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Le pagine più belle di Andrea Camilleri Scelte dai Soci del Camilleri Fans Club



-2) Da "Il re di Girgenti"

" Verso il primo doppopranzo del 20 giugno del 1670, mentre stava a spaccare ligna con l'accetta, Filònia, da una fitta più forte delle altre, capì che il mumentu era arrivato. La gnà Gesuina Palillo, una della truppa, matre di quattordici figli, le aveva spiegato quello che c'era da fare nell'occasioni. Non volle trasire in casa, che la teneva pulita come uno specchio, avrebbe allordato tutto. Perciò radunò tanticchia di paglia vicino al pozzo, si spogliò nuda, vi si stese sopra. Era sula: Gisuè era andato a Vigàta con l'asino, lo scecco, e aveva voluto portarsi appresso Pippìno, che ora aveva tre anni passati e dava già una mano al patre. Tutt'insemmula, a una spinta più forte, si vagnò in mezzo alle gambe, erano le acque che ora aiutavano la criatura, la sua testa, a nesciri fora. Il dolori era forte e Filònia si mise a fare voci, tanto era sola. A questo punto a lei s'avvicinò tutto l'armalume che consisteva in un cane randagio che s'era allocato in casa e che tutti chiamavano, senza fantasia, u cani, in una capra girgentana, alta e grossa, di lungo pelame marrò, con due corna di liocorno e grandi minne scure, in quattro galline bianche. Il gallo nero invece si mise a passiare nervosamente davanti e narrè. Quando finalmente la criatura niscì tutta, Filònia vide che aveva fatto un figlio màscolo, un altro doppo Pippìno, e se ne arricreò. Ah li figli màscoli, fortuna di la famiglia, ricchizza della casa! Ah petti forti, spalle larghe, vrazza nerborute, minchie per fare figli e figli! Michele era nasciuto: Il nome l'aveva stabilito con Gisuè: se era màscolo, Michele, come il patre di Filònia ( a Pippìno avevano già dato il nome del patre di Gisuè ), se disgraziatamente era fìmmina, si sarebbe chiamata Concetta, come la matre di Gisuè. Si portò il cordone all'altezza della vucca, lo tagliò di netto con una dentata, l'annodò. Quindi pigliò MIchele per li pedi, come le aveva detto di fare la gnà Gesuina, lo mise a testa sutta e gli diede una manata sulla schina. Allora capitò una cosa. Alla botta, Michele raprì gli occhi, taliò sua matre e, invece di mittirisi a piangere, come sarebbe stato di natura, arridì. Filònia dapprima non ci credetti, poi dovette farsene pirsuasa: suo figlio stava ridendo, a gola piena, come un omo granni. Stanca, la fimmina mise il piciliddro allato, sulla paglia, e allargò le vrazza per respirare meglio. Sulla mano mancusa le cadì una cosa cavuda e tonda, era un ovo che una gaddrina le stava regalanno. A occhi chiusi Filònia ci face un pirtuso con una pietra nica e se lo sucò. Poi sentì che il sole le scompariva dalla faccia. Raprì gli occhi: la capra girgentana gli si era messa supra e teneva le minne all'altezza della sua vucca. Filònia isò le mani, la mungì, e il latte cavudo cavudo le trasì dritto nella gola. Quando la capra sinni andò, vide che u cani aveva leccato il picciliddro e l'aveva puliziato tutto. Ebbe un'altra contrazione e le venne fora a mamma , la placenta. U cani se la mangiò."

Lorenzo Calamia

 

-2) Da "la prima indagine di Montalbano" e il racconto è "sette Lunedì" (l'ultima pagina del racconto)

Tornato a Marinella, non ebbe gana di lavarsi e di cangiarsi. Aviva pigliato la sua decisione. C'era un aereo che partiva alle sette e nel quale s'attrovava sempri posto. Aviva bisogno di Livia, per le dieci al massimo sarebbe stato a Boccadasse. Ma ora non aveva pititto, non aviva sonno. Andò ad assittarsi sotto la verandina. La nottata era tiepida, non c'era una nuvola. Si mise a taliare un punto del cielo che lui sapeva. Propio in quel punto, da lì a qualche ora, il principio della luce del giorno avrebbe cominciato a farsi in mezzo allo scuro.

MARCO MASTRODONATO DI SANNICANDRO G.CO (FG)

 

-1) Da "Il re di Girgenti", pag.60

"GLI COSTAVA NON ACCAREZZARE CON GLI OCCHI FILONIA, MA IL SCIAURO DI LEI GLI CONFONDEVA IL PINSERO. MASTRO GIRLANDO ERA OMO FINO.APPENA FURONO FORA, ATTACCO'."HO CAPITO PERCHE' VI STATE COMPROMETTENDO IN QUESTA FACENNA". "PIRCHI', SI VEDE?". "SI PO AMMUCCIARI U SULI?" SPIO' MASTRO GIRLANDO.(....) "LA POZZU SALUTARI A DONNA FILONIA?"DISSE DON ANETO QUANNU VENNE L'ORA D'IRISINNI. MASTRO GIRLANDO ALLARGO' LE VRAZZA.SI PUO' AMMUCCIARI U SULI?"

Margherita

 

0) Da "Il Giro di Boa", pagg.78-81

" Si era fatta l'ora di andare a mangiare. Si, ma dove? La conferma che il suo mondo aveva cominciato ad andare a scatafascio il commissario l'aviva avuta appena una misata appresso il G8, quando alla fine di una mangiata di tutto rispetto, Calogero, il proprietario-coco-cammareri della trattoria " San Calogero", gli aviva annunziato che, sia pure di malavoglia, si ritirava.

" Stai cugliunanno, Calò?"

" Nonsi, dottore: Come vossia sapi, io ho dù bipass e sittantari anni sunati. ' U medicu non voli cchiù che continuo a travagliari".

" E io?" gli era scappato di dire a Montalbano. Di colpo si era sentito infilici come un pirsunaggio dei romanzi popolari, la sedotta e abbandonata cacciata fora di casa col figlio della colpa in grembo, la piccola fiammiferaia sotto la neve, l'orfano che cerca nella munnizza qualichi cosa da mangiari....

Calogero, a risposta, aviva allargato le vrazza sconsolato. E doppo era arrivato il tirribili jorno nel quale Calogero gli aviva sussurrato:

" Dumani nun vinissi. E' chiuso".

Si erano abbrazzati quasi chiangenno. Ed era principiata la viacruci. Tra ristoranti, trattorie, osterie ne provò, nei giorni appresso, una mezza duzzina, ma non erano cosa. Non che in, cuscienza si poteva diri che cucinavano mali, il fatto era che a tutti gli mancava l'indefinibile tocco dei piatti di Calogero. Per un certo periodo, addecise di divintari casalingo e tornare a Marinella invece che in trattoria. Adelina un pasto al giorno glielo priparava, ma questo faceva nasciri un problema: se quel pasto se lo mangiava a mezzojorno, la sira doveva addubbare con tanticchia di cacio o aulive o sarde salate o salami; se viceversa se lo mangiava la sira, veniva a dire che a mezzojorno aviva addubbato con cacio,aulive,sarde salate, salami. A lungo andare, la cosa addivintava scunsulante. Si mise nuovamente a caccia. Un ristorante bono l'attrovò nei paraggi di Capo Russello. Stava proprio sulla spiaggia, le pietanze erano cosa civile e non si pagava assà. Il problema era che tra andare, mangiare e tornare ci volevano minimo minimo tri ori e lui tutto questo tempo non sempre ce l'aviva.

