LA GAZZETTA DI ANCONA
13 Maggio 1992
«La stagione della caccia» avrebbe potuto essere un
giallo poiché racconta di una catena di delitti in un paese siciliano
dell’Ottocento, ciascuno dei quali legato agli altri da una trama invisibile,
da una logica, che un buon investigatore scoprirebbe.
Ma il colore giallo compare e scompare nel corso del
racconto, e in effetti il lettore se ne rende conto solo alla fine, e
probabilmente con un moto di gratitudine.
Gratitudine perché, con tutto il rispetto che il genere
giallo merita, esso, nel suo barocchismo, nasce spesso da assenza, o diffidenza,
o debolezze di idee, o dalla sfiducia che le idee possano interessare.
E invece la «Stagione della caccia» ha dentro di sé un universo di idee forti, tanto da far sembrare il romanzo appartenente a un’altra epoca (più precisamente all’epoca in cui era possibile avere un’immagine della propria realtà, e quindi una speranza su quella che verrà in futuro): oppure appartenente proprio alla nostra nuova epoca letteraria, in cui, soprattutto nella letteratura siciliana, tornano, appunto le idee.
Camilleri asserisce d’essersi ispirato a una battuta
trovata nella «Inchiesta» di Sonnino e Franchetti del 1876. Viene chiesto al
responsabile dell’ordine pubblico di un paesino siciliano: «Recentemente ci
sono stati fatti di sangue nel suo paese?»; e quegli risponde candidamente: «No.
A eccezione del farmacista che per amore ha ammazzato sette persone.».
Vale a dire: tutto quello che riguarda l’amore
e, per estensione (un’estensione in cui Camilleri gioca deliziosamente:
insinuandovi i giorni perduti al circolo dei civili, i pettegolezzi e le beghe
di decorose possidenti di paese, la dolorosa coscienza contadina, certi rapporti
umani duri e semplici come il granito che si instauravano nell’immobilità del
feudo ad onta delle distanze sociali) tutto quello che i siciliani compiono
nello stato di sogno e di recita che era -che è nella memoria - la loro vita
sociale, appartiene appunto a un’altra realtà.
E tale realtà si vive realmente (come le disgrazie che
gli dei di Omero mandavano agli uomini per poter fare della loro vita un
racconto) se è tramutata in teatro, cioè in epica ed epopea: che
instancabilmente si ripete in una specie di coazione dei siciliani a
reincarnarsi nel loro mito, a rifugiarsi nella loro maschera, a ritrovare la
vita solo nella morte.
Ma Camilleri non ha scritto un racconto pirandelliano. Vi
è un versante di quella specie di realismo onirico su cui, per intima necessità,
insiste la letteratura siciliana, che non è né intellettuale né filosofico
cioè borghese. Il versante materialistico, picaresco e sarcastico di una
cultura contadina e carnascialesca, cui, anche nell’esercizio di linguaggio,
la stagione della caccia, appartiene. Un libro insomma, che vale davvero la pena
di leggere.
Gino
Giannini
Andrea
Caniilleri - «La stagione
della caccia» - Sellerio Palermo
Pagg. 152 L. 15.000.