Mini recensione
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Se avete voglia di evadere dalla realtà
della vostra vita quotidiana, quale che sia, Mervyn Peake vi può portare
molto lontano.
Se, nel corso dell'evasione, avete voglia di continuare a riflettere sulla
natura umana, vostra o altrui, e sulla complessità dei rapporti umani
(famigliari, istituzionali, affettivi, politici, seduttivi, ecc.) che si
intrecciano nel gioco incessante che sostiene e anima la società, Mervyn
Peake ha scritto per voi la saga di Gormenghast.
"Tito di Gormenghast" e "Gormenghast" sono i primi due
volumi pubblicati in Italia nel 1981 e nel 2005. La traduzione del terzo,
"Titus Alone", al momento non è ancora annunciata.
I due Adelphi si possono trovare in libreria catalogati come
"letteratura fantastica".
Non si può negare che l'ambientazione ed i personaggi della saga trovino
difficile collocazione in altre categorie bibliografiche, ma non aspettatevi
elfi, maghi, maghetti, mostri, alieni inneggianti a questa o quella
"Forza", ecc.
Gormenghast è al tempo stesso il nome di un territorio, di un artiglio
montuoso che lo sovrasta e di una imponente costruzione che sarebbe banale
chiamare "un enorme castello", trattandosi di un complesso che si
estende a perdita d'occhio in un susseguirsi di torri, padiglioni, corti,
scalinate, passaggi, sotterranei e solai, per lo più abbandonati da tempi
immemorabili e ignoti agli stessi abitatori della contea.
La sua origine si perde nella notte dei tempi, così come ataviche,
indecifrabili, misteriose ma irrinunciabili sono le leggi, le cerimonie e le
regole che scandiscono ogni ora e ogni circostanza della vita sociale.
Il rispetto della tradizione è il ponte fra la vita terrena e l’ultraterreno.
Non esiste, nei primi due volumi, un "altrove".
In questo "fantastico" contenitore fatto di antiche e polverose
pietre, quanto di rituali altrettanto remoti e grevi, in questo contesto
apparentemente immutabile nella sua poderosa ripetitività, prende vita una
storia sorprendente.
Una folla di protagonisti si muove, colorata e imprevedibile, fra le grigie
pareti di pietra. Nessuno sfugge e si salva dallo sguardo vitale e bizzarro
dell'autore e dal suo occhio deformante che fa del grottesco il denominatore
comune di tutti i caratteri.
A cominciare dai nomi, spesso lunghi e composti di più radici (Ferraguzzo,
Floristrazio, Barbacane, ecc. ) a sottolineare la valenza astratta dei
personaggi e ispirandosi alla tradizione tipicamente anglosassone dei giochi
di parole e dei limerick.
Ma soprattutto nella descrizione dei tratti somatici, schematici ma spesso
eccessivi nelle assurde proporzioni, che fanno pensare ad un'operazione di
natura non tanto letteraria quanto pittorica, espressionista o fumettistica. Non
per niente l’autore ebbe grande fama come pittore e illustratore di classici.
E infine negli atteggiamenti, nel modo di camminare, di gesticolare, di
mangiare, dormire, nella teatralità dei costumi delle primedonne: velluto
nero, porpora, pizzo bordò.
Viene allestita con questa lucida e pungente abilità, una irresistibile
satira della società contemporanea di cui fanno le spese le più comuni
categorie che traggono dalla tradizione immotivati privilegi. Esemplare, in
tal senso, la combriccola dei professori, dipinta come una banda di
debosciati a vari stadi di degradazione fisica e morale: fannulloni,
esaltati, inetti, narcisisti, marionette estranee e indifferenti alla propria
missione.
Eppure si dispiega una storia paradossalmente molto realistica, in confronto
al potenziale grottesco e fantastico dei personaggi e dell’ambientazione.