Quel giorno decise di provare una trattoria che gli aviva indicato Mimì.

" Tu ci hai mangiato? gli spiò sospettoso Montalbano che non nutriva nessuna stima del palato di Augello.

" Io no, ma un amico che è più camurrioso di tia me ne ha detto bene".

Datosi che la trattoria, che si chiamava " da Enzo", si trovava nella parte alta del paìsi, il commissario si rassignò a pigliari l'auto. Da fora, la sala della trattoria s'appresentava come una costruzione in lamiera ondulata, mentre la cucina doviva trovarsi dintra una casa che c'era allato. C'era un senso di provvisorio, di arrangiato, che piacque a Montalbano. Trasì, s'assittò a un tavolo libero. Un sissantino asciutto, gli occhi chiari chiari, che sorvegliava i movimenti dei dù cammareri, gli si avvicinò e gli si chiantò davanti senza rapriri vucca manco per salutarlo. Sorrideva. Montalbano lo taliò interrogativo.

" Io lo sapiva" disse l'omo.

" Che cosa?".

" Che dopo tanto firriari sarebbe vinuto qua. L'aspittavo".

" E io qua sono" fece aciutto il commisario.

Si taliarono occhi negli occhi. La sfida all'ok corral era lanciata. Enzo chiamò un cammareri:

" Apparecchia per il dottor Montalbano e stai attento alla sala. Io vado in cucina. Al commissario ci penso io pirsonalmente".

L'antipasto fatto solo di polipi alla strascicasali parse fatto di mare condensato che si squagliava appena dintra alla vucca. La pasta col nìvuro di siccia poteva battersi degnamente con quella di Calogero. E nel misto di triglie spigole e orate alla griglia il commissario ritrovò quel paradisiaco sapore che aveva temuto perso per sempre. Un motivo principiò a sonargli dintra la testa, una specie di marcia trionfale. Si stinnicciò, beato, sulla seggia. Appresso tirò un respiro funnuto. Dopo lunga e perigliosa navigazione, Ulisse finalmenti aviva attrovato la sò tanto circata Itaca."

Lorenzo
Il senso morale credo sia la cosa più significativa di queste pagine. Per quanto talvolta siamo indotti a temere che tutto ci si rivolti contro, pensare che da qualche parte c'è qualcuno che ci aspetta può aiutarci ad andare avanti senza cedere allo sconforto.
 

1) Da "Il cane di terracotta", pag. 129,130

"... Il fatto è che io mi sono addunato, col tempo, d'essere una specie di cacciatore solitario, perdonami la stronzaggine dell'espressione, che è magari sbagliata, perchè mi piace cacciare con gli altri ma voglio essere solo a organizzare la caccia. Questa è la condizione indispensabile perchè il mio ciriveddro giri nel verso giusto. Un'osservazione intelligente, fatta da un altro, m'avvilisce, mi smonta magari per una giornata intera, ed è capace che io non riesco più a seguire il filo dei miei ragionamenti. ..."

Fabio Marazzoli
L'intelligenza ...di Mimì Augello
 

1) Da "Il birraio di Preston", pag. 171

"Dopo manco cinco minuti che l’orchestra sonava e i cantanti cantavano, a mia sicuramente mi principiò una febbre àuta. U cori mi batteva forti, ora sentiva càvudo càvudo ora friddo friddo, la testa mi firriava. Didopu, come si fossi addiventato un palloneddro di acqua saponata, di quelli liggeri e trasparenti che i picciliddri fanno per jocu con una cannuzza, accominzai a volare.
Sissignura, a volari. Cillenza, mi deve crìdiri: volava! E prima m’apparse il triatro da fora, poi la piazza cu tutte le persone e l’armàla, po’ la citate intera ca mi parse nica nica, poi vitti campagni virdi, li sciumi granni do Nord, li deserti gialli ca dìcino che ci sono in Africa, poi tutto il mondo istesso vitti, una palluzza colorata come a quella che c’è dintra a l’ovo. Dopu arrivai vicino a u suli, acchianai ancora e mi trovai in paradisu, con le nuvole, l’aria fresca pittata di blu chiaro, quarche stella ancora astutata.
Poi la musica e lu cantu finero, io raprii gli occhi e vitti che dintra o triatro era arrimasto solo. Non aveva gana di nèsciri di fora, ancora dintra di mia sentiva la musica. Pigliai sonno e m’arrisbigliai, svenni e arrivenni, arrisi e chiangii, nascii e murii, sempre con quella musica che sonava dintra di mia. U jornu dopu, che ancora pativo di febbre, spiai al signor Marsan d’insignarmi a sonare il flauto, e lui lo fece. Questo è quanto, cillenza. Dopu quella jurnata io vado a sentiri musica e òpire, piglio macari il trenu e cerco, cerco sempre senza truvare mai."
"Che hosa cercate?" domandò il prefetto che senza rendersene conto si era alzato in piedi.
"Una musica, cillenza, che mi facesse provare la stessa felicità, ca mi facissi vìdiri com’è fatto u cielu."

Maddalena
 

2) Da "Il ladro di merendine", pag. 155

"Iu persi a me matri ch'era macari cchiù nicu i tia" esordi'.
E iniziarono a parlare, il commissario in siciliano e François in arabo, capendosi perfettamente.
Gli confidò cose che mai aveva detto a nessuno, manco a Livia.
Il pianto sconsolato di certe notti, con la testa sotto il cuscino perchè suo padre non lo sentisse; la disperazione mattutina quando sapeva che non c'era sua madre in cucina a preparargli la colazione o, qualche anno dopo la merendina per la scuola.
Ed è una mancanza che non viene mai più colmata, te lo porti appresso fino in punto di morte. Il bambino gli spiò se lui aveva il potere di far tornare sua madre. No, gli rispose Montalbano, quel potere non l'aveva nessuno. Doveva rassegnarsi. Ma tu avevi tuo padre, osservò François che era intelligente davvero e non per vanto di Livia. Già, avevo mio padre. E allora spiò il picciriddro, lui era inevitabilmente destinato ad andare a finire in uno di quei posti dove mettono i bambini che non hanno nè padre nè madre?
"Questo no. Te lo prometto" disse il commissario. E gli porse la mano. François glie la strinse, taliandolo negli occhi.

