Facoltà
di Studi Umanistici Giuseppe Marci [gmarci@unica.it] |
Seminario sull’opera di Andrea Camilleri 7 marzo - 10 maggio 2013 |
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Laudatio
Andrea Camilleri nasce nel
Appassionato lettore, comincia da giovanissimo a scrivere racconti e
poesie. Nel 1947 un suo poemetto, Due
voci per un addio, partecipa al premio Libera Stampa di Lugano – presieduto
da Gianfranco Contìni, Carlo Bo e Giansiro Ferrata – e viene segnalato, insieme alle poesie di
Pier Paolo Pasolini, Andrea Zanzotto, Maria Corti, Danilo Dolci e David Maria
Turoldo.
Nel 1948 vince una borsa di studio per l’Accademia Nazionale di Arte
Drammatica, dove frequenta il corso di regia tenuto da Orazio Costa. Cinque
anni dopo, nel 1953, firma la sua prima regia ufficiale, mentre è del 1958 la
messa in scena di Finale di partita
di Samuel Beckett.
Nello stesso anno viene assunto alla Rai, dove lavorerà per trent’anni,
allestendo programmi televisivi di grande successo quali, ad esempio, Giallo Club. Invito al poliziesco e la
serie del commissario Maigret tratta dai romanzi di Georges Simenon.
Fra il 1967 e il 1968 scrive il primo romanzo, Il corso delle cose, che verrà pubblicato solo nel 1978
dall’editore Lalli, mentre due anni dopo, presso Garzanti, comparirà Un filo di fumo.
Un esordio che non lasciava presagire l’esplosione del “fenomeno
Camilleri”.
Nel 1984 pubblica con l’editore Sellerio La strage dimenticata, ma il successo arriva, d’improvviso, nella
seconda metà degli anni Novanta. Aveva pubblicato La stagione della caccia (1992), La bolla di componenda (1993), La
forma dell’acqua (1994), primo della serie poliziesca di cui è protagonista
il commissario Montalbano, Il birraio di
Preston (1995), Il cane di terracotta
e Il ladro di merendine che sono del
1996: in quell’anno tutti i suoi titoli avevano venduto 18.000 copie: “L’anno
successivo – racconta l’Autore –, a consuntivo, scoprii, invece, di aver
venduto 170.000 copie. Questo fu il primo balzo nelle vendite che mi portò nel
Per legare questa straordinaria crescita ai titoli, ricordiamo che, nel
1997, aveva pubblicato La voce del
violino e, nel 1998, La concessione
del telefono e Un mese con Montalbano.
Sarebbe troppo lungo elencare qui tutte le opere di un Autore fecondo e
capace di articolare la sua produzione in filoni diversi. Basterà soltanto
ricordare che nel 2002
In
tali volumi sono individuati e definiti due
importanti filoni dell’opera camilleriana che ha continuato a svilupparsi, dopo
il
Mentre rimando alla bibliografia pubblicata nei due volumi mondadoriani
e a quella, continuamente aggiornata, che compare nel sito allestito dal Camilleri
Fan Club (www.vigata.org), non posso non ricordare che dal 1999 il commissario Salvo Montalbano
è diventato protagonista di una serie televisiva di grande successo (gli ultimi
episodi prodotti e programmati hanno superato i 10 milioni di telespettatori)
interpretata dall’attore Luca Zingaretti e che i romanzi di Camilleri sono
tradotti in moltissime lingue e sono letti in ogni continente.
Il successo internazionale spinge a riflettere sul problema della
traduzione, intendendo sia la vexata
quaestio relativa alla traducibilità della particolare lingua camilleriana
sia, e più ampiamente, la resa, per un pubblico di lettori geograficamente e
culturalmente lontani dalla civiltà italiana – e,
particolarmente, siciliana – che
costituisce l’humus culturale di cui
si nutre la prosa di Camilleri: una sfida vinta, per il valore dei traduttori e
per l’originaria capacità dei testi camilleriani di parlare a lettori sparsi in
ogni parte del mondo.
