Titolo

Tito di Gormenghast

Autore

Mervyn Peake

Data prima edizione

1946

Paese

Inghilterra

Lingua

Inglese

Titolo originale

Titus Groan

Traduzione

Anna Ravano

Editore

Adelphi

Collana

Biblioteca Adelphi

Data edizione letta

2005

Pagine

546

Euro

24

 

Titolo

Gormenghast

Autore

Mervyn Peake

Data prima edizione

1950

Paese

Inghilterra

Lingua

Inglese

Titolo originale

Gormenghast

Traduzione

Roberto Serrai

Editore

Adelphi

Collana

Biblioteca Adelphi

Data edizione letta

2005

Pagine

594

Euro

24

Mini recensione

Se avete voglia di evadere dalla realtà della vostra vita quotidiana, quale che sia, Mervyn Peake vi può portare molto lontano.
Se, nel corso dell'evasione, avete voglia di continuare a riflettere sulla natura umana, vostra o altrui, e sulla complessità dei rapporti umani (famigliari, istituzionali, affettivi, politici, seduttivi, ecc.) che si intrecciano nel gioco incessante che sostiene e anima la società, Mervyn Peake ha scritto per voi la saga di Gormenghast.

"Tito di Gormenghast" e "Gormenghast" sono i primi due volumi pubblicati in Italia nel 1981 e nel 2005. La traduzione del terzo, "Titus Alone", al momento non è ancora annunciata.

I due Adelphi si possono trovare in libreria catalogati come "letteratura fantastica".
Non si può negare che l'ambientazione ed i personaggi della saga trovino difficile collocazione in altre categorie bibliografiche, ma non aspettatevi elfi, maghi, maghetti, mostri, alieni inneggianti a questa o quella "Forza", ecc.

Gormenghast è al tempo stesso il nome di un territorio, di un artiglio montuoso che lo sovrasta e di una imponente costruzione che sarebbe banale chiamare "un enorme castello", trattandosi di un complesso che si estende a perdita d'occhio in un susseguirsi di torri, padiglioni, corti, scalinate, passaggi, sotterranei e solai, per lo più abbandonati da tempi immemorabili e ignoti agli stessi abitatori della contea.
La sua origine si perde nella notte dei tempi, così come ataviche, indecifrabili, misteriose ma irrinunciabili sono le leggi, le cerimonie e le regole che scandiscono ogni ora e ogni circostanza della vita sociale.
Il rispetto della tradizione è il ponte fra la vita terrena e l’ultraterreno.
Non esiste, nei primi due volumi, un "altrove".

In questo "fantastico" contenitore fatto di antiche e polverose pietre, quanto di rituali altrettanto remoti e grevi, in questo contesto apparentemente immutabile nella sua poderosa ripetitività, prende vita una storia sorprendente.
Una folla di protagonisti si muove, colorata e imprevedibile, fra le grigie pareti di pietra. Nessuno sfugge e si salva dallo sguardo vitale e bizzarro dell'autore e dal suo occhio deformante che fa del grottesco il denominatore comune di tutti i caratteri.

A cominciare dai nomi, spesso lunghi e composti di più radici (Ferraguzzo, Floristrazio, Barbacane, ecc. ) a sottolineare la valenza astratta dei personaggi e ispirandosi alla tradizione tipicamente anglosassone dei giochi di parole e dei limerick.
Ma soprattutto nella descrizione dei tratti somatici, schematici ma spesso eccessivi nelle assurde proporzioni, che fanno pensare ad un'operazione di natura non tanto letteraria quanto pittorica, espressionista o fumettistica. Non per niente l’autore ebbe grande fama come pittore e illustratore di classici.
E infine negli atteggiamenti, nel modo di camminare, di gesticolare, di mangiare, dormire, nella teatralità dei costumi delle primedonne: velluto nero, porpora, pizzo bordò.
Viene allestita con questa lucida e pungente abilità, una irresistibile satira della società contemporanea di cui fanno le spese le più comuni categorie che traggono dalla tradizione immotivati privilegi. Esemplare, in tal senso, la combriccola dei professori, dipinta come una banda di debosciati a vari stadi di degradazione fisica e morale: fannulloni, esaltati, inetti, narcisisti, marionette estranee e indifferenti alla propria missione.

