home page




 


Université Paris 8
Vincennes-Saint-Denis

Comité scientifique:
Gianfrancesco Borioni, Camillo Faverzani,
Marina Fratnik, Dario Lanfranca

Organisée par
Camillo Faverzani
[camillo.faverzani@univ-paris8.fr]
Dario Lanfranca
[dariolanfranca@yahoo.it]

 

 

III Seminario sull’opera

di Andrea Camilleri

6 novembre 2015

Université Paris 8 – bâtiment B – salle B106
2, rue de la Liberté – 93526 Saint-Denis

 

 

La mafia – che non c’è – nei romanzi di Camilleri


Sento la necessità di cominciare dal titolo, "La mafia - che non c’è - nei romanzi di Camilleri", perché redatto con la mia colpevole complicità che nasconde un tratto di ironia "camilleriana", è il caso di dire. Già, perché nel classico vezzo siciliano quel "non c’è" nega per non negare. L’apparente contraddizione prende corpo da una delle polemiche, più o meno motivate, che hanno accompagnato e accompagnano la produzione letteraria del nostro amato Andrea. Tanto amato da far nascere un sito a lui dedicato, il "Camilleri Fans Club", appunto, diretto da Filippo Lupo, conosciuto come ‘u Presidenti, che ringrazio per le preziose informazioni fornitemi sulla vastissima opera dello scrittore. Un ringraziamento va anche alla casa editrice Sellerio, che mi è stata di grande aiuto consentendomi una vasta ricerca sulle pubblicazioni di Camilleri.

Più d’una volta le critiche, le recensioni (soprattutto dei romanzi montalbaniani tradotti poi in fiction) hanno fatto registrare la contestazione principe che viene rivolta spesso agli autori siciliani: "Si è valido, però non affronta il problema della mafia" che è una presenza quasi permanente nella vita quotidiana degli isolani. E’ vero: questo nodo della mafia, ma più ancora quello della lotta alla mafia e dell’impegno contro il potere oscuro, è un tema quasi obbligatorio per i narratori siciliani che vogliano raccontare la loro terra. E ci vuol poco a "vestire" (passateci l’accezione camilleriana) la "diversa attenzione" verso coppola e lupara con gli abiti di colpevole sottovalutazione se non addirittura di imperdonabile negazionismo.

La mafia, intesa come totalizzante impero del male, in effetti non emerge nei racconti che vedono protagonista quel commissario "Salvo Montalbano", sicilianissimo, ma davvero atipico perché lontano dallo stereotipo di uomo imbelle e rassegnato. Non emerge nel senso che il mafioso non è mai il protagonista delle storie. Tuttavia l’onorata società non è che non esista nelle trame: c’è ma non sta in primo piano per esplicita volontà dell’autore che dichiara apertamente di non voler contribuire al consolidamento del mito della mafia. "Vuoi o non vuoi, il romanzo finisce col nobilitare anche i personaggi più indegni", ha scritto o fatto scrivere più volte Camilleri anche nei libri che costituiscono il breviario per comprenderlo. Mi riferisco principalmente alle lunghe conversazioni raccolte in volumi da tre giornalisti: "La linea della palma", con Saverio Lodato, "La testa ci fa dire" con Marcello Sorgi e "Tutto Camilleri" di Gianni Bonina, questa - certamente - la più completa "radiografia" dell’autore empedoclino.
"Attenzione - ha precisato poi Camilleri - a non fraintendere. Non sto proponendo di cassare capolavori assoluti come Il Padrino. Sto soltanto dicendo che, al di là delle intenzioni dello scrittore, è la forza del romanzo che costruisce il mito di don Vito Corleone, mafioso ma uomo ragionevole, marito, padre e nonno affettuoso che muore trasmettendo al nipotino l’amore per i fiori". E’ una polemica, questa della celebrazione della mafia, antica e irrisolta. Persino Leonardo Sciascia dovette difendersi dalle frecciatine rivoltegli da intellettuali che non avevano mai scritto una riga sul tema. La contestazione, in occasione dell’uscita de "Il giorno della civetta", primo romanzo italiano ad affrontare l’argomento in modo assolutamente esplicito, riguardava soprattutto la figura del boss, don Mariano Arena, in fondo percepito dal lettore come possessore di una scala di valori che lo porta a riconoscere al "nemico" - quel capitano Bellodi odioso rappresentante dell’autorità statuale - lo status di "uomo", contrapposto ai mezzi uomini e ai quaquaraqua che popolano le istituzioni e la società civile.
E chi ha memoria e l’età per ricordare sa che simili critiche non furono risparmiate neppure al giudice Giovanni Falcone, quando scrisse - con la giornalista francese Marcelle Padovani - il primo manuale per capire la mafia: "Cose di Cosa nostra". Venne attaccato da destra e da sinistra per l’atteggiamento mentale che lo portava a sottolineare come non si dovesse mai dimenticare che dietro al sospettato che si sta interrogando, quindi dietro al mafioso, c’è sempre un uomo. E apriti cielo, quando sostenne di aver provato "rispetto" - sì disse proprio così - per le motivazioni che avevano indotto Tommaso Buscetta a pentirsi e collaborare con lo Stato. I censori più agguerriti furono quelli di sinistra che accusarono il giudice di essere "stregato dalla mafia" e sottolinearono che non avrebbe dovuto addentrarsi in un terreno non suo. In sostanza gli contestarono il fatto di aver voluto scrivere un libro, senza mai essere passato per i salotti buoni dell’intellighentia.