Questa è, già di per sé, una delle ragioni per la quale il nostro Corso
in Lingue e Letterature Moderne Europee e Americane ha voluto conferire la
laurea magistrale honoris causa ad
Andrea Camilleri.
Ma dobbiamo anche aggiungere che il Maestro ha un legame antico e solido
con l’Università di Cagliari. È stato nostro ospite nell’anno accademico
1996-1997 e in quella circostanza tenne una memorabile lezione che gli ex
allievi ancora ricordano, in particolare soffermandosi sulla lingua usata nelle
sue opere, e costituita da un amalgama in cui, insieme all’italiano, si mescolano
il siciliano, altri dialetti e altre
lingue, e un idioletto familiare che lo scrittore
piega alle sue esigenze sperimentali.
È poi tornato, nel 2003, rinsaldando il rapporto con gli studenti del
nostro Ateneo e con i lettori cagliaritani e sardi.
Né può essere dimenticato che
dallo sviluppo di una tesi di laurea elaborata nella Facoltà di Lettere nasce
il volume di Simona Demontis I colori
della letteratura. Un’indagine sul caso Camilleri (Rizzoli, 2001); che con
una tesi a lui dedicata si è laureato Stefano Salis, oggi brillante giornalista
specializzato sui temi letterari; che, nel 2004,
Importa ora, arrivati a questo punto del discorso, citare un nome e una
data.
Il nome è quello di Sergio Atzeni, che nel 1986 e nel 1991 aveva
pubblicato per Sellerio i suoi due primi romanzi: Apologo del giudice bandito e Il
figlio di Bakunìn. Elvira Sellerio – Sergio la chiamava “
Non gli doveva essere sfuggita La
strage dimenticata, ma è a proposito de La
stagione della caccia che, parlando dell’Autore di cui allora ignoravamo
tutto, compresa la data di nascita, disse: “Questo è mio fratello”. Voleva dire
che trovava consonanze fra la sua visione del mondo, della letteratura e della
lingua e l’universo di Andrea Camilleri.
Sergio, il mare ce lo ha portato via il 6 settembre del 1995.
Non fece a tempo, quindi, a leggere il numero della rivista “Micromega”
che uscì, nel novembre 1996, presentando una sezione nella quale comparivano
articoli di Francesco Guccini, Andrea Zanzotto, Tullio De Mauro, Vincenzo
Consolo e Franco Loi e che aveva nell’incipit,
come un motto, la frase: L’Italia salvata
dalle lingue.
Di sicuro quel numero non sfuggì alla fertile attenzione dei miei
studenti Paolo Lusci e Stefano Salis, i quali subito notarono come le tematiche
lì affrontate coincidessero con quelle attorno alle quali lavoravamo da anni,
studiando la letteratura italiana (senza mai dimenticarne la geografia che, dalle origini ai giorni
nostri l’ha caratterizzata e la caratterizza), la letteratura sarda, che
avevamo scoperto, e le letterature
del mondo. Qui il discorso deve tornare a Sergio Atzeni che, in un articolo del
1994 intitolato Nazione e narrazione,
in coerenza con la nostra tradizione intellettuale, si dichiarava sardo, italiano, ed europeo[2]. Ma è
anche necessario citare il nome di Mauro Pala, professore di Letterature
comparate, il quale già allora ci aiutava a vedere gli ampi scenari del mondo e
delle letterature, soprattutto di quelle post coloniali che frequentavamo (e
amavamo) leggendo il bel romanzo Texaco
di Patrick Chamoiseau nella traduzione fatta da Atzeni e riflettendo sulle
posizioni degli intellettuali caraibici che scoprivano in se stessi, e nella
propria cultura, le tracce della cultura francese: non più rifiutandole ma
accettandole e amandole.
Potevamo non restare colpiti da Andrea Camilleri e non costruire subito
un’ipotesi di seminario che poi fu realizzato nella primavera del 1997?
