SETTEGIORNI 20 Giugno 1992
Gallismo
siciliano
in una satira
di Camilleri
Capita raramente di leggere un romanzo che riunisca in sè un gradevolissimo intreccio, una dirompente comicità e una satira quanto mai dissacrante di certi usi, costumi, modi di essere e di comportarsi dei siciliani, troppo spesso descritti con una seriosità che certo non rende loro giustizia.
«La stagione della caccia», così suona il
titolo di questa godibilissima opera narrativa recentemente edita da Sellerio
nella sua agile collana «Biblioteca siciliana di storia e letteratura», è
l’ultimo romanzo del siciliano Andrea Camilleri, regista, sceneggiatore ed
insegnante di regia presso l’Accademia Nazionale di Arte Drammatica di Roma.
Scritto in un fantasioso intreccio linguistico ed
italiano, che forse suonerà un po’ ostico al lettore non isolano, «La
stagione della caccia» snoda la sua grottesca ed imprevedibile vicenda, dai
risvolti talvolta pirandelliani, attraverso una misteriosa serie di delitti dal
movente oscuro, le cui vittime appartengono tutte ad una facoltosa famiglia di
un paesino dell’interno della Sicilia, i cui membri muoiono ad uno ad uno in
circostanze quanto meno ambigue, che rivestono di volta in volta le spoglie
della disgrazia, della malattia, del suicidio, dell’avvelenamento, della
follia.
Sembrerebbe un giallo in piena regola, con tanto
di delitti a catena, vendette ataviche, rimossi familiari e via dicendo;
Camilleri però, pur centrando apparentemente la sua attenzione di narratore su
questo aspetto del suo romanzo, trae spunto da esso per mettere, e non tanto
benevolmente in berlina tutta quella Sicilia arcaica e conservatrice, fatta di
circoli dei nobili, di lutti perenni e di ricerca ossessiva di un erede maschio,
che a ben vedere non è ancora scomparsa dalla moderna realtà isolana che tenta
a tutti i costi di liberarsi da queste ossessionanti pastoie, divertenti solo se
oggetto di un romanzo o di satira.
Ed ecco una galleria di ritratti, macchiette,
personaggi lugubri e comici, tutti squisitamente siciliani: un farmacista
innamorato senza speranza, una giovane nobildonna condannata dall’egoismo del
padre ad una troppo prolungata verginità, un marchese rampante» che venderebbe
l’anima al diavolo pur di avere un figlio maschio, un prete impiccione che fa
scontare gli anni di lutto a suon di prebende e di messe perpetue profumatamente
pagate, una signora «perbene» che ama far collezione di giovanotti.
Gustosa satira del gallismo siciliano, svelato
senza pietà nelle sue pieghe più recondite, forse amara rampogna di un autore
isolano che non sa fare a meno di amare la sua terra pur conoscendone le più
intime contraddizioni, «La stagione della caccia» svolge fino in fondo quella
che sembra essere un‘incrollabile convinzione di Camilleri: i siciliani sono «tragediaturi», vivono cioè la
vita come se fosse un continuo teatro, vivono recitando e recitano vivendo,
esternando con la più grande veemenza le loro passioni, confidandole a tutti,
esagerandole nell’illusione di poter essere almeno una volta nella vita,
protagonisti sulla scena dell’esistenza come un attore lo è su quella di un
teatro.
Convinti di poter mutare la realtà sviscerandola e
parlandone con i toni più accesi e melodrammatici con gli amici, con i
conoscenti, in quella istituzione tipicamente paesana che è il «Circolo dei
nobili», antenato dei moderni clubs, i siciliani di Camilleri s’inventano le
loro tragedie, se le coltivano, ne fanno il fine ultimo della loro esistenza,
paghi come tanti siciliani moderni di una realtà costruita a parole, che esiste
solo nella loro mente, ma in nome della quale sarebbero pronti sinanche a
commettere un omicidio.
«Tragediaturi», attaccabrighe, testardi come muli, questi personaggi di Camilleri che parlano un dialetto ormai obsoleto, che le giovani generazioni forse non comprenderanno in ogni sua sfumatura: un dialetto però che si legge con una nota di nostalgia, pittoresco e pregnante, quasi al limite dell’onomatopea talvolta, dove si ritrovano termini dimenticati che si sentivano solo in bocca ai nonni, estranei e cari come certe antiche stampe che sopravvivono ormai in pochi polverosi salotti siciliani.
GIULIANA
CUTORE