Una
catena di delitti in una Sicilia grottesca
Dal settembre 1875 al marzo 1876, per la Sicilia il
fatto dominante fu certamente l’avvio e la conduzione di una inchiesta
parlamentare con il compito di indagare sulle condizioni economiche e sociali
dell’isola in rapporto principalmente alla pubblica sicurezza. A questa si
aggiunge quella privatamente condotta da due giovani studiosi toscani: Leopoldo
Franchetti e Sidney Sonnino che, rispettivamente, con i due volumi «Condizioni
politiche e amministrative della Sicilia» e «I contadini di Sicilia», seppero
mettere a nudo con espressione fedele le condizioni oggettive della Sicilia
allora vivacemente ed aspramente discusse sia in parlamento sia nel Paese.
Nascoste tra le pieghe di questi due volumi, ben millequattrocentoundici pagine,
vi si trovano due battute scambiate tra un componente della commissione
parlamentare e un responsabile dell’ordine pubblico di uno dei tanti paesini
isolani: «Recentemente ci sono stati fatti di sangue al suo paese?». «No.
Fatta eccezione di un farmacista che per amore ha ammazzato sette persone». Ed
è appunto da queste due battute, così come ammette lo stesso autore Andrea
Camilleri, che il romanzo «La stagione della caccia» (Sellerio editore,
Palermo 1992) prende origine.
La trama. E’ il capodanno del 1880 quando dalla navetta postale «Re d’Italia», chiamata testardamente dai Siciliani «Franceschiello» in omaggio al re borbone che aveva istituito l’ottimo servizio di collegamento marittimo, scende nel porto di Vigàta un forestiero «non ancora trentino, abito quatrigliè e coppola inglese, di personale non tanto spiccato, di stretto baffo e di asciutta prisenza». Il personaggio, già resosi sulla nave misterioso a tre «notabili» del paese, determina subito curiosità. A doverne e volerne scoprire le generalità viene incaricato il (…MANCA UNA RIGA NELLA FOTOCOPIA…) capacità che aveva di avvicinarsi a uno straneo appena arrivato e, con poche domande, cavargli vita morte miracoli e risurrezione che poi contava all’attento uditorio» del circolo dei nobili, uno di quegli ambienti tipici di ogni luogo della Sicilia dove immancabilmente si passavano al setaccio e le curiosità della gente che contava e i fatti di un certo peso chiunque interessassero.
Il
romanzo presenta un quadro di riferimento davvero completo su tutto quello che
poteva accadere in un paese siciliano dell’Ottocento, e ciò in riferimento e
al vissuto quotidiano (usi, costumi, abitudini) e al composito retaggio «culturale».
Strutturato
a mo’ di giallo con la classica scopertura
finale, il romanzo mette man mano in luce la complessa e complicata storia
di una catena di delitti orditi dal «forestiero». Figlio di un «viddano» del
luogo passato a miglior vita per mano di monaci a causa della sua straordinaria
capacità nel saper preparare da erbe medicamentose ricette, egli ritorna da
grande perché infatuato, sin da bambino, di una «piccilidda», appartenente
alla famiglia più nobile e più ricca del paese, per mettere in atto il suo
piano criminoso e così potere impalmare la donna dei suoi sogni - «Tanticchia
aiutato dalla fortuna, tanticchia aiutandosi lui stesso»
con le speciose armi che una farmacia può fornire, il protagonista si
libera di tutti i parenti della donna amata, che mai avrebbero permesso il
matrimonio: nonno, fratello, madre, padre, promesso sposo e l’intera famiglia,
servitù compresa, di uno zio ritornato dopo tanti anni dall’America. Alla
fine sarà lui stesso a confessare la catena dei delitti: «Perché ho capito,
oggi, che mi sono stufato. Per tanti anni mi sono incaponito a volere una cosa e
quando finalmente l’ho avuta mi sono addunato che non ne valeva la pena».
Il
romanzo, per la sua fedele ricostruzione del vissuto siciliano oltre che per gli
intimi significati a cui rinvia la memoria, piacerà sicuramente al lettore, in
particolare a quello dal palato più fine, per la
lingua e lo stile. Quesinfainfatprespresepuspulililinguffamilare,
di digressioni enfatiche, di rappresentazioni realistiche degli ambienti e dei
personaggi e, a volte, anche proverbi e modismi tratti un ricco patrimonio
folclorico. Inoltre, vivo senso del comico e realismo della narrazione che
indugia volentieri sui toni umoristici e satirici, ai quali si associa un vivo
gusto del particolare ridicolo e grottesco. Circa la lingua, che non è quella
del Verga, cioè dell’impasto linguistico-espressivo (registro colto
dell’autore quello modesto degli «umili») il quale fonda il colorito
siciliano con la lingua di tutti, Andrea Camilleri utilizza nella scrittura
termini dialettali italianizzati e maggiormente accolti, sicuramente perché di
più immediata comprensione nell’economia della frase ed anche perché possono
con maggiore icasticità colpire l’immaginazione o raggiungere con più
facilità il piano mentale. Termini, poi, che acquistano significanza diversa se
inseriti nel contesto della frase.
In
conclusione, uno di quei lavori questo di Andrea Camilleri, più riusciti, a
modesto parere di chi scrive, tra quelli dell’attuale momento letterario
isolano.
Salvatore
Agati