Anche Camilleri preferisce "cercare l’uomo": in "La linea della Palma" dice chiaramente di temere atteggiamenti moralistici: "Prima di tutto mi è sempre interessato l’uomo". Forse è per questo che Montalbano preferisce entrare nel fondo dell’umanità dei personaggi in cui si imbatte, piuttosto che cercare valutazioni sociologiche che possano spiegare l’evoluzione delle trame narrative. E anche la mafia, dunque, finisce per restare sullo sfondo senza invadere la scena, che resta appannaggio di una realtà popolata da uomini e donne portatori di tutto il bello e il brutto che ci circonda: piccoli miserabili, esplosioni di grande generosità e amore, rapporti familiari commoventi e a volte malati. Di questo "presepio" fa parte la mafia, impersonata dai Sinagra, dai Cuffaro, potenti clan, ma anche da un contorno di "buona società" imbelle e dedita al quieto vivere da cui trae benefici e privilegi. Ecco, ci sia concesso di dire che la mafia e Montalbano vanno in parallelo: ciascuno riconosce l’altro senza che i Sinagra o i Cuffaro finiscano per essere il problema principale di Montalbano, senza cioè una militanza antimafia del commissario. Volendo estremizzare, si potrebbe concludere che Montalbano "prende atto" dell’esistenza dei boss, sa che quello è un segmento importante, ma non l’unico, della realtà. Perché ciò che traspare dai racconti montalbaniani è, ancor più di una Cosa nostra strutturata, una "mafiosità" diffusa che condiziona la quotidianità di tutti i personaggi. Un quadro, questo, offerto senza alcuna vocazione moralistica, tanto da indurre lo stesso autore a rivelare (a Gianni Bonina) il ragionevole sospetto che non solo la mafia è responsabile dei mali della Sicilia. Dice Camilleri della società siciliana: "Un sistema minato con una carica comandata dall’interno". E viene in mente il concetto di "sicilitudine", neologismo inventato dal vigile urbano/poeta Crescenzio Cane e celebrato da Leonardo Sciascia.
Il problema della mafia, sosteneva Giovanni Falcone, sarebbe risolvibile se non fosse aggravato e amplificato dalla mafiosità, cioè da quella cultura, o sottocultura come si preferisce, che diffonde e afferma un modo di pensare e di vivere capace di giustificare tutto e persino di accettare il capovolgimento delle logiche e delle regole del vivere civile. E’ la patologia siciliana, antica e radicata, che ha reso "irredimibile" - copyright di Sciascia - la nostra (dei siciliani) coscienza collettiva. Rivedo così mia madre, cattolicissima e timorata di Dio, abbassare la voce quando si parlava di mafia e mafiosi e ricordo un episodio che spiega più di qualunque trattato sociologico il "sistema mafioso". Una mia zia aveva perduto tutti i suoi gioielli che aveva portato al banco dei pegni in un momento di crisi economica. Infatti al momento di riscattarli era arrivata con qualche minuto di ritardo e l’impiegato si era dimostrato inflessibile: "Mi dispiace, signora, i suoi gioielli saranno messi all’asta". E dire che i palermitani si ostinavano a definire il Banco dei pegni col termine "Monte di pietà". La povera donna era distrutta perché quei gioielli avevano, al di là del valore intrinseco, un notevole valore affettivo, trattandosi di ricordi e regali accumulati in una vita intera. La sua prostrazione fu raccolta da una vicina che si arrogò l’iniziativa di chiedere l’intervento del boss del quartiere. Don Tano non promise nulla e chiese 48 ore di tempo. Alla scadenza si presentò coi gioielli, recuperati non so proprio come, chiedendo semplicemente la somma già stabilita sulla polizza di riscatto. Un servizio perfetto e gratuito. Così per lei don Tano sarebbe rimasto sì mafioso, ma mafioso "caritatevole".
I boss descritti da Camilleri non sono molto lontani da don Tano e soprattutto dal don Mariano di Sciascia. E ciò dipende certamente dalle condizioni simili in cui sono nati gli scrittori (il territorio agrigentino di Porto Empedocle e Racalmuto) e cresciuti (il mondo contadino della provincia). Ma mentre Sciascia si lascia guidare dallo spirito illuministico che lo permea, Camilleri prende atto della realtà, attratto forse da un approccio più psicoanalitico. Si può essere abbastanza d’accordo con quanto sostiene Bonina, nell’introduzione al Tutto Camilleri: "Sciascia spiega la Sicilia, Camilleri la racconta". Ma "entrambi la vedono come metafora del mondo".