Antonino "u Mastru"
 

3) Da "La gita a Tindari", pagg. 9/14

Che fosse vigliante, se ne faceva capace dal fatto che la testa gli funzionava secondo logica e non seguendo l’assurdo labirinto del sogno, che sentiva il regolare sciabordìo del mare, che un venticello di prim’alba trasìva dalla finestra spalancata. Ma continuava ostinatamente a tenere gli occhi inserrati, sapeva che tutto il malumore che lo maceriava dintra sarebbe sbommicato di fora appena aperti gli occhi, facendogli fare o dire minchiate delle quali doppo avrebbe dovuto pentirsi. Gli arrivò la friscatina di uno che caminava sulla spiaggia. A quell’ora, certamente qualcuno che andava per travaglio a Vigàta. Il motivo friscato gli era cognito, ma non ne ricordava né il titolo né le parole. Del resto, che importanza aveva? Non era mai riuscito a friscare, manco infilandosi un dito in culo. "Si mise un dito in culo/e trasse un fischio acuto/segnale convenuto /delle guardie di città"… Era una fesseria che un amico milanese della scuola di polizia qualche volta gli aveva canticchiato e che gli era rimasta impressa. E per questa sua incapacità di friscare, alle elementari era stato la vittima prediletta dei suoi compagnucci di scuola che erano maestri nell’arte di friscare alla pecorara, alla marinara, alla montanara, aggiungendovi estrose variazioni. I compagni! Ecco che cosa gli aveva procurato la mala nottata! Il ricordo dei compagni e la notizia letta sul giornale, poco prima d’andare a corcarsi, che il dottor Carlo Militello, non ancora cinquantino, era stato nominato Presidente della seconda più importante banca dell’isola. Il giornale formulava i più sentiti auguri al neo Presidente, del quale stampava la fotografia: occhiali certamente d’oro, vestito griffato, camicia inappuntabile, cravatta finissima. Un uomo arrivato, un uomo d’ordine, difensore dei grandi Valori (tanto quelli della Borsa quanto quelli della Famiglia, della Patria, della Libertà). Se lo ricordava bene, Montalbano, questo suo compagnuccio non delle elementari, ma del ’68!
"Impiccheremo i nemici del popolo con le loro cravatte!".
"Le banche servono solo a essere svaligiate!".
Carlo Militello, soprannominato "Carlo Martello", in primisi per i suoi atteggiamenti di capo supremo e in secundisi perché contro gli avversari adoperava parole come martellate e cazzotti peggio delle martellate. Il più intransigente, il più inflessibile, che al suo confronto il tanto invocato nei cortei Ho Chi Min sarebbe parso un riformista socialdemocratico. Aveva obbligato tutti a non fumare sigarette per non arricchire il Monopolio di Stato, spinelli e canne sì, a volontà. Sosteneva che in un solo momento della sua vita il compagno Stalin aveva agito bene: quando si era messo a rapinare banche per finanziare il partito. "Stato" era una parola che dava a tutti il malostare, li faceva arraggiare come tori davanti allo straccio rosso.
Di quei giorni Montalbano ricordava soprattutto una poesia di Pasolini che difendeva la polizia contro gli studenti a Valle Giulia, a Roma. Tutti i suoi compagni avevano sputato su quei versi, lui aveva tentato di difenderli: "Però è una bella poesia". A momenti Carlo Martello, se non lo tenevano, gli scassava la faccia con uno dei suoi micidiali cazzotti. Perché allora quella poesia non gli dispiacque? Vedeva in essa già segnato il suo destino di sbirro? Ad ogni modo, nel corso degli anni, aveva visto i suoi compagni, quelli mitici del ’68, principiare a "ragionare". E ragionando ragionando, gli astratti furori si erano ammosciati e quindi stracangiati in concrete acquiescenze. E adesso, fatta eccezione per qualcuno che con straordinaria dignità sopportava da oltre un decennio processi e carcere per un delitto palesemente non commesso né ordinato, fatta eccezione ancora per un altro oscuramente ammazzato, i rimanenti si erano tutti piazzati benissimo, saltabeccando da sinistra a destra, poi ancora a sinistra, poi ancora a destra, e c’era chi dirigeva un giornale, chi una televisione, chi era diventato un grosso manager di Stato, chi deputato o senatore. Visto che non erano arrinisciuti a cangiare la società, avevano cangiato sé stessi. Oppure non avevano manco avuto bisogno di cangiare, perché nel ’69 avevano solamente fatto teatro, indossano costumi e maschere di rivoluzionari. La nomina di Carlo ex Martello non gli era proprio calata. Soprattutto perché gli aveva provocato un altro pinséro e questo certamente il più fastidioso di tutti.
"Non sei macari tu della stessa risma di questi che stai criticando? Non servi quello Stato che ferocemente combattevi a 18 anni? O ti fa lastimiare l’invidia, dato che sei pagato quattro soldi e gli altri invece si fanno i miliardi?".
Per un colpo di vento, la persiana sbatacchiò. No, non l’avrebbe chiusa manco con l’ordine del Padreterno. C’era la camurrìa Fazio: "Dottore, mi perdonasse, ma lei se le va proprio a cercare! Non solo abita in una villetta isolata e a pianoterra, macari aperta la finestra di notte! Accussì, se c’è qualchiduno che ci vuole mali, e c’è, è libero di trasiri nella sua casa quando e come vuole!".
C’era l’altra camurrìa che si chiamava Livia: "No, Salvo, di notte la finestra aperta, no!"
"Ma tu, a Boccadasse, non dormi con la finestra aperta?"
"Che c’entra? Abito al terzo piano, intanto, e poi a Boccadasse non ci sono i ladri che ci sono qua""
E così, quando una notte Livia, sconvolta, gli aveva telefonato dicendogli che, mentre era fuori, i ladri a Boccadasse le avevano svaligiato la casa, egli, dopo aver rivolto un muto ringraziamento ai ladri genovesi, era riuscito a mostrarsi dispiaciuto, ma non quanto avrebbe dovuto.
Il telefono principiò a squillare.
La sua prima reazione fu di inserrare ancora di più gli occhi, ma non funzionò, è notorio che la vista non è l’udito. Avrebbe dovuto tapparsi le orecchie, ma preferì infilare la testa sotto il cuscino.
Niente: debole, lontano, lo squillo insisteva. Si susì santiando, andò nell’altra càmmara, sollevò il ricevitore.
"Montalbano sono. Dovrei dire pronto, ma non lo dico. Sinceramente, non mi sento pronto".
All’altro capo ci fu un lungo silenzio. Poi arrivò il suono del telefono abbassato. E ora che aveva avuto quella bella alzata d’ingegno, che fare? Rimettersi corcato continuando a pinsàre al neo Presidente dell’Interbanco che, quando era ancora il compagno Martello, aveva pubblicamente cacato su una guantiera piena di biglietti da diecimila? O mettersi il costume e farsi una bella nuotata nell’acqua ghiazzata? Optò per la seconda soluzione, forse il bagno l’avrebbe aiutato a sbollire. Trasì in acqua e lo pigliò una mezza paralisi. Lo voleva capire sì o no che forse, a quasi cinquant’anni, non era più cosa? Non era più tempo di queste spirtizze. Tornò mestamente verso casa e già da una decina di metri di distanza sentì lo squillo del telefono. L’unica era accettare le cose come stavano. E, tanto per principiare, rispondere a quella chiamata.
Era Fazio.
"Levami una curiosità. Sei stato tu a telefonarmi un quarto d’ora fa? ".
"Nonsi, dottore. Fu Catarella. Ma disse che lei ci aveva risposto che non era pronto. Allora ho lasciato passare tanticchia di tempo e ho richiamato io. Pronto si sente ora, dottore?".
"Fazio, come fai a essere tanto spiritoso di primo matino? Sei in ufficio?".
"Nonsi, dottore. Hanno ammazzato a uno. Zìppete!".
"Che viene a dire, zìppete?".
"Che gli hanno sparato".
"No, Un colpo di pistola fa bang, uno di lupara fa wang, una raffica di mitra fa ratatatatatà, una coltellata fa swiss".
"Bang fu, dottore. Un colpo solo. In faccia".
"Dove sei?".
"Sul luogo del delitto. Si dice accussì? Via Cavour 44. Lo sa dov’è?".
"Sì, lo so. L’hanno sparato in casa?".
"Ci stava tornando, a casa. Aveva appena infilata la chiave nel portone. E’ restato sul marciapiede".
Si può dire che l’ammazzatina di una pirsona càpita al momento giusto? No, mai: una morte è sempre una morte. Però il fatto concreto e innegabile era che Montalbano, mentre guidava alla volta di via Cavour 44, sentiva che il malo umore gli stava passando. Buttarsi dintra a un’indagine gli sarebbe servito per levarsi dalla testa i pinsèri tinti che aveva avuto nell’arrisbigliarsi.

