IL PICCOLO  4 Gennaio 1994

Sicilia, indulgenze di ieri e di oggi:

così poco cristiane 

Recensione di Pietro Spirito

La «componenda» è un accordo, un compromesso, una transazione tra le parti, un patto tra poteri occulti. E la bolla di componenda era un’indulgenza che il clero della Sicilia ottocentesca metteva in vendita ad uso di ladri e malfattori.

«Questa bolla di componenda», scriveva nel 1874 il polemista Giuseppe Stocchi, «si vende da speciali incaricati, che ordinariamente sono i parroci, al prezzo di lire una e tredici, e mediante essa uno è autorizzato a ritenere con tranquilla coscienza fino a lire trentadue e ottanta di roba o denaro rubato».

Non solo, esisteva un vero e proprio prontuario dell’assoluzione a pagamento: «dalla corruzione all’abigeato, dalla falsa testimonianza alla circonvenzione d’incapace, tutto catalogato e prezzato», tranne l’omicidio. La bolla di componenda era dunque, per dirla ancora con Stocchi, «una tassa in favore del clero sul delitto, è una partecipazione al furto e un furto esso stesso». Di conseguenza, quando il siciliano ignorante «si è persuaso che una cosa non è peccato, di tutto il resto non teme o non si cura, soccorrendogli mille mezzi e infinite vie a non cadere o a sfuggire alle sanzioni della giustizia umana».

Così ci racconta, in un ragionamento-racconto di sciasciana memoria, Andrea Camilleri ne «La bolla di componenda» (Sellerio,          pagg. 90, lire 15mila), illuminante libello che, senza gridarlo troppo, offre un tassello in più per capire quanto è accaduto e quanto sta accadendo in Sicilia e in Italia.

Con l’abilità narrativa già conosciuta in racconti come «La stagione della caccia» e con un linguaggio sornione ma acuto, reso più malandrino dal disinvolto uso dei dialettismi, Camilleri ci spiega come la componenda (citiamo per convenienza riassuntiva il risvolto) sia «tutto il contrario della posizione di uno stato di diritto che non compone, ma garantisce imparzialmente contro i torti» e ci indica in che modo «lo Stato italiano quando venne (in Sicilia, N.d.R.) si aggiustò a questa pratica tradizionale, con il brigantaggio, con la mafia e con i tanti prepotenti».

Citando commissioni d’inchieste post-unitarie, ricordando episodi famosi e no, inventando a mo’ di apologo qualche storia egli stesso, Camilleri dopo un lungo (si fa per dire, considerate le settanta pagine) giro intorno alla componenda «laica», arriva al cuore della questione: la bolla di componenda, appunto, il viatico alla ruberia, l