IL PICCOLO            1 Giugno 1992

Fofò torna al paese, ed è subito giallo

«La stagione della caccia», una gustosa vicenda ambientata nella Sicilia di fine Ottocento

Recensione di Piero Spirito

Per chi non l’avesse ancora notato, gran parte di quel poco di buono che produce la letteratura italiana d’oggi proviene dalla terra di Sicilia. Nel solco di una centenaria tradizione, certo, anche se antenati come Pirandello, Tomasi di Lampedusa e Verga non bastano forse a spiegare come alla finale del Premio Strega di quest’anno, di siciliani ne siano arrivati tre. Tra questi Andrea Camilleri, regista di teatro, televisione, radio e sceneggiatore, autore di un primo romanzo nel ‘78 («Il corso delle cose», poi trasmesso in tv con il titolo «La mano sugli occhi»), di un secondo nel 1980 («Un filo di fumo», Garzanti), di una breve monografia storica nel 1984 («La strage dimenticata», Sellerio) e, adesso, de «La stagione della caccia» (Sellerio, pagg. 152, 15 mila lire), con il quale appunto Camilleri si presenta allo Strega. A pieno titolo, visto che «La stagione della caccia» appare come uno dei romanzi più gustosi, divertenti e di rilevante spessore letterario pubblicati negli ultimi tempi.

Diciamolo subito: al di là della struttura del racconto, della trama, dell’intreccio da giallo surreale, è ancora una volta alla scrittura — un linguaggio mutuato da antichi dialetti siculi, reinventato e manipolato, adattato e modellato alle cose, situazioni, personaggi — che si deve, soprattutto, la riuscita del romanzo. O meglio della commedia, perché in fondo di questo si tratta, e il taglio delle «scene», il ritmo della narrazione, i dialoghi dei personaggi, pur nella complessità stilistica propria del romanzo lasciano capire quanto il testo debba al mestiere di sceneggiatore di Camilleri.

La storia è ambientata nella seconda metà del secolo scorso. «Alle due di dopopranzo del capodanno 1880», «Franceschiello», il «pacchetto a vapore che faceva navetta postale da Palermo», attracca al porto di Vigàta. Tra i passeggeri che scendono da una «traballante biscaglina rigida» c’è un «giovane forasteri non ancora trentino, abito quatriglié e coppola inglese, di personale non tanto spicato, di stretto baffo e di asciutta prisenza». L’arrivo del «forasteri» nel paese suscita curiosità, e presto al Circolo dei nobili  ¾ luogo di riunione di tutti gli sfaccendati con pochi o molti quarti di nobiltà — riescono a dargli un nome e un’origine: Fofò, il figlio di Santo La Matina, il vecchio «curatolo» del marchese Peluso che, si diceva, prima di morire ammazzato coltivasse — in virtù di una curiosa pratica che si scoprirà più avanti — un giardino miracoloso dove crescevano erbe e piante in grado di guarire qualsiasi male. Il figlio Fofò, allora bambino, dopo l’assassinio aveva lasciato il paese, e adesso vi ritornava per continuare lì il mestiere del padre e aprire una farmacia.

Fofò La Matina viene ben accolto a Vigàta, ma dopo qualche tempo la disgrazia si abbatte sulla famiglia di don Filippo, il figlio del vecchio marchese Peluso. Prima muore suicida il marchese padre, poi il figlio di don Filippo (ingannato da un falso fungo porcino), cosa che fa uscire di senno la madre donna Matilde. Di seguito, tra un intreccio di piccoli e grandi intrighi, piccoli e grandi amplessi clandestini con tanto di figli illegittimi, la sfortuna continua a tormentare la famiglia del marchese Peluso. Fino all’arrivo, dall’America, del ricco fratello di don Filippo, don Totò — partito e sparito più di vent’anni prima — e al matrimonio tra la figlia del marchese ‘Ntontò, e il farmacista Fofò La Matina.

Il racconto, l’abbiamo detto, è nell’essenza un giallo con finale a sorpresa, anche se l’attribuzione del genere sta piuttosto stretta al libro di Camilleri. Ispirato da un fatto realmente accaduto, «La stagione della caccia» contiene espliciti richiami pirandelliani e, nella costruzione di certi momenti, di certi «quadri», pare di sentire echeggiare la graffiante ironia edoardiana: virando alcuni dialoghi dalla parlata sicula a quella napoletana sembrerebbe di assistere a una «pièce» di Scarpetta. Ma certo Camilleri si tiene lontano dalla macchietta, dalla semplice caricatura: i suoi sono personaggi di alta letterarìetà. e raccontano di una terra, di una vita, dove spesso il comico nasce dalla sublimazione del tragico.