Camilleri/Montalbano conosce bene sia la mafia che la mafiosità. Conosce a perfezione i meccanismi che fanno muovere i boss e i piccoli disgraziati che popolano Vigata. E’ cosciente del lento cammino degradante che, di generazione in generazione, porta i Cuffaro o i Sinagra a sbiadirsi sempre di più, a perdere l’aura che fu dei “galantuomini” di una volta. Basti guardare alle nuove generazioni di quelle "famiglie" per intuirne il declino: la droga, i soldi facili, persino gli odiosi traffici di organi ed esseri umani, ne debilitano le forze. Così accade ne "La danza del gabbiano", dove Franco, giovane Sinagra, si abbandona addirittura ad una relazione amorosa con un transessuale. Impensabile "difetto" che nella concezione della mafia antica gli avrebbe impedito qualunque corsa al comando.
Eppure anche questo "cambiamento" esecrabile Camilleri registra senza eccessi di indignazione moralistica, lasciandolo ancora nello sfondo per non concedergli la scena. E, un pizzico divertito, spinge Montalbano all’azzardo di trovare persino un contatto con la mafia. Montalbano incontra Balduccio Sinagra ne "La gita a Tindari" e ne fa un bozzetto completo. Non ha timore di sporcarsi le mani, anzi appare certo di poter trarre vantaggi (per la sua inchiesta)da quel contatto, limitandosi a giustificarlo quasi come una semplice presa d’atto di una realtà che comprende anche la mafia. E non solo la mafia, pure tutto il viscido contorno che la sostiene: l’avv. Guttadauro, che, protetto dalla sua professione, fa l’ambasciatore della "famiglia" e il mediatore nei rapporti con la società, con le istituzioni e quindi con lo stesso Montalbano. Un mondo perfettamente somigliante alle recenti risultanze investigative ottenute da intercettazioni ambientali captate nei salotti buoni di medici primari e altri professionisti. E poi padre Crucillà, il prete misericordioso che si occupa di sollevare il vecchio boss da possibili rimorsi. Un prete che somiglia al monaco (reale, questo) che andava a dire messa nel covo del capomafia latitante Pietro Aglieri, capoclan della borgata di Santa Maria del Gesù, a Palermo, forse veramente messo in crisi dal germe della fede se è riuscito a laurearsi in carcere in teologia. Anche Bernardo Provenzano, l’ultimo padrino, pur senza lauree, dimostra una fede incrollabile, anzi un qualche processo di identificazione col Creatore se è vero che, ordinando un omicidio, sentenzia: "Sia fatta la volontà di Dio". Un grande equivoco, questo, spesso alimentato dall’atteggiamento tenuto negli anni da alte istituzioni religiose. Nel 1963, in occasione della strage di Ciaculli (sette militari uccisi), la Chiesa Valdese prese pubblicamente una dura posizione contro la mafia. Di fronte al silenzio del cardinale di Palermo, Ernesto Ruffini, il Papa - Paolo VI - per mano del suo segretario di Stato, pose degli interrogativi sull’atteggiamento della Chiesa palermitana. E Ruffini rispose, anche piccato, che la mafia non esisteva se non nella ideologia dei social comunisti.

