Recensione di Pietro Spirito
La «componenda» è un accordo, un compromesso, una
transazione tra le parti, un patto tra poteri occulti. E la bolla di componenda
era un’indulgenza che il clero della Sicilia ottocentesca metteva in vendita
ad uso di ladri e malfattori.
«Questa bolla di componenda», scriveva nel 1874 il
polemista Giuseppe Stocchi, «si vende da speciali incaricati, che
ordinariamente sono i parroci, al prezzo di lire una e tredici, e mediante essa
uno è autorizzato a ritenere con tranquilla coscienza fino a lire trentadue e
ottanta di roba o denaro rubato».
Non solo, esisteva un vero e proprio prontuario
dell’assoluzione a pagamento: «dalla corruzione all’abigeato, dalla falsa
testimonianza alla circonvenzione d’incapace, tutto catalogato e prezzato»,
tranne l’omicidio. La bolla di componenda era dunque, per dirla ancora con
Stocchi, «una tassa in favore del clero sul delitto, è una partecipazione al
furto e un furto esso stesso». Di conseguenza, quando il siciliano ignorante «si
è persuaso che una cosa non è peccato, di tutto il resto non teme o non si
cura, soccorrendogli mille mezzi e infinite vie a non cadere o a sfuggire alle
sanzioni della giustizia umana».
Così ci racconta, in un ragionamento-racconto di
sciasciana memoria, Andrea Camilleri ne «La bolla di componenda» (Sellerio,
pagg. 90, lire 15mila), illuminante libello che, senza gridarlo troppo,
offre un tassello in più per capire quanto è accaduto e quanto sta accadendo
in Sicilia e in Italia.
Con l’abilità narrativa già conosciuta in racconti
come «La stagione della caccia» e con un linguaggio sornione ma acuto, reso più
malandrino dal disinvolto uso dei dialettismi, Camilleri ci spiega come la
componenda (citiamo per convenienza riassuntiva il risvolto) sia «tutto il
contrario della posizione di uno stato di diritto che non compone, ma garantisce
imparzialmente contro i torti» e ci indica in che modo «lo Stato italiano
quando venne (in Sicilia, N.d.R.) si aggiustò a questa pratica tradizionale,
con il brigantaggio, con la mafia e con i tanti prepotenti».
Citando commissioni d’inchieste post-unitarie,
ricordando episodi famosi e no, inventando a mo’ di apologo qualche storia
egli stesso, Camilleri dopo un lungo (si fa per dire, considerate le settanta
pagine) giro intorno alla componenda «laica», arriva al cuore della questione:
la bolla di componenda, appunto, il viatico alla ruberia, l’assoluzione a
pagamento, il «ricatto» (come venne definito) ecclesiastico nei confronti dei
malviventi.
«Non c’è modo alcuno»; scrive Camilleri, «di
nobilitare (mi si passi il verbo) la bolla paragonandola a una qualsiasi bolla
di indulgenza, anche la più degenerata»: la bolla era solo un pactum sceleris
dove uno dei contraenti «è la più alta autorità spirituale, la Chiesa».
Certo, l’uso della bolla di componenda è ormai tramontato da un pezzo e di
quelle bolle non è rimasta traccia. Rimane però, nota Camilleri, la componenda
e di esempi ne abbiamo sotto gli occhi ogni giorno.
E rimane anche un dubbio, una curiosità che l’autore
non soddisfa, almeno esplicitamente, lasciando al lettore la gioia di ragionarci
su: se e in quale misura quella cristiana indulgenza si sia insinuata nel
costume, nella cultura, nella mentalità non solo dei siciliani, ma di quelle
istituzioni che avrebbero dovuto emendare i siciliani dalla necessità di
ricorrere alla componenda stessa.