Piero "u Mutanghero"
 

4) Da "Il ladro di merendine", pagg. 244/245

"Suo padre è allo stremo se vuole vederlo ancora vivo non perda tempo.
Prestifilippo Arcangelo".
Quelle parole se l'aspettava, ma quando le lesse torno' il dolore, sordo, come quando aveva saputo, aggravato dall'angoscia per quello che era dovere suo di fare, chinarsi sul letto, baciare la fronte di suo padre, sentire il suo alito secco di morente, taliarlo negli occhi, dirgli qualche parola di conforto. Ne avrebbe avuto la forza? In un bagno di sudore, pensò che questa era la prova inevitabile, se era davvero necessario che crescesse, come gli aveva detto il professor Pintacuda.
"Insegnerò a Francois a non avere paura della mia morte" pensò. E da quel pensiero che lo stupì per il fatto stesso d'averlo potuto pensare, trasse una provvisoria serenità.
...
Trasì il professore, un cinquantino serio serio in càmmisi bianco. Gli porse la mano.
"Signor Montalbano? Mi spiace, veramente, di doverle dire che suo padre è deceduto serenamente due ore fa".
"Grazie" disse Montalbano.
Il professore lo taliò, un poco strammato. Ma il commissario non stava ringraziando lui.

Nicola "u Professù"
Perchè descrive una situazione psicologica e dei sentimenti, che unici tra i tanti, pur poetici, suscitano in me una difficile condizione di immedesimazione ineluttabile.
 

5) Da "Un filo di fumo", pag. 66 e segg.

"Quanti siamo in paese? " si era un giorno domandato il barone Raccuglia mentre parlava con l'ingegnere Lemonnier, e prima che l'altro avesse avuto il tempo d'aprire bocca, aveva da sé già pronta la risposta: "Otto o nove famiglie nostre e una trentina di famiglie borgise, Sì e no trecento persone".
"Ma se il paese conta novemila anime!" aveva ribattuto Lemonnier.
"Conta? Che conta? si era seriamente meravigliato il barone. "Il resto non conta, egregio amico".
....
(segue la descrizione delle condizioni disumane dei lavoratori di Vigàta):
...Son vecchi, giovani, anche ragazzi curvi sotto il gravame che portano sulle spalle. Il primo si appressa agli alzatori da cui ricevere il carico: su la prima coffa, la seconda, la terza e via di corsa. ....
...per tutto il giorno, come spole, dalla stadera o dal carro alla barca e viceversa, senza un lamento mai, incuorandosi, spingendosi, celiando magari.
Non "consono alla dignità dell'uomo", dunque. E chi faceva cosa non degna per l'uomo agli occhi del barone Raccuglia uomo non era e non poteva mai essere: magari perchè il professor Marullo aveva omesso di dire che la coffa, anzi le due o tre coffe che ogni spallone portava, per il caldo e il sudore faceva nel punto d'appoggio tra collo e spalla una piaga aperta a carne viva che ributtava sangue ad ogni carico nuovo.
"Ma non mi faccia quella faccia" aveva detto il barone Raccuglia ...."Loro non s'impressionano per quel poco di sangue, sa? Anzi sono contenti".
"Contenti?"
"E già. Perchè significa che hanno lavoro. Quando sono disoccupati usano infatti dire: mi si sanò la piaga".
"Capisco".
"E poi non c'è pericolo, sa? Lo zolfo e l'acqua di mare: due disinfettanti come non ce ne sono altri".

Nicola "'u Professu'"
Per lo spaccato, crudo, quasi giornalistico ma efficace, sulle condizioni dei lavoratori nella Vigàta di ieri. Ma siamo sicuri che in questa nostra epoca , di globalizzazione e new-economy, non ci siano più dei "baroni Raccuglia" e dei novelli"spalloni"? Stiamo in guardia!
 

6) Da "La concessione del telefono", pagg. 95/96

Pippo amori mio adoratto,
gioia di chisto cori Pipuzzo adoratto ca ti penzo che è notti o che è iorno e ti penzo macari che è il iorno ca viene appresso e doppo quelo ca viene appresso ancora tu manco lo puoi capiscire quando mi manchi Pipuzzo adoratto in ongi hora che dico ongi hora in ongi minutto ca pasa della iornata ca non ti pozzo abbrazzare forti forti e sintìre le to' labbra di a sopra le mie le cose Pipuzzo mio che ti sono accapitate che sei andato a finnire nello càrzaro collo sdilinguenti mi hano fatto venire la febbri che mi spuntarono le machie sulla faccia e stavo dispirata pirchì non ci capivo nenti di quelo che assucedeva trimavo tutta mi pareva di nesciri pazza la notti il letto mi pareva addiventato di foco non pighiavo sonno doppo seppi che ti era smorcata la febbri per tutte le cose che patisti nuccenti como a Christo e accossì non ci siamo potuti avvedere e adora Pipuzzo anima mia quanno è che ci pozziamo nuovamente avvidere per passare qualche orata abbrazzati stritti stritti qualche ora di filicità pirchì che tu devi assapire Pipuzzo adoratto che la vita mia senza di tia è como notti senza luna iorno senza soli pirchì ci sono nottate che mi vengono spaventoso quanno che a lui ci piglia il firticchio che mi vuoli cercare vuole fari le cose con mia che sono mogliere sua ci vene il desidderio ma datosi che è tropo vecio non ce la fa e adora mi piglia e mi fa fare cose che mi vrigogno cose vastase che manco una butanna inzomma cose accussì che manco mi sento di dire che però ci arrinescio a fare pinzando che allo posto suo ci sei tu Pipuzzo adorrato alora tuto mi addiventa squasi facile e arrinescio a daricci tutta la sondisfazzione che mi cerca Pippo chista è la vita mia spero che arrinesci ad havere questo bighlietto di mia che ti dicce che ti penzo e spero di combbinare prima che pozzo d'arriverderci col solito sistema penzami che come ti penzo io in oghni minutto vasate vasate vasate vasate vasa...

