LA SICILIA    27 Giugno 1992

 Una catena di delitti in una Sicilia grottesca

Andrea Camilleri

La stagione della caccia

Sellerio

 

Dal settembre 1875 al marzo 1876, per la Sicilia il fatto dominante fu certamente l’avvio e la conduzione di una inchiesta parlamentare con il compito di indagare sulle condizioni economiche e sociali dell’isola in rapporto principalmente alla pubblica sicurezza. A questa si aggiunge quella privatamente condotta da due giovani studiosi toscani: Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino che, rispettivamente, con i due volumi «Condizioni politiche e amministrative della Sicilia» e «I contadini di Sicilia», seppero mettere a nudo con espressione fedele le condizioni oggettive della Sicilia allora vivacemente ed aspramente discusse sia in parlamento sia nel Paese. Nascoste tra le pieghe di questi due volumi, ben millequattrocentoundici pagine, vi si trovano due battute scambiate tra un componente della commissione parlamentare e un responsabile dell’ordine pubblico di uno dei tanti paesini isolani: «Recentemente ci sono stati fatti di sangue al suo paese?». «No. Fatta eccezione di un farmacista che per amore ha ammazzato sette persone». Ed è appunto da queste due battute, così come ammette lo stesso autore Andrea Camilleri, che il romanzo «La stagione della caccia» (Sellerio editore, Palermo 1992) prende origine.

La trama. E’ il capodanno del 1880 quando dalla navetta postale «Re d’Italia», chiamata testardamente dai Siciliani «Franceschiello» in omaggio al re borbone che aveva istituito l’ottimo servizio di collegamento marittimo, scende nel porto di Vigàta un forestiero «non ancora trentino, abito quatrigliè e coppola inglese, di personale non tanto spiccato, di stretto baffo e di asciutta prisenza». Il personaggio, già resosi sulla nave misterioso a tre «notabili» del paese, determina subito curiosità. A doverne e volerne scoprire le generalità viene incaricato il (…MANCA UNA RIGA NELLA FOTOCOPIA…) capacità che aveva di avvicinarsi a uno straneo appena arrivato e, con poche domande, cavargli vita morte miracoli e risurrezione che poi contava all’attento uditorio» del circolo dei nobili, uno di quegli ambienti tipici di ogni luogo della Sicilia dove immancabilmente si passavano al setaccio e le curiosità della gente che contava e i fatti di un certo peso chiunque interessassero.

Il romanzo presenta un quadro di riferimento davvero completo su tutto quello che poteva accadere in un paese siciliano dell’Ottocento, e ciò in riferimento e al vissuto quotidiano (usi, costumi, abitudini) e al composito retaggio «culturale».

Strutturato a mo’ di giallo con la classica scopertura finale, il romanzo mette man mano in luce la complessa e complicata storia di una catena di delitti orditi dal «forestiero». Figlio di un «viddano» del luogo passato a miglior vita per mano di monaci a causa della sua straordinaria capacità nel saper preparare da erbe medicamentose ricette, egli ritorna da grande perché infatuato, sin da bambino, di una «piccilidda», appartenente alla famiglia più nobile e più ricca del paese, per mettere in atto il suo piano criminoso e così potere impalmare la donna dei suoi sogni - «Tanticchia aiutato dalla fortuna, tanticchia aiutandosi lui stesso» con le speciose armi che una farmacia può fornire, il protagonista si libera di tutti i parenti della donna amata, che mai avrebbero permesso il matrimonio: nonno, fratello, madre, padre, promesso sposo e l’intera famiglia, servitù compresa, di uno zio ritornato dopo tanti anni dall’America. Alla fine sarà lui stesso a confessare la catena dei delitti: «Perché ho capito, oggi, che mi sono stufato. Per tanti anni mi sono incaponito a volere una cosa e quando finalmente l’ho avuta mi sono addunato che non ne valeva la pena».

Il romanzo, per la sua fedele ricostruzione del vissuto siciliano oltre che per gli intimi significati a cui rinvia la memoria, piacerà sicuramente al lettore, in particolare a quello dal palato più fine, per la lingua e lo stile. Quesinfainfatprespresepuspulililinguffamilare, di digressioni enfatiche, di rappresentazioni realistiche degli ambienti e dei personaggi e, a volte, anche proverbi e modismi tratti un ricco patrimonio folclorico. Inoltre, vivo senso del comico e realismo della narrazione che indugia volentieri sui toni umoristici e satirici, ai quali si associa un vivo gusto del particolare ridicolo e grottesco. Circa la lingua, che non è quella del Verga, cioè dell’impasto linguistico-espressivo (registro colto dell’autore quello modesto degli «umili») il quale fonda il colorito siciliano con la lingua di tutti, Andrea Camilleri utilizza nella scrittura termini dialettali italianizzati e maggiormente accolti, sicuramente perché di più immediata comprensione nell’economia della frase ed anche perché possono con maggiore icasticità colpire l’immaginazione o raggiungere con più facilità il piano mentale. Termini, poi, che acquistano significanza diversa se inseriti nel contesto della frase.

In conclusione, uno di quei lavori questo di Andrea Camilleri, più riusciti, a modesto parere di chi scrive, tra quelli dell’attuale momento letterario isolano. 

Salvatore Agati