Le motivazioni, le attitudini, le emozioni, le riflessioni, le mire, le
scelte e le azioni di questa compagnia di caricature viventi, sono
attendibili sul piano reale quanto potrebbero esserlo, ai nostri giorni,
quelle degli occupanti di un grosso condominio di lusso, o magari di un'aula
parlamentare.
(Non ci coglierebbe del tutto impreparati l'eventualità che qualcuno le
trovasse, anzi, più ragionevoli e sensate).
Il noir? C'è, ma limitarsi a questa connotazione sarebbe tanticchia
riduttivo, quanto dire che "Guerra e pace" è una storia a lieto
fine o l'"Amleto" una ghost story.
La narrazione procede per episodi, innumerevoli, che coprono complessivamente
una ventina d’anni, accompagnando dalla nascita la vita di Tito,
settantasettesimo Conte de’ Lamenti.
Il racconto è fatto di personaggi ma anche di ambienti che incessantemente
vivono, agiscono, partecipano all’evoluzione della storia, da quelli più
importanti per le vicende che li vedono protagonisti: la biblioteca, il
Torrione delle Selci, la Grande Cucina; a quelli più marginali: la Stanza
delle Radici, il ballatoio dei topini, la sala degli aironi. I luoghi, gli
oggetti, gli spazi sono raccontati come se fossero personaggi ed episodi.
Dalla prima pagina: … il “Torrione delle Selci …, pezzato qua e là di edera
nera, sorgeva dai pugni di pietrame nocchiuto come un dito mutilato puntando
come una bestemmia verso il cielo.”
Non c’è interruzione fra il mondo dei personaggi, con le loro manifestazioni,
e lo spazio: interno, esterno al castello e naturalmente il cielo, il tempo e
le stagioni, come se fosse tutto vivo e attivamente partecipe della stessa
avventura.
“Avevano atteso finchè il temporale non ebbe sfogato la sua rabbia cedendo il
posto a una pioggerella che scendeva lenta, come un rimorso.”
La scrittura è visionaria nella costruzione di un "immaginario
spaziale" proverbiale nel genere, e impegnativa nella minuziosa
precisione dei dettagli. Passa con coerenza dal lirismo poetico alla sintesi
asciutta delle cronache nelle scene d'azione. Non mancano pennellate ironiche
e barocche, con qualche enfatico eccesso.
Il professor Pentaprisma: “aveva un naso che sembrava il grifo di un maiale,
gli occhi neri come bottoni paurosamente vigili, con abbastanza rughe intorno
da prendere al laccio e strangolare nella culla l’idea che potesse avere meno
di cinquant’anni.”
Scritta intorno alla fine dell'ultima guerra, l'opera apparentemente non
riflette le contrapposizioni delle ideologie dominanti del periodo, anche
perché non abbiamo armate imperiali (o imperialiste) in movimento. In realtà
si assiste ad un ampio respiro ideologico libertario, di portata non
collettiva, ma soggettiva, e quindi più istintivo e coinvolgente, che dalle
riflessioni esistenziali coeve potrebbe ricollegarsi, una ventina d’anni
dopo, alla “contestazione globale” della società.
Gormenghast ha goduto di un interesse e di un successo popolare tardivo in
patria, coronato da una "lussuosa" riduzione per la tv prodotta nel
2000 da BBC e PBS.
(Rif.: http://www.bbc.co.uk/drama/gormenghast/
http://www.pbs.org/wgbh/gormenghast/ )
La corposa prefazione di Anthony Burgess, in grado di scoraggiare il più
preparato e volonteroso dei recensori da qualsiasi velleità analitica,
interpretativa e divulgativa, consacra l'opera al ruolo di “classico
moderno”.
Condivido e apprezzo, privilegiando, fra i meriti letterari, le fantasiose e
sorprendenti invenzioni.
“Donna Cora e Donna Clarice tenevano gli occhi incollati su Ferraguzzo , con
un’espressione che faceva pensare più a un muro che guarda un uomo che a un
uomo che guarda un muro”.
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