Oltre a lui, parteciparono Francesco Guccini (il quale tenne avvinti gli
ascoltatori che gremivano l’aula magna: erano arrivati con la speranza di
sentir cantare La locomotiva e invece
ascoltarono, con appena minore trasporto, i dotti ragionamenti lessicografici
relativi alla lingua di Pavana) e Franco Loi (che incantò gli ascoltatori
recitando le sue poesie in lingua lombarda e spiegando le ragioni delle scelte
linguistiche compiute).
Camilleri ci stupì (e ci diede un grande insegnamento), dichiarandosi
subito, a evitare ogni equivoco, “scrittore italiano nato in Sicilia”.
Così, poi, negli anni successivi e fino a oggi, abbiamo continuato a
studiare la sua opera, con sommo divertimento (possiamo dirlo, in questo
contesto accademico? L’opera di Camilleri è divertente, avvince il lettore, lo
inchioda dalla prima all’ultima riga e questo non è un limite, anzi è il
massimo merito che uno scrittore possa conseguire), con immutato interesse per
le scelte narrative, stilistiche e linguistiche, con ammirazione per una
scrittura che ha sempre alta intensità civile, tanto nei romanzi polizieschi,
quanto in quelli storici e perfino nei racconti ascrivibili al genere
fantastico: un fantastico che, come insegna Salvatore Silvano Nigro “chiama
attorno a sé l’orizzonte tutto della vita normale”[3].
Scrittore italiano nato in Sicilia, dunque.
Anche
lui “grande linguista”, come, secondo Tullio De Mauro, sono stati gli scrittori
italiani, da Dante a Manzoni: attenti al valore dei dialetti. “I dialetti –
afferma De Mauro – sono stati, come dirà Manzoni, le lingue vive vere di questo
paese, nel senso che riuscivano ad essere le lingue in cui si poteva fare
l’amore, e poi si poteva parlare di cultura, di politica, nel Senato, alla
corte, o facendo la rivoluzione, come i giacobini napoletani nel
C’è
un passo, particolarmente adatto a questa giornata (e forse non incongruo
rispetto alla Lectio magistralis che stiamo per ascoltare),
in cui Camilleri racconta di aver fatto cenno, parlando col padre, alla
difficoltà che incontrava nella scrittura del primo romanzo. E il padre: “«Un
romanzo? Cuntamillo». Glielo raccontai. Tornando a casa riflettei su questo
episodio. Come l’avevo raccontato a mio padre? Glielo avevo raccontato in parte
in siciliano e in parte in italiano. Perché avevo fatto istintivamente questa
operazione? Questo non era un mio peculiare modo di raccontare, era
semplicemente il modo di parlare della piccola borghesia siciliana; noi, a casa
nostra, parlavamo in quel modo”[5].
Qualche
anno dopo, in un’altra intervista, lo scrittore tornerà sulla questione della
lingua: “Spesso dotti recensori dicono che io non scrivo in siciliano. In
realtà io scrivo in siciliano. O meglio, scrivo in dialetto girgentano. Ora il
dialetto girgentano, agrigentino, l’ha detto e lo ha scritto Luigi Pirandello
nella prefazione all’edizione dialettale di Liolà,
è quello che più di tutti i dialetti si avvicina alla lingua italiana”[6].
Nella
stessa intervista, poco più avanti, precisa: “Ritengo fondamentale l’immissione
dei dialetti all’interno del tronco della lingua italiana. Infatti la lingua
italiana, se non è alimentata dalla forza dei dialetti, rischia di morire.
[...] Per me il dialetto è sempre stato un elemento fondamentale, se no
diventiamo una lingua di colonia, e stiamo già rischiando di diventare una
colonia anglosassone”[7].
Culturalmente
e, se possiamo dirlo, politicamente, non è un’operazione regressiva e
municipale, quella che Andrea Camilleri, con crescente consapevolezza, va
compiendo. Al contrario, egli, pubblicazione dopo pubblicazione, delinea un
progetto moderno che tien conto della marina girgentana, della Sicilia e
dell’Italia, del Mediterraneo e del mondo. “Siamo tutti sulla sponda dello stesso
lago”, mi ha detto di recente, pensando all’andare e al venire delle donne e
degli uomini, dall’Africa all’Europa, dall’Europa alle Americhe, in un
intrecciarsi di problemi, per la cui soluzione serve il concorso di ognuno.