Ma torniamo a don Balduccio Sinagra. Il boss rappresenta la vecchia mafia, quella che seguiva un codice d’onore: "discutibile - precisa Camilleri - addirittura ignobile, ma era un codice netto". Già nel 1986 lo scrittore aveva avuto modo di verificare di persona come fossero saltati tutti i codici, trovandosi testimone oculare, mentre prendeva un caffè, della strage (sei morti)compiuta in un bar del suo paese. "Ma già prima - ha commentato - avevo capito che tutto era cambiato". Anche questo distinguere tra vecchia e nuova mafia, a vantaggio della prima, ha suscitato qualche mugugno moralistico sull’inaccettabilità di atteggiamenti che possono sembrare giustificazionisti e quindi lontani dalla coscienza nazionale. Ma Camilleri non si è lasciato condizionare: "La mafia antica aveva un codice d’onore, delirante quanto si vuole, criminale quanto si vuole, ma codice. Un vecchio mafioso, dovendo ammazzare uno che passeggia sottobraccio alla moglie, avrebbe detto alla donna, prima di sparare: «Signora si scosti». La mafia nuova non avrebbe aperto bocca e avrebbe ammazzato tutti e due". Ecco perché Camilleri, nei romanzi e specialmente in quelli finiti in Tv, non dà spazio ad argomentazioni che potrebbero creare personaggi negativi ma "simpatici". Lo fa nei saggi e nei romanzi storici perché lì è più facile sottrarre l’aura di beatificazione. Lo scrittore racconta, per esempio, il suo incontro occasionale col boss Nick Gentile (che chiama Nicola, quasi a volerlo normalizzare) avvenuto casualmente a Roma. E spiega la filosofia del boss sul tema del comando e del rispetto. "Mi disse in sostanza - ricorda Camilleri - che il rispetto si ottiene con gli atteggiamenti corretti e non con la intimidazione. Se la minaccio con la pistola e lei mi ubbidisce, non sono mafioso. Se la convinco, se riesco a farmi rispettare sono un mafioso vero." Un cliché che si ripete nel "Birraio di Preston", dove il funzionario statale, ovviamente nordico, si fa fuorviare dall’apparenza e crede che il mafioso sia una sorta di "bravo" manzoniano. "Dunque - afferma Camilleri - non ha capito la differenza tra un prepotente qualsiasi e un uomo di rispetto. Il mafioso vero è quello che non appare, l’evidente è il legale rappresentante del mafioso vero". Siamo di fronte al segreto della longevità, se non immortalità, della mafia che finisce di essere una normale, seppure potentissima, organizzazione criminale, per diventare parte integrante di un complesso sistema di potere politico ed economico, grazie proprio alla sua capacità di creare consenso con l’inganno. Cioè generando bisogni nella comunità in cui vive e prospera (bisogno di sicurezza, di protezione, di sopravvivenza) per proporsi subito dopo come rimedio a quegli stessi problemi da lei creati.