Eppure si dispiega una storia paradossalmente molto realistica, in confronto al potenziale grottesco e fantastico dei personaggi e dell’ambientazione.
Le motivazioni, le attitudini, le emozioni, le riflessioni, le mire, le scelte e le azioni di questa compagnia di caricature viventi, sono attendibili sul piano reale quanto potrebbero esserlo, ai nostri giorni, quelle degli occupanti di un grosso condominio di lusso, o magari di un'aula parlamentare.
(Non ci coglierebbe del tutto impreparati l'eventualità che qualcuno le trovasse, anzi, più ragionevoli e sensate).

Il noir? C'è, ma limitarsi a questa connotazione sarebbe tanticchia riduttivo, quanto dire che "Guerra e pace" è una storia a lieto fine o l'"Amleto" una ghost story.

La narrazione procede per episodi, innumerevoli, che coprono complessivamente una ventina d’anni, accompagnando dalla nascita la vita di Tito, settantasettesimo Conte de’ Lamenti.

Il racconto è fatto di personaggi ma anche di ambienti che incessantemente vivono, agiscono, partecipano all’evoluzione della storia, da quelli più importanti per le vicende che li vedono protagonisti: la biblioteca, il Torrione delle Selci, la Grande Cucina; a quelli più marginali: la Stanza delle Radici, il ballatoio dei topini, la sala degli aironi. I luoghi, gli oggetti, gli spazi sono raccontati come se fossero personaggi ed episodi.
Dalla prima pagina: … il “Torrione delle Selci …, pezzato qua e là di edera nera, sorgeva dai pugni di pietrame nocchiuto come un dito mutilato puntando come una bestemmia verso il cielo.”

Non c’è interruzione fra il mondo dei personaggi, con le loro manifestazioni, e lo spazio: interno, esterno al castello e naturalmente il cielo, il tempo e le stagioni, come se fosse tutto vivo e attivamente partecipe della stessa avventura.
“Avevano atteso finchè il temporale non ebbe sfogato la sua rabbia cedendo il posto a una pioggerella che scendeva lenta, come un rimorso.”

La scrittura è visionaria nella costruzione di un "immaginario spaziale" proverbiale nel genere, e impegnativa nella minuziosa precisione dei dettagli. Passa con coerenza dal lirismo poetico alla sintesi asciutta delle cronache nelle scene d'azione. Non mancano pennellate ironiche e barocche, con qualche enfatico eccesso.
Il professor Pentaprisma: “aveva un naso che sembrava il grifo di un maiale, gli occhi neri come bottoni paurosamente vigili, con abbastanza rughe intorno da prendere al laccio e strangolare nella culla l’idea che potesse avere meno di cinquant’anni.”

Scritta intorno alla fine dell'ultima guerra, l'opera apparentemente non riflette le contrapposizioni delle ideologie dominanti del periodo, anche perché non abbiamo armate imperiali (o imperialiste) in movimento. In realtà si assiste ad un ampio respiro ideologico libertario, di portata non collettiva, ma soggettiva, e quindi più istintivo e coinvolgente, che dalle riflessioni esistenziali coeve potrebbe ricollegarsi, una ventina d’anni dopo, alla “contestazione globale” della società.
Gormenghast ha goduto di un interesse e di un successo popolare tardivo in patria, coronato da una "lussuosa" riduzione per la tv prodotta nel 2000 da BBC e PBS.
(Rif.:
http://www.bbc.co.uk/drama/gormenghast/
http://www.pbs.org/wgbh/gormenghast/ )

La corposa prefazione di Anthony Burgess, in grado di scoraggiare il più preparato e volonteroso dei recensori da qualsiasi velleità analitica, interpretativa e divulgativa, consacra l'opera al ruolo di “classico moderno”.
Condivido e apprezzo, privilegiando, fra i meriti letterari, le fantasiose e sorprendenti invenzioni.
“Donna Cora e Donna Clarice tenevano gli occhi incollati su Ferraguzzo , con un’espressione che faceva pensare più a un muro che guarda un uomo che a un uomo che guarda un muro”.