Tampasiannu e discurrennu con Andrea
Camilleri
di Salvatore Ferlita
Porto Empedocle-Vigàta.
Occhiali scuri, coppola in testa, l’immancabile sigaretta tra le labbra,
Andrea Camilleri si avvicina con passo dinoccolato a
uno dei tavoli del bar Albanese, meta quotidiana delle sue passeggiate
mattutine. Si siede e istantaneamente, dinnanzi a lui, si materializza una
fredda bottiglia di birra. Passa qualche istante e il
barman ritorna con in mano alcuni libri della riconoscibilissima collana selleriana
“La memoria”: “Professore, ci sono le solite cambiali da firmare”. A
quel punto Andrea Camilleri si arma di penna, legge i bigliettini che si trovano
in mezzo a ogni volume recanti il nome del
destinatario della dedica, e comincia a firmare: “E’ cosa d’ogni matina”,
spiega con il solito sorriso sornione.
Nel frattempo uno sciame di curiosi si avvicina al tavolo: c’è chi armeggia
con la macchina fotografica, chi sfoggia l’ultimo romanzo dello scrittore più
amato d’Italia, da dedicare alla figlia. C’è chi gli chiede una dritta
sulla riduzione teatrale di un testo di Simenon, chi
si avvicina per farsi immortalare assieme al “maestro”.
Lui, pazientissimo, firma e sorride. Intanto ha già
acceso un’altra sigaretta. “Ne fumo tre pacchetti al
giorno – confida – ma me ne fotto”. Giuseppe
Leone prepara i suoi arnesi: obiettivi, rullini, grandangoli. Torna il sereno e
finalmente posso rivolgergli la prima domanda: Scriverà mai una storia
ambientata fuori dalla Sicilia?
“Io non sarei in grado di ambientare una storia nemmeno a Villa San
Giovanni”.
È così: non c’è un romanzo
dello scrittore empedoclino che non si svolga nell’isola, che
non parli di un particolare aspetto di essa e dei suoi abitanti. Una Sicilia,
quella di Camilleri, che però è stata inevitabilmente graffiata dall’unghia
della Storia, che negli ultimi anni ha subito fatali modificazioni.
Quale
immagine dell’isola serba nella sua memoria quando si accinge a scrivere un
romanzo o una pagina di racconto, e qual è lo scarto tra i suoi ricordi e la
realtà di oggi?
“La città di Porto Empedocle che si vede oggi, coi
suoi grattaceli nani, non esisteva. C’era un intrico di case, tipo casbah, con
nomi bellissimi: strada del miele, strada dello zucchero. La loro intitolazione
in un certo senso esorcizzava l’orrendevolezza
delle abitazioni. Da quelle strade passavano anche gli asini, le pecore, e
c’era un odore particolarissimo di umanità. Un
odore per niente repellente, beninteso; anzi, bellissimo. Tutto ciò è andato
completamente distrutto”.
Si
può dire, dunque, che ormai i luoghi della sua giovinezza esistono solamente in
quanto recuperati dal pozzo dei ricordi?
“E’ così: questo paesaggio è radicalmente mutato. Ricordo
che dal balcone di casa mia vedevo le case arroccate sulla roccia. Un bel
giorno mi affaccio e cosa mi trovo davanti agli occhi? La collina spoglia, senza
case: un massiccio bombardamento aveva distrutto le abitazioni dei pescatori. A
questo proposito ricordo un fatto curioso: mio padre aveva perso quasi l’udito
nella guerra del ’15-18. Praticamente da un
orecchio non sentiva un bel niente e quando di notte, prima dei bombardamenti,
suonava l’allarme, se per caso lui dormiva sul lato dell’orecchio ancora
funzionante, se ne fotteva altamente, continuando
imperterrito a russare. Dopo una notte di pioggia di bombe, dunque, mio padre si
alzò e guardando fuori dal balcone non vide più le
case. In quel preciso momento si stava grattando il sedere, e allora si rivolse
verso di me chiedendomi: “Ma questa notte aerei
passarono?” Non solo erano passati gli aerei, ma avevano sganciato tonnellate
e tonnellate di bombe. Le casette distrutte furono pazientemente ricostruite.
Erano abitazioni a un piano, colorate. Ma
alcuni anni dopo un’alluvione si portò via tutto, definitivamente. I pochi
scheletri che resistettero alla distruzione furono abbattuti per costruire una
strada orrenda che conduce al cimitero”.
La
Vigàta dei romanzi di Montalbano, praticamente,
non esiste più…
“Quando comincio a concepire
un’avventura di Montalbano, soprattutto nell’atto di ambientarla, si
sovrappone nella mia memoria questo paese due volte distrutto, e di conseguenza
si accumulano odori, rumori persi. I rumori di una vita quotidiana che si svolgeva
sotto gli occhi di tutti. Bastava attraversare una strada per vedere il
moribondo con accanto il prete che dava l’estrema
unzione e poco più in là la donna che cucinava. Era una vita compressa, in cui
poteva accadere di tutto sotto gli occhi di tutti”.
Il
commissario Montalbano, quando può, si allontana dalla sua Vigàta
per andare alla ricerca di una Sicilia più terragna,
poco ospitale, riarsa e arida…
“In un certo senso è vero: se infatti
nelle descrizioni dei romanzi è possibile riconoscere Porto Empedocle, la torre
Carlo V, la scala dei Turchi, la spiaggia di Marinella, la sabbia e il mare di
questa mia zona, è però presente quasi sempre anche un’altra Sicilia, che
chissà perché, viene poco rilevata. Da qualche parte ho scritto, forse nel Cane
di terracotta, che a Montalbano piace attraversare il paesaggio
tipico della Sicilia aspra, arida, brulla, con le casucce
in bilico sulle colline, quasi sul punto di precipitare. È un’immagine di
Montalbano poco nota: a lui piace questa Sicilia, e quando può, tralasciando le
strade principali, sceglie percorsi alternativi per vedere quei luoghi
riarsi”.