Certo, a nessuno sfugge quanto sia scivoloso il terreno che tratta dei rapporti e dei contatti tra il commissario Montalbano con mafiosi e piccoli delinquenti, in sostanza il tema delicato del rispetto della legge anche da parte dello Stato. Un tema caro a Sciascia che laicamente sosteneva che nella lotta alla mafia non è consentito travalicare le regole e lo Stato deve combattere utilizzando solo la legge, proprio perché in quanto Stato non può agire come la mafia.
Salvo Montalbano azzarda. Spinge, anche parecchio, ma sa quando si deve fermare. Scrive Bonina su "La voce del violino": "Montalbano rischia molto con la mafia, ma è un rischio calcolato".
Prendiamo il suo rapporto con Gegè Gullotta, l’ex compagno di scuola che ha preso una "via diversa" da quella di Salvo, divenendo un magnaccia, ma è un confidente del commissario. Montalbano lo usa, qualche volta anche disinvoltamente e Camilleri sente questa anomalia, fino ad avvertire la necessità di risolvere definitivamente la questione facendo morire Gegè in una sparatoria in cui anche il commissario rimane ferito, in modo da poter attenuare il senso di colpa che lo prende per la morte dell’amico, in qualche modo da lui provocata. Ma Montalbano utilizza anche il figlio di Adelina, l’amata cameriera dispensatrice di arancine e pasta con le sarde, un ladruncolo che, a richiesta, gli riferisce notizie ed umori del carcere e del mondo della piccola criminalità. Anche qui, però, si pone un limite e non aiuta il ragazzo ad evitare le conseguenze delle trasgressioni, accompagnandolo in galera a saldare il debito con la giustizia.

Montalbano non ama il potere. O meglio non ama l’ottusità del potere e l’esasperazione della burocrazia del potere. Viene dal ’68, Salvo. Insegue l’araba fenice della giustizia sostanziale, della verità vera che raramente si trovano nella cosiddetta verità giudiziaria. E non si accontenta della verità precostituita, tanto cara ai burocrati che non amano approfondire per timore di ritrovarsi in situazioni scomode. Montalbano rifiuta le conclusioni delle apparenze. Così risulta dalla storia raccontata ne "La forma dell’acqua", presentata appunto come il tentativo di accreditare per autentica una verità che è solo apparente: la morte di un notabile di partito messa in scena in modo da farla sembrare conseguenza di un infamante rapporto sessuale.

Salvo intuisce che quella che si vede è la forma che l’acqua ha preso da un contenitore precostituito. Scava e trova l’ignobile intrigo di potere e mafia, non dopo aver dovuto pagare un duplice prezzo: il fidato Fazio che gli rimprovera di essere "un comunista" e il compromesso che farà con se stesso, quando forzerà la mano per far recuperare un lauto compenso al povero netturbino bisognoso di quella cifra per far curare il proprio bambino. Montalbano, l’eretico, quasi ricatta il proprietario di una preziosa collana, ritrovata dal netturbino vicino al cadavere del notabile, per far avere a un padre bisognoso quanto necessita per salvare il figlioletto. Poi il commissario giustifica la piccola rinuncia ai principi di onestà, cavillando sulle definizioni: "La collana non era refurtiva in quanto non era stata rubata, ma perduta e ritrovata".

Stessi sentimenti teneri non nutre per i potenti e gli arroganti. "Il cane di terracotta", "Il ladro di merendine" e "La voce del violino" descrivono la violenza del potere (mafia compresa) e l’ostinata avversione di Montalbano per quel mondo. Rappresentano anche il massimo della "trasgressione costruttiva", chiamiamola così, del commissario nei confronti della mafia. Nel primo romanzo assistiamo al tramonto di "Tanu u grecu", boss all’antica che non si ritrova più nella rampante organizzazione criminale moderna e decide di farsi arrestare per potersene tranquillamente andare in carcere, lontano dall’umanità ignobile che popola il suo mondo. Ma perché “Tanu” chiede proprio a Montalbano di aiutarlo in questa pantomima? Perché fu "l’unico sbirro a darmi del lei" e perché "è uno che le cose le capisce". Chiarissima la sinergia che esiste tra i due, un po’ dinosauri, nel mondo moderno, ciascuno per il proprio ruolo. Salvo simpatizza per il vecchio boss che è un perdente e torna alla mente, a chi certe vicende le ha vissute, la sinergia fra Giovanni Falcone e Tommaso Buscetta che, quando veniva portato all’interrogatorio col giudice, si sedeva solo dopo che s’era accomodato il magistrato.