Salvia
 

7) Da "Un mese con Montalbano", racconto "Being here", pagg. 193/194

...."...A questo punto il vecchio professore sorrise. Un sorriso tale che a Montalbano sembrò che il cielo si fosse scurato e che una mano a pugno gli avesse agguantato il cuore.." Che brutta storia, commissario. Brutta letterariamente, intendo, a metà strada tra il drammone alla Giacometti, quello della morte civile, e certe situazioni pirandelliane. Perché sono voluto venire qua, dice? Sono venuto d'impulso. Qua, a conti fatti, ho passato il meglio della mia esistenza, il meglio, sì, e solo perchè non avevo ancora la cognizione del dolore. Non è poco, sa? Nella mia solitudine di Chicago, Vigàta ha cominciato a brillare come una stella. Ma già appena messo piede in paese, l'illusione è svanita. Era un miraggio. Dei vecchi compagni di scuola non ne ho trovato uno, nemmeno la casa dove ho abitato esiste più, ora c'è un palazzone di dieci piani. E le tre stazioni si sono ridotte a una sola con poco o niente traffico. Poi ho scoperto che figuravo nella lapide dei caduti. Sono andato all'anagrafe. C'è stato evidentemente un errore da parte del comando militare. Mi hanno dato per morto..."
"Mi scusi la domanda, ma lei, a leggere il suo nome, che ha provato?"
Il vecchio ci pensò sopra tanticchia.
"Rimpianto" disse poi a bassa voce.
"Di che?"
"Che le cose non siano andate come c'è scritto sulla lapide. Invece ho dovuto vivere."

Ravaduka
...grandioso e straziante
 

8) Da "La strage dimenticata", pagg. 60/62

Di quei centoquattordici morti bastò poco tempo perché in paese non se ne parlasse più. Oggetti di pena, erano - allorché uno se ne ricordava - come quegli arnesi sformati dall'uso che, quando si ritrovano coperti di polvere nel tettomorto, non si riesce più a capire a che cosa, una volta, potessero servire.
Per questo, nei giorni in cui l'Europa tremò di sdegno (ma come era pronta, questa Europa, e sensibile!) per la scanna degli sbirri perpetrata dai siciliani e quando si mise a fare voci perché, il 3 febbraio, alcuni palermitani si erano impadroniti di trentacinque sbirri feriti fucilandoli alla periferia della città, manco un'anima si fece avanti a contare che nella Torre della Borgata Molo erano state ammazzate, da un maggiore borbonico, centoquattordici persone.
Perché il nodo stava tutto qui: persone quei galeotti in tutta coscienza non potevano dirsi e dunque - dato che il più carnetta e carogna degli sbirri era pur sempre un essere umano - il conto non poteva in nessun modo pareggiare, era come voler dare un fischietto e avere la pretesa di farsi regalare, in cambio, un pianoforte. Non fu certo orgogliosa e dignitosa volontà di non speculare sui morti: la verità è che c'erano morti di buon peso e altri di peso scarso assai.
E questa è una verità che ancora oggi, e a proposito di quei morti freschi di giornata che radio e televisione ci portano come dessert a pranzo e a cena, è assai difficile a dire e difficilissimo poi a fare accettare. "Voi morti non siete tutti uguali", dice a un certo momento Ettore in quella splendida commedia di Jean Giraudoux intitolata "La guerra di Troia non si farà" (battuta che il regime gaullista puntualmente censurava, secondo quanto mi contò il figlio del commediografo).
Quei centoquattordici non erano certamente "uguali": così non entrarono nella cronaca perché non ne avevano diritto, tutti i diritti se li erano persi il giorno in cui, mettendo piede nel bagno penale, erano diventati "servi di pena". E non entrando nella cronaca, furono di conseguenza scordati dalla Storia. Solo la loro pena furono costretti a servire fino alla morte, fino alla privazione della loro stessa morte e ancora oltre, fino a patire una seconda strage, questa volta non più dei corpi ma della memoria.

dicembre 1982 - gennaio 1983

Cristina "a Musicante"
 

9) Da "La gita a Tindari" pagg. 97/99

C'era, proprio a mezza strata tra i due paìsi, un viottolo di campagna, ammucciato darrè a un cartellone pubblicitario, che portava a una casuzza rustica sdirrupata, allato aveva un enorme ulivo saraceno che la sua para di centinara d'anni sicuramente li teneva. Pareva un àrbolo finto, di teatro, nisciùto dalla fantasia di un Gustavo Doré, una possibile illustrazione per l'Inferno dantesco. I rami più bassi strisciavano e si contorcevano terra terra, rami che, per quanto tentassero, non ce la facevano a isarsi verso il cielo e che a un certo punto del loro avanzare la ripinsavano e decidevano di tornare narré verso il tronco facendo una specie di curva a gomito o, in certi casi, un vero e proprio nodo. Poco doppo però cangiavano idea e tornavano indietro, come scantati alla vista del tronco potente, ma spirtusato, abbrusciato, arrugato dagli anni. E nel tornare narrè, i rami seguivano una direzione diversa dalla precedente. Erano in tutto simili a scorsoni, pitoni, boa, anaconda di colpo metamorfosizzati in rami d'ulivo. Parevano disperarsi, addannarsi per quella magarìa che li aveva congelati, "canditi", avrebbe detto Montale, in un'eternità di tragica fuga impossibile. I rami mezzani, toccata sì e no una metrata di lunghezza, di subito venivano pigliati dal dubbio se dirigersi verso l'alto o se puntare alla terra per ricongiungersi con le radici.
Montalbano, quando non aveva gana d'aria di mare, sostituiva la passiata lungo il braccio del molo di levante con la visita all'arbolo d'ulivo. Assittato a cavasè sopra uno dei rami bassi, s'addrumava una sigaretta e principiava a ragionare sulle facenne da risolvere.
Aveva scoperto che, in qualche misterioso modo, l'intricarsi, l'avvilupparsi, il contorcersi, il sovrapporsi, il labirinto insomma della ramature, rispecchiava quasi mimeticamente quello che succedeva dintra alla sua testa, l'intreccio delle ipotesi, l'accavallarisi dei ragionamenti. ...
Isando gli occhi e la testa per far calare meglio la prima tirata di fumo, il commissario s'addunò di un braccio dell'ulivo che faceva un cammino impossibile, spigoli, curve strette, balzi avanti e narrè, in un punto pareva addirittura un vecchio termosifone a tre elementi.
"No, non mi freghi" gli murmuriò Montalbano respingendo l'invito. Ancora non c'era bisogno di acrobazie, per ora bastavano i fatti, solamente i fatti.

Virginia
Sempre sull'ulivo si possono leggere anche le pagine 203-205.
 