Viene
in mente Alessandro Manzoni, al quale Camilleri ha
voluto chiedere scusa, quando un liceo siciliano decise di sostituire lo studio
de I Promessi sposi con quello de Il
birraio di Preston. In realtà c’era poco da chiedere scusa, perché,
semplicemente, i due scrittori si stavano, in quel momento, passando il
testimone. Manzoni, spiega Lanfranco Caretti, “dopo la lettura dell’Ivanhoe e soprattutto dopo i dolorosi
casi del 1821 che avevano reciso ogni speranza liberale e condotto in carcere
gli amici Confalonieri, Pellico, Berchet e altri ancora, ritiratosi nel
romitaggio di Brusuglio, prese a progettare un’opera in tutto diversa da quelle
scritte sinora e che meglio delle liriche e delle tragedie gli consentisse di
rappresentare adeguatamente una società: i suoi tempi e varî costumi”[8].
Di questi tempi, e dei
nostri “varî costumi”, dell’Italia e del mondo, della grande crisi che
dolorosamente attraversiamo, vuole parlare Andrea Camilleri. Per ciò costruisce
le sue architetture narrative e inventa una lingua che, con le particolari
caratteristiche dalle quali è distinta, con lo sforzo che richiede nel primo
impatto, insegna il valore della comprensione reciproca, aiuta a capire che la
diversità costituisce un valore e non un ostacolo e che esiste sempre un punto
di vista imprevisto ma possibile.
Ha provato a spiegarlo
in tutti i suoi romanzi e, segnatamente, nell’ultimo, ne La rivoluzione della luna che tutto sovverte, affida il governo
delle cose a una donna, bella quanto savia, e le fa dettare un programma di
governo solo in apparenza stupefacente, un programma disegnato per
Per le ragioni esposte e per tutte le altre che il tempo non ha
consentito di mostrare, ma che sono nella comune attenzione dei tanti lettori
presenti in quest’Aula, a cominciare dagli studenti, l’Università di Cagliari oggi
conferisce ad Andrea Camilleri
Vorrei concludere, come ho fatto ad Agrigento, quando abbiamo
festeggiato l’ottantesimo compleanno del Maestro, con un augurio in sardo: A cent’annus cun saludi.
Aggiungerei mannu e bonu,
formula che si usava, riferita a un giovane, auspicando che divenisse mannu e bonu, grande e bravo.
Camilleri bravo lo è già, ma può diventare ancora più grande.
L’auspicio è che al nostro riconoscimento di oggi, altri ne seguano,
alti, per tributargli tutto l’onore che merita.
Giuseppe Marci
[1] L. Rosso, Conversazioni con Camilleri. Caffè Vigàta, Aliberti editore, 2007, pp. 50-51.
[2] S. Atzeni, Nazione e narrazione, in “L’Unione Sarda”, 9 novembre 1994, ora in S. Atzeni, Scritti giornalistici (1966-1995), a cura di Gigliola Sulis, Nuoro, Il Maestrale, vol. II, pp. 990-994.
[3] S. S. Nigro, nota di copertina in A. Camilleri, Il sonaglio, Palermo, Sellerio, 2009.
[4] T. De Mauro, Italiano o dialetto: non è un aut aut, in “Micromega”, 5/96, p. 104.
[5] A. Franchini, Cronologia, in A. Camilleri, Romanzi storici e civili, Milano, Mondadori, 2004, p. XCVI.
[6] L. Rosso, Conversazione con Andrea Camilleri. Caffè Vigata, cit., p. 67.
[7] Ivi, p. 70.
[8] L. Caretti, Romanzo di un romanzo, in A. Manzoni, I promessi sposi, Torino, Einaudi, 1971, vol. I., p. IX.
[9] A. Camilleri, La rivoluzione della luna, Palermo, Sellerio, 2013, p. 261.