Dicevamo del difficile rapporto di Montalbano col potere. Nel "Ladro di merendine", arriva ad usare le maniere forti col funzionario dei servizi segreti propenso a qualunque verità di comodo, pur di proteggere il segreto e la ragion di Stato che contempla persino il salvataggio di un pericoloso terrorista. Salvo si fa allestire dal fidato amico giornalista, Nicolò Zito, una candid camera per potere registrare e ricattare l’agente segreto, attirato in trappola nella sua casa di Punta Secca. Così riesce a legare lo 007 alla promessa di recuperare una forte somma di denaro da destinare al futuro del piccolo Francois, rimasto orfano e amatissimo da Livia, la fidanzata di Montalbano.
Ancora la ricerca di una giustizia sostanziale in un mondo profondamente ingiusto. Missione che Montalbano porta avanti senza rinunciare al proprio rigore etico: quando ("La voce del violino") i Sinagra e il viscido avv. Guttadauro gli forniscono addirittura la prova (una videocassetta) di un depistaggio compiuto dalla Questura, Salvo la usa ma con astuzia, riuscendo ad obbligare i colleghi a ristabilire la verità senza dover rendere pubblico il video. In sostanza, senza schizzi di fango sull’istituzione.

Dunque non è affatto vero che la mafia sia assente nei racconti in cui Montalbano è protagonista. E’ più giusto dire, semmai, che il poliziotto non si comporta come eroe dell’antimafia, nell’accezione che viene data a certi investigatori e magistrati assurti agli onori della cronaca dopo le stragi mafiose del 1992 e del ’93. Montalbano non vuole incarnare il bene che lotta contro il male assoluto. Vigàta non è Palermo, i racconti risentono di un’ambientazione che è per necessità piccola, chiusa, dove tutti - buoni e cattivi - vivono gomito a gomito. Dove ciascuno sa tutto di tutti e oppressori ed oppressi si dividono lo spazio vitale. Una realtà irredimibilmente siciliana, per dirla con Sciascia. In questo spazio qualcuno (per esempio Bonina) ha fatto notare a Camilleri che si percepisce Vigata come "terreno di forte presenza mafiosa". La risposta dello scrittore è chiara: "A me basta questo, che i lettori capiscano". L’accenno più forte al bisogno di una combattiva coscienza antimafia è forse quello contenuto nel "giovane Montalbano" recentemente trasmesso in TV. In "Morte in mare aperto e altre indagini del giovane Montalbano", apprendiamo addirittura l’origine di questa forte determinazione di Salvo. Una pressante richiesta di giustizia, forse inculcata dalla buona educazione paterna, ma certamente esaltata nel momento della strage di Capaci, quando Salvo decide di rinunciare a Genova e alla convivenza con Livia e di restare a presidio, in Sicilia. Esattamente come accadde nella realtà, quando centinaia di giovani studenti, colpiti da quella enormità, decisero di entrare in magistratura e di farsi destinare in Sicilia.

Altro discorso va fatto per il Camilleri dei romanzi storici, dei saggi e degli interventi giornalistici. Lì la passione antimafia dello scrittore è senza mediazione. Andrea non si sottrae e non vacilla mai, entra nel vivo della battaglia culturale e politica. Tocca i temi più scottanti dell’antimafia moderna, da Andreotti e Dell’Utri all’origine delle fortune di Berlusconi. Ma, sicuramente meglio di quanto possa fare io, se ne parlerà tra poco. Grazie per l’attenzione.

Francesco La Licata

 

 

Last modified Tuesday, December, 29, 2015