10) Da "Il corso delle cose", pagg. 115/121

All'una in punto le porte si aprirono e il santo uscì. Nel 1946, durante la prima domenica di settembre -la festa di San Calogero cadeva sempre quel giorno- per poco a S.E. Rev.ma Rufino mons. Luigi non era venuta una sincope. Sbattuto da pochi mesi ad Agrigento dalla natia e ormai a lui lontanissima Alessandria - pare che il suo cuore paterno avesse un po' troppo palpitato d'affetto per le brigate nere durante la repubblica di Salò: queste, dicevano le malelingue, le cause del trasferimento - aveva trovato qualche intoppo nell'esercizio del suo dovere di pastore d'anime. Dopo gli anni di privazione per colpa della guerra, la gente era troppo occupata a soddisfare il corpo per fare mente locale all'anima. Inoltre il bandito Giuliano faceva più danno della grandine; bande armate di separatisti scarrozzavano per strade e trazzere; gli americani aumentavano la confusione persuadendo contadini e pastori e pescatori a entrare nella chiesa evangelica, dove si fumavano Camel a volontà e si aveva diritto a due pacchi di viveri al giorno; la lotta politica si accendeva nel vero senso del termine, in quanto le vampate della lupara e gli incendi dei raccolti bruciati per vendetta illuminavano regolarmente i contrasti di idee. Ma la cosa che aveva dato il colpo di grazia a S. E. era stato l'assistere alla festa.
- Questo è un rito pagano! - aveva ad un certo momento gridato al parroco che si era sentito aggelare.
Sinceramente, però, non gli si poteva dare torto. Appena spalancate le porte della chiesa, mentre scoppiavano i mortaretti - una maschiata sapientemente condita per l'occasione con residuati di guerra - la vara era stata messa in bilico sul primo scalone da dodici scaricatori del porto e quindi, con una concorde spinta, fatta scivolare lungo i quindici gradini fino alla piazza dove, a bloccare il santo che pericolosamente barcollava, c'erano altri dodici scaricatori, tutti a piedi nudi, i fazzoletti variopinti annodati dietro la nuca, le camicie sbottonate fino al bellìco, un ampia fascia colorata a reggere i pantaloni. Alla comparsa dei santo un urlo si era levato dalla folla - e chi ficimu? Nu scurdamu? Ebbiva San Calò! - che alle orecchie di S. E. dovette suonare terrorizzante nella sua incomprensibilità e nel suo furore come il grido di guerra dei turchi ai primi crociati, quindi i quindici tamburinari scelti, nella stessa tenuta degli scaricatori, attaccarono di gran gana.
Quando la vara era stata fermata dopo aver minacciato di sfondare le vetrate del caffè di Masino, decine di persone urlanti vi si erano contemporaneamente precipitate sopra, iniziando brevi ma furibonde litigate. Erano corsi i carabinieri a portare ordine, a stabilire turni. Si erano formati così diversi gruppi familiari che, aspettando di salire sulla vara, si scambiavano malocchiate e gastime; una volta raggiunto il posto desiderato, si mettevano in posa i bambini accucciati ai piedi del santo, il capofamiglia da un lato, il braccio amichevolmente messo attorno alle spalle della statua, la moglie con la borsetta fra le mani dall'altro. Mentre il fotografo col treppiedi scattava, i membri della famiglia ritrattata chiedevano la grazia e dicevano all'orecchio del santo la promessa: ma questo non se ne dava conto, gli occhi sul libro rosso che teneva aperto nella destra, la mano sinistra stretta attorno a un nodoso bastone, la testa non alzava mai, non dava confidenza. Finite le fotografie, i portatori avevano sollevato senza sforzo la pesantissima vara e caricatasela sulle spalle avevano pigliato il fuiuto. Il santo - si sapeva - sempre di prescia camminava, sempre tante cose da fare aveva. Avanti si erano messi i preti, le tonache al vento, obbligati a tenere quel passo di bersagliere, dietro venivano i tamburinari scatenati e dietro ancora i fedeli. Dai balconi parati con le coperte ricamate, quelle della dote, pioveva giù il pane tagliato a fette, una foresta di mani - i poveri correvano a centinaia dai paesi vicini - nasceva e scompariva ad ogni gettata, una vociata di ringraziamento rintronava. Ogni tanto un suono di campanella avvertiva i portatori che c'era da ricevere un'offerta particolare, il santo si fermava a malapena, data la rincorsa gli scaricatori facevano come i cavalli in discesa, il corpo indietro e le gambe avanti, sulla strada scendeva il graziato e appuntava la promessa in biglietti di banca ai lunghi nastri rossi e azzurri che pendevano dalle braccia della statua. Quando i nastri erano tutti pieni come la carta moschicida in un palmento, uno del comitato prendeva un sacco e vi stipava dentro i soldi. I proprietari delle taverne erano tenuti a non chiudere bottega - una volta che Pietro Savio ci aveva tentato, con le aste della vara a catapulta gli avevano fatto saltare la porta - se i portatori si decidevano a fermarsi, toccava loro vino a volontà, gratis, e un bicchiere spettava di diritto al santo: dopo tre o quattro fermate, a furia di spalmargli gocce di vino sulle labbra finiva che dalla bocca di San Calogero cominciava a colare un filo rosso. Col vino che gli usciva dalla bocca e il passo barcollante dei portatori, verso le cinque del doppopranzo cominciava a parere un ubriaco che non reggeva il carico. A volte uno dei portatori, oppure uno della folla, ispirato, faceva voci che il santo sentiva caldo, non lo vedevano che sudava tutto? Bisognava allora asciugarlo: si fermavano, calavano la vara, tiravano fuori un fazzolettone a pallini, glielo passavano con forza sulla faccia. Quel giorno S. E., che si sentiva veramente pigliato dai turchi, si accorse che uno dei portatori, il più acceso di fede, stava asciugando la faccia del santo con un gatto vivo, agguantato mentre se ne stava sul davanzale di una finestra bassa, un gatto che miagolava e graffiava.
Intanto, mentre la processione lasciava le vie del centro, dove abitavano le persone civili, per andare verso i vicoli di periferia - sempre a passo di carica, dopo ore e ore di faticata, e ancora le madri dovevano scansare i figli piccoli per non farli travolgere - il santo cominciava a fare le sue spettacolose acrobazie per entrare in certe stradette strettissime, si metteva di traverso, di tre quarti, sottosopra, ma comunque finiva per passare dove c'era qualche malato che ne aspettava con ansia l'arrivata. E via via che la vara penetrava verso le strade dei poveri - chiamate per disperazione dagli stessi abitanti con nomi dolcissimi, vicolo del miele, salita dello zucchero, piazzetta del paradiso, - si appesantiva di grappoli di bambini, bambini sordomuti, bambini rognosi, bambini con gli occhi pisciati, bambini con la guàllara. Ma le già forti sofferenze di S. E. erano destinate, verso sera, ad aumentare. Un reparto di soldati negri, che gli americani avevano lasciato a guardia non si sa di che cosa, appena in libera uscita tutt'insieme si fecero largo nella processione. A vedere un santo con lo stesso colore della loro pelle, i negri impazzirono di colpo. Tre tirarono fuori il mitra e si misero a correre davanti ai preti sparando in aria, uno si mise a suonare la tromba che pareva Armstrong, quattro o cinque, a modo loro, i tamburi, gli altri pigliarono a fare fantasia, ballando e cantando, dopo avere coperto i nastri di dollari. A un certo momento domandarono macari di poter portare la vara, e gli scaricatori non si fecero pregare, forse perché il dispiacere di dover tanticchia lasciare il santo venne prontamente compensato con buona moneta degli stati. Quando i portatori, momentaneamente liberi, si strinsero attorno a S. E., acclamandolo, questi si accorse, con terrore, che tutti indistintamente portavano appuntato sulla camicia grigia di sudore il distintivo del partito comunista. Poi ci fu lo scandalo finale. Al tramonto, al momento di rientrare in chiesa per la solenne funzione serale, S. E., che aspettava l'arrivata in piedi davanti alle porte, vide con stupore la processione fare tutt'insieme dietro front e sparire dietro l'angolo. Il parroco, che durante quel pomeriggio, sotto le occhiate di S. E., era invecchiato a vista, tentò di spiegargli che evidentemente il santo non se la sentiva di tornare in chiesa, che tanto usciva una volta all'anno, e si vede che gli era venuto desiderio di fare un altro giretto sul molo. Del resto quello era un fatto non tradizionale, per amor del cielo!, ma che di tanto in tanto succedeva. S. E., fuori dalla grazia di Dio, prese a chiamare con tutto il suo fiato i carabinieri e questi, con le buone e con le cattive, riuscirono a convincere il santo a tornarsene in chiesa. Il giorno dopo S. E. fece sapere che da quel momento in poi i comunisti non avrebbero più dovuto portare la vara, che il pane non doveva più essere buttato dai balconi, che le offerte in denaro era meglio consegnarle personalmente al parroco e che appena vedeva che qualcuno faceva bere un goccio di vino a San Calogero faceva scomunicare l'intero paese. Fu così che cominciò la lunga guerra fra i fedeli di San Calogero e S. E. Rufino. E macari quando questo finì col ripensarci, dopo qualche tempo, sugli usi e i costumi dei siciliani, proclamando soprattutto a destra e a manca che la mafia era una maligna invenzione dei giornali del nord, su di una cosa non volle sentire ragioni e cioè che un santo, in quanto tale, fosse oggetto di costumanze tanto pagane. Si raggiunse però un accordo: il santo, prima di essere fatto volare dai gradini, veniva dai preti declassato a comune mortale, gli levavano la spera dalla testa e non lo accompagnavano per il paese. La vera processione, quella riconosciuta dal vescovo, avveniva la sera, quando, di ritorno dai suoi ultimi giretti sul molo, al santo veniva di nuovo messa in testa la spera: ma la voce popolare diceva che di quella processione serale, tanto composta, con dietro solo qualche vecchio e le signore civili, San Calogero si stufava fino alle lagrime.