Cosa
pensa dei luoghi scelti per la fiction televisiva?
“Certo, il povero produttore, quando nei romanzi parlo di
Marinella, non può girare le scene nei luoghi ai quali faccio riferimento:
Marinella, infatti, che era formato da quattro, forse
cinque case, è diventato un vero e proprio paese. Un tempo c’erano pochissime
abitazioni, sviluppate tutte in orizzontale. Si trattava di villette
regolarmente abusive. Montalbano, il mio Montalbano, si sceglie una villetta di
queste, e non quella lussuosa che si trova a Puntasecca, a Ragusa, e che si vede
in televisione. Secondo lei, il mio commissario sarebbe mai andato ad abitare in
una casa a due piani, così bella e sfarzosa? In realtà a lui piace una casetta
con tre cammare
in fila. Però mi va bene la spiaggia, e anche il
terrazzo. A pensarci bene, l’intera faccenda ha dell’incredibile: letterariamente
Vigàta è qui, a Porto Empedocle; come fiction,
invece, è lì, nel ragusano”.
Leggendo
i romanzi di Montalbano, ci si accorge che Montelusa
è sempre una città di passaggio. Come mai?
“È vero, e questo probabilmente è legato alla mia memoria e
all’esperienza personale. Io andavo ad Agrigento per frequentare il Liceo
Classico: per me, quindi, Agrigento era un luogo di transito. Ci andavo ogni
mattina, per poi tornare a Porto Empedocle alla fine delle lezioni. Quando
io ero liceale, l’entrata al Ginnasio-Liceo era sulla piazzetta San Francesco,
proprio accanto alla chiesa di San Francesco. Quella piazzetta è molto
importante, fondamentale direi, perché da lì ho ricavato l’idea di Vigàta.
In quella piazzetta ogni mattina, in un angolo, c’era il panellaro,
come nei romanzi di Leonardo Sciascia, e dai paesi vicini arrivavano le corriere
che letteralmente scaricavano decine e decine di ragazzi che venivano ad
Agrigento per frequentare il Liceo. Ora, queste corriere arrivavano almeno
trenta minuti in anticipo e la piazzetta, inevitabilmente, si riempiva di
ragazzi che, ingurgitando pane e panelle, si
raccontavano i fatti accaduti nei rispettivi paesi di origine.
Quella piazzetta finiva con l’essere un grande
paese, raccolto però in un luogo molto circoscritto. Ci conoscevamo tutti e
alla fine ognuno di noi sapeva fatti e misfatti delle diverse zone di
appartenenza. In una parola, la piazzetta diventava un grande
luogo di scambio di notizie. Ecco, l’idea di Vigàta
come paese a geometria variabile nasce dalla memoria che ho di quella piazzetta,
dove mi era possibile sapere cose che capitavano in altre parti della provincia
e che, inevitabilmente, diventavano mie. Vigàta è
quella piazzetta, dove ho anche avuto modo di sperimentare che cos’è la
meraviglia sublime della follia siciliana”.
Leonardo
Sciascia ha scritto che gli autori siciliani sono così visceralmente
legati alla loro terra, che quasi sono costretti a
raccontarla quasi fosse una condanna. È d’accordo?
“Il rapporto viscerale che lega gli
scrittori siciliani alla loro terra è una situazione di fatto. Ad esempio,
Sciascia ripercorre a modo suo Candido
di Voltaire, scrivendo Candido,
ovvero un sogno fatto in Sicilia. Ora, se c’è nella storia della
letteratura un’apertura enorme, e una non restringibilità
all’interno di un territorio, questo è proprio il caso di Voltaire. Eppure,
Sciascia scrive Candido
in Sicilia. Io però, al contrario di Sciascia
che parlava di una condanna degli autori isolani a parlare quasi esclusivamente
della loro terra, penso che bisogna invertire il punto di vista sulla questione.
L’essere condizionati quasi visceralmente
a scrivere della Sicilia non è assolutamente una dannazione, ma al contrario
una felicità. Io mi sento di dire che gli umori, i profumi, le
contraddizioni di questa nostra terra rappresentano una tale forza di vita che,
inevitabilmente, finiscono per condizionare lo
scrittore. Chi lo ha detto che questo condizionamento sia una perdita di libertà
inventiva? Per me rappresenta una maggiorazione. Nella mia carriera di regista
mi è capitato di mettere in scena commedie di volta in volta da adattare alle
situazioni dei palcoscenici nei quali andavo a rappresentarle. Più erano i
problemi che quei palcoscenici presentavano, più era sollecitata la mia
fantasia alla risoluzione di tali problemi. È vero che Pirandello, Bufalino,
Verga, Capuana, e anche i minori, non hanno potuto
fare altro che scrivere sulla Sicilia; ma facendo ciò, non è mai stata
limitata la loro vena creativa. Al contrario, se si guarda ai risultati delle
loro opere, tutto ciò ha rappresentato un’enorme ricchezza”.
(da La Sicilia di
Andrea Camilleri. Tra Vigàta e Montelusa, Kalós, 2003)
|