoli reticenze legate alla rigidità accademica di cui ho detto all’inizio. Non sono neppure totalmente isolata. Si verifica in ambiente di studi linguistici un interesse per le varianti regionali del francese che alimenta una produzione utilissima di vocabolari, come nel caso del parlanjhe ou poitevin-saintongeais (dialetto d’oil con elementi di lingua d’oc del Poitou Charentes Vendée (13)). E le serissime edizioni Duculot hanno pubblicato l’anno scorso l’imponente lavoro lessicografico di Pierre Rézeau, Dictionnaire des régionalismes de France. Géographie et histoire d’un patrimoine linguistique (14) - vero è che a pubblicarlo è una Casa belga e non francese… In ambito di traduzioni poi, una traduttrice dal russo e dal lituano, Denise Yoccoz-Neugnot, ha attinto a varie parlate regionali francesi per tradurre la realtà soprattutto rurale espressa dal lituano nel romanzo di Youozas Baltouchis, La saga de Youza (15), fornendola pure di un glossario. Una volta appurato che si doveva attivare un processo di irrigazione
tra francese e parlata regionale, restava da scegliere quale. Perché
quindi il lionnese?
Dopo questi miei esempi vorrei tornare al filone lionnese in francese,
anche per informare Andrea Camilleri della gente con la quale lo metto
a stare gomito a gomito.
Altro figlio della parlata lionnese, è uno dei più inventivi fra i giallisti francesi dal punto di vista della lingua, cioè Frédéric Dard, in arte San Antonio col quale (e qui si ferma il paragone) condivido il paese di nascita, Jallieu. In conlusione, vorrei tornare all’ultima produzione di Camilleri, Il Re di Girgenti, in cui gli equilibri linguistici finora attuati sono, credo, profondamente modificati. Invadente si è fatto il dialetto, addirittura dominante (eccezion fatta dello spagnolo che, nel nostro caso, non fa problema in quanto lingua terza che mi auguro di poter lasciare tale quale, rispettando il lavoro di elaborazione compiuto da Camilleri). Questa volta, temo basterà il solo ricorso a parole di lionnese. Per via del colorito seicentesco della faccenda, mi sto chiedendo se sfruttare anche il patrimonio storico della lingua francese, cioè il moyen français (1350-1600) che si situa tra l’ancien français e il français classique. Mi sto nutrendo con la lettura di Rabelais et Scarron, e la consultazione dei vecchi vocabolari dell’Académie française. Ma devo confessare che con Il re di Girgenti da tradurre entro un po’ di mesi, sono daccapo con il problema che dà il titolo alla mia relazione: quale francese per l’italiano di Camilleri ? Di nuovo, le prospettive sono aperte e non per ora non fissate. Se ne riparlerà a traduzione avvenuta. Forse mi si rimprovererà come brutale ingerenza questo mio lavoro
su La stagione della caccia e Un filo di fumo. A mia difesa
citerò Maurice Blanchot: «Il traduttore è il segreto
maestro della differenza delle lingue, non per cancellarla, ma per sfruttarla,
in modo da far nascere, nella propria, per vie dei cambiamenti violenti
o sottili che lui le arreca, una presenza di quanto di originariamente
diverso ci sia nell’originale.» (17).
Note (1) I. Calvino, L’italiano, una lingua tra le altre lingue, in Una pietra sopra, Milano, Mondadori, 1965, p. 142. (2) Ibidem. (3) Per ordine cronologico di traduzione: La concessione del telefono, Il gioco della mosca, La stagione della caccia e Un filo di fumo. (4) Proprio con un’osservazione su questa espressione si apre il libro Allah n’est pas obligé, di Ahmadou Kourouma, scrittore francofono di Costa d’Avorio, «Et d’abord… et un… M’appelle Birahima. Suis p’tit nègre. Pas parce que suis black et gosse. Non ! Mais suis p’tit nègre parce que je parle mal le français. C’é comme ça. Même si on est grand, même vieux, même arabe, chinois, blanc, russe, même américain ; si on parle mal le français, on dit on parle p’tit nègre, on est p’tit nègre quand même. Ça, c’est la loi du français de tous les jours qui veut ça.», Ahmadou Kourouma, Allah n’est pas obligé, Paris, Seuil, 2000, p. 3. (5) «On pouvait prévoir un moment où la différence entre français parlé et français écrit serait tel qu’il se produirait une véritable catastrophe (…) Tout d’un coup, il y aurait deux langues : l’une, le français écrit, deviendrait l’équivalent du latin ; et l’autre, dûment codifiée, serait à son tour enseignée dans les écoles. On reconnaîtrait dans le néo-français un idiome indépendant. Cette thèse que je me suis plu à soutenir à plusieurs reprises il y a une vingtaine d’années, ne me paraît plus aussi bien fondée» car