Filippo "u Presidenti"
 

11) Da "Un filo di fumo", pagg. 20/25

"Ditemi subito cosa è successo!" fece l'ingegner Lemonnier, torinese sì ma uomo abile e pronto e nella sua materia, la miniera, un dio, che nei due anni di permanenza a Vigàta aveva imparato a capire qualche cosa dei siciliani. Non erano le parole che dicevano, non erano i gesti che facevano, s'era persuaso l'ingegnere: bisognava invece stare attenti a come dicevano quelle parole, a come facevano quei gesti. Sfumature, increspature, impercettibili mutamenti di ritmo e di intonazione: erano queste le cose che contavano. L'aveva cominciato a capire già tre mesi dopo il suo arrivo in Sicilia quando si era dovuto recare a Palermo col commendator Madonìa, eccellente persona. Da qualche tempo il giornale "La voce dell'Isola" stampava notizie non troppo allegre circa la salute di Papa Leone XIII, stremato - dicevano i giornalisti - dall'aver portato a compimento l'enciclica Immortale Dei, sulla costituzione cristiana degli stati, e dall'averne iniziata un'altra, Christianum, nientedimeno che sull'emancipazione degli schiavi. Ebbene, quel giorno stavano attraversando i Quattro Canti di Città e il commendator Madonìa teneva l'occhio sulla notizia che stavolta portava rassicuranti parole sulla salute dell'eccelso personaggio, quando un signore ben vestito, di una certa età, si era avvicinato cerimoniosamente al commendatore e, evidentemente timoroso di disturbare, aveva domandato con voce piana:
"Scusi, mi sa dire come sta il Papa?"
Pur senza avere in quel momento nessun punto di contatto fisico col commendatore, egli aveva sentito i muscoli di quest'ultimo guizzare e quindi irrigidirsi, tutto il sistema nervoso dell'altro vibrare come per una rapida scossa. Stava rispondendo lui che il Papa, ringraziando Dio, stava un pochino meglio, visto che il commendator Madonìa stranamente pareva aver perduto la voce, quando il suo compagno - ma era lui o un altro? - di colpo cangiato per magìa, scordate la gentilezza, la cortesia, la compostezza che gli erano abituali, aveva risposto rabbioso alla faccia che il signore teneva un poco inclinata in avanti, gli occhi che esprimevano solo una deferente attesa, la bocca che pareva già pronta a civilmente ringraziare:
"Ma non mi scassi la minchia! "
E bruscamente aveva strattonato per un braccio il paralizzato Lemonnier. Il giorno dopo, tornato a Vigàta e narrando lo strano caso, un pietoso ascoltatore gli aveva spiegato che il commendator Madonìa era un fervente papalino il quale dal Non expedit in poi si rifiutava di votare e che quindi il signore di Palermo doveva in qualche modo conoscerlo. E così aveva avuto modo di capire quale carica d'ironia, anzi di feroce sarcasmo, c'era in quella che a lui era parsa un'innocentissima richiesta d'informazione. Una volta un amico gli aveva raccontato che i cinesi non dicevano mai di no, rispondevano sempre di sì a qualsiasi domanda: bisognava perciò capire quando quel sì era sì oppure era no. Solo che qui la questione subito si era presentata un pochino più complicata che coi cinesi. Aveva osservato che certi giorni gli operai della miniera che era stato mandato a dirige re erano, come dicevano loro, "sciroccati", si muovevano come appesantiti, ma era un niente, ci voleva un occhio esercitatissimo per accorgersene, e allora era sicuro che comunque una qualche grana sarebbe scoppiata in giornata. Altre volte invece si muovevano con elegante scioltezza, addirittura con una sorta di felicità che si rifletteva persino in una specie di schiarimento della pelle del volto: era certo in quel caso d'apprendere qualcosa di piacevole, che poteva magari essere la celebrazione di un matrimonio, la nascita di un bambino. Entrando dunque al Circolo dei Nobili per parlare col marchese Simone Curtò di Baucina di una faccenda della miniera, aveva sentito sulla pelle come una ventata, uno spiffero fresco. Ecco, era esattamente questa la sensazione che l'aveva spinto a chiedere:
"Ditemi subito cosa è successo!"
"S'è fottuto Romeres! " rispose Padre Imbornone, sulla cui faccia di cassata, come un anonimo aveva scritto in un volantino distribuito in piazza qualche tempo prima, si specchiava tutt'intera la dissolutezza, perche mai uomo fuvvi così brutale nei piaceri sensuali pei quali profonde il denaro ma che ora come ora rifletteva solo gioia maligna nel brillìo degli occhietti porcigni. "Perdonino, ma chi è questo Romeres?" domandò. Ne conosceva uno, picconiere, sempre in un fondo di miniera, padre di sette figli, che già aveva sputato metà dei polmoni, e gli parve perciò strano che tanti nobiluomini se la godessero perché un poveraccio così s'era definitivamente fottuto.
"Ah, già, è vero, lei lo conosce come Salvatore Barbabianca" spiegò don Agostino Fiandaca.
"Perché, Barbabianca non si chiama così?"
"Lei non è di qua" premise Padre Imbornone. "Deve dunque sapere che "barbabianca" era un soprannome, una 'ngiuria che era stata data a Romeres cinquant'anni fa, quando si trasferì a Vigàta se la fotte lui da dove. Faceva il vasaio, fabbricava bùmmuli - tra l'altro erano tutti crudi e tenevano l'acqua, rispetto parlando, calda come pisciazza - e di conseguenza la barba sempre aveva lorda di creta e bianco gesso. Ecco l'origine della 'ngiuria ".
" E da povero vasaio è riuscito a diventare questa potenza?" domandò stupito.
" Sissignore ".
"Un vero e proprio self-made-man".
"Un vero e proprio fotte-made-man" corresse Padre Imbornone, tanto per parlare spartano come aveva abitudine, e seguitò:
"E’ un uomo che da noi ha fatto più danno d'una fera, ed era giusto. Perché Barbabianca è la schiuma di questa nuova società che insegna a non aver rispetto di nessuno".
"E ci siamo con la solita musica! " intervenne il marchese Curtò di Baucina che fino a quel momento aveva fatto scena muta.
"Si lasci pregare, caro marchese, da uno che la sa più lunga di lei, con tutto il rispetto che le è dovuto. Bababianca è una merda che ha galleggiato su tutto il fogname delle idee che ci hanno poi regalato l'unità: prima liberale antiborbonico, poi spia dei garibaldini, poi iscritto alla società massonica... "
"E` sempre stato coerente" interruppe intestato il marchese.
"Allora lo sa a che cosa lo porterà questa sua coerenza, come la chiama lei?" fece Padre Imbornone pigliando fuoco come uno zolfanello. "Che se minimo minimo se la scapocchia oggi da questa disgrazia che gli sta capitando, lui domani sarà pronto a mettersi allato a quelle teste calde dei De Felice-Giuffrida, dei Bosco, dei Verro, a questi che hanno tirato fuori la storia dei fasci siciliani e si riempiono la bocca di minchiate come eguaglianza sociale, emancipazione, collettivizzazione... "
"Non capisco dove voi volete andare a parare".
"Io non paro niente, egregio, è lei che deve andare a parare il culo! "
"Cerchiamo di non pisciare fuori dall'orinale, Padre Imbornone! "
"Domando scusa. Perdo facile la testa, davanti a queste cose ci vedo rosso. Voglio dire che io mi gioco il giocabile che appena questi pazzi cominceranno a far fare gli scioperi, oltre che nelle campagne, magari nelle miniere, il capintesta sarà il nostro Barbabianca che, con una bella bandiera rossa in mano, si metterà a fare voci che quello che è nostro è suo e quello che è suo deve restare suo. E lei le sue miniere me le potrà salutare! "
"Quando verrà quel momento le saluterò con piacere! "
"Io, privo di Dio, quando la sento ragionare così, mi domando se nelle vene lei ha per davvero sangue di nobile! "
"Che cazzo volete dire, eh? Spiegatevi meglio, se ne avete il coraggio! "
Capìto che era andato un poco troppo lontano, Padre Imbornone mormoriò qualche cosa che poteva magari parere una domanda di scusa, mentre don Agostino Fiandaca si affannava a calmare il marchese.
"Ancora non capisco" fece Lemonnier che non s'era impressionato per la scena, oramai ci aveva fatto il callo a quelle liti che s'alzavano rapide come fuochi d'artifizio e altrettanto rapidamente cadevano a piombo. "Va bene la politica e tutto il resto, ma a mettere insieme tutti i suoi soldi - il Barbabianca - come avrà fatto ?"
"Rubando".
E questa volta fu il coro, la concordia assoluta.