dvpmt TV et «A force de voir sur le petit écran d’autres eux-mêmes s’exprimer en un français (en général à peu près correct) les Français se sont mis à surveiller la façon dont ils s’expriment. N’importe qui peut être appelé pour une raison quelconque à “dire deux mots” devant une caméra : comme il ne faut pas se rendre ridicule, disons-les en bon français.», R. Queneau, Curieuse évolution de la langue française, in Le voyage en Grèce, Gallimard, 1973, p. 224-225. (6) Alcuni biglietti scritti da quasi analfabeti in Concessione del telefono (il biglietto d’amore sgrammaticato di Lillina a Pippo, in Cose scritte tre, pp. 95-96) o La scomparsa di Patò (lettera ai carabinieri dettata da Onofrio Vasapolli per denunciare la scomparsa di casa del fratello pericolosamente pazzo, pp.16-17) (7) Annie Salager, Le pré des langues, Martel, éditions du Laquet, 2001, p. 24-26. (8) Paul Ricœur, “Le paradigme de la traduction”, in Esprit, juin 1999, p. 15. (9) Purtroppo non si è potuto entrare in un dibattito che sarebbe appassionante e proficuo. Constato che la scelta dell’invenzione di parole è indubbiamente facilitata dalle dimensioni ridotte del testo che comporta una percentuale molto bassa di dialetto rispetto alla lingua consueta di Camilleri. In questo senso, è forse proprio la scelta più azzeccata. Meno felice invece, a mio parere, l’esito delle deformazioni fonetiche proposte per rendere alcune battute in dialetto stretto. Faccio due esempi: «Ah, chi sciàuru bellu di pisci friscu!» (ed. Sellerio, p. 27) diventa «Ah qué beau reniffe de pissonfré!» (Indulgences à la carte, trad. de Louis Bonalumi, Paris, Le Promeneur, 2002, p. 32) e «Ciccino, come fu?» (ed. Sellerio, p. 29) diventa «Cicciro, kom’manceuffut?» (p. 34) che in bocca al ministro Scelba suona inopportunamente infantile. La differenza sul nome del personaggio credo sia da attribuire ad un disattento editing e non a una scelta del traduttore. (10) Appassionnante la teorizzazione della créolité per cui non si tratta né di idolatrare il francese né di idolatrare il creolo, bensì di usarli contemporaneamente tutti e due (e anche altre lingue, come l’inglese), a scapito di ogni esigenza di purismo e con unica bussola la creatività letteraria. La parola d’ordine è «rompre l’ordre coutumier de ces langues, renverser leurs significations établies» (Jean Bernabé, Patrick Chamoiseau et Raphaël Confiant, Éloge de la créolité, Paris Gallimard, 1990, p. 48). Il traguardo è l’instaurazione della diversalité: «Et si nous recommandons à nos créateurs cette exploration de nos particularités c’est parce qu’elle ramène au naturel du monde, hors du Même et de l’Un, et qu’elle oppose à l’Universalité, la chance du monde diffracté mais recomposé, l’harmonisation consciente des diversités préservées : la DIVERSALITÉ » (ibidem, p. 54) (11) «Le même parler, fait d’un mélange d’argots d’atelier et de caserme, et de patois, assaisonné de quelques néologismes, nous amalgame, comme une sauce, à la multitude d’hommes qui, depuis des saisons, vide la France pour s’accumuler au Nord-Est.», Henri Barbusse, Le feu, Paris, Flammarion, 1965, p. 21. (12) F. De Roberto, La peur, trad. par Muriel Gallot, ed. Le Passeur, Nantes, 1999, p. 74. (13) Voir Liliane Jagueneau, Le parlanjhe de Poitou Charentes Vendée, La Crèche, Geste Editions, 1999, pp. 8-10. (14) P. Rézeau, Dictionnaire des régionalismes de France. Géographie et histoire d’un patrimoine linguistique, Bruxelles, Duculot, 2001, 1140 p (15) Y. Baltouchis, La saga de Youza, trad. par Denise Yoccoz-Neugnot, éd. Alinea, 1990. (16) «Nostre langue est aussi facile a reigler et mettre en bon ordre, que fut jadis la langue grecque, en laquelle y a cinq diversites de langage, qui sont la langue Attique, la Dorique, la Aeolique, la Ionique e la Comune… Tout ainsi pourrios-nous faire de la langue de Court et Parrhisienne, de la langue Picarde, de la Lionnoise, de la Lymosine et de la Prouvensalle », Geoffroy Tory, Champ Fleury, 1529, cité in Mireille Huchon, Le français de la Renaissance, Puf, 1988. (17) «Le traducteur est le maître secret de la différence des langues, non pas pour l’abolir, mais pour l’utiliser, afin d’éveiller, dans la sienne, par les changements violents ou subtils qu’il lui apporte, une présence de ce qu’il y a de différent, originellement, dans l’original.», M. Blanchot, Traduire, in L’amitié, Gallimard, 1971. (18) Texaco, Einaudi, 1994.
Dominique Vittoz |
Last modified
Wednesday, July, 13, 2011
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