Don Peppone
Vorrei precisare che è quella che mi ha colpito non dal punto di vista dello stile ma per la rivelazione che mi ha dato (il Pres. mi dette la buona definizione: "autobiografica").
 
 

12) Da "Il Re di Girgenti" ( per l'esattezza pag. 299 )

" In primisi, Simon si fece consegnare l'oglio dai proprietari dei feudi e glielo pagò un quarto di tarì. Poi mandò quattro soldati campagne campagne per avvisare tutti i viddrani che appresso tre jornate sarebbero passati i carretti per ritirare le giarre con l'oglio. Chi faceva resistenzia, sarebbe stato ammazzato sul posto.

Maria, chi chianti! Maria, chi lamenti! Maria, chi disperazioni! E comu si faciva a campari senza una cruci fina fina d'oglio sopra la minestra di ciciri e favi? Comu si faciva a manciari senza tanticchia d'oglio per la cicoria, per la lattuca, per il tinnirumi? E chi eranu addivintati, capri? Pecori? E come si faceva a livari la botta di sole, di quella che ti piglia a tradimento e ti fa stramazzari 'n terra cchiù mortu ca vivu, senza la magaria di l'oglio e l'acqua?

Una processioni di mascoli e fimmini, vecchi e picciliddri cu li mani ni li capiddri s'arricampò alla casuzza di Zosimo: chi viniva da li muntagni dalla parte di Cammarata, chi dalle chianure indovi che ci passa il Platani, chi da lochi marini come Monterreale e perfino Fiacca, tutti a spiargli consiglio datosi che l'accanuscevano come persona di senno e di cori ( e macari di mano, quanno ce n'era di bisogno ). Quanno li fimmini si misero a parlari cu li fimmini, i picciliddri a jucari cu li picciliddri e i vecchi a tentare di arricurdarsi delle spirenzie passate, Zosimo chiamò sparte tutti i mascoli che non aspittavano che d'essiri chiamati."

Così andavano le cose nella Sicilia del primo settecento. Almeno, così andavano per la stragande maggioranza dei siciliani. E non mi risulta che da allora allo sbarco di Garibaldi, una qualche generalizzata rivoluzione culturale e/o economica ne abbia radicalmente cambiato le condizioni di vita.In ordine, poi, ai requisiti che si dovrebero possedere per " giudicare l'isola", è mio fermo convincimento che nessuno, astraendo dai pregiudizi moralistici o variamente razzistici, debba essere tenuto a sostenere un esame prima di manifestare la propria visione delle cose, anche quando si tratta di questioni così complesse come quelle riguardanti il groviglio di cause che hanno determinato il sottosviluppo della Sicilia. Semmai, il nostro atteggiamento dovrebbe essere di maggiore attenzione verso le denunce che provengono da coloro che guardano ai fatti di casa nostra dall'esterno, senza indignarci per l'amor proprio ferito e senza nasconderci dietro quella sorta di sicilianismo tanto orgoglioso quanto ingenuo e improduttivo, che dal primo novecento ad oggi ha solo prodotto fenomeni di populismo( vedi nasismo, milazzismo, forse anche cuffarismo ) che non hanno fatto fare alla Sicilia un passo che sia uno verso l'emancipazione e il progresso.Altro che responsabilità meneghine! Proviamo prima, seriamente, ad esaminare le nostre, di responsabilità!

Lorenzo Calamia
 

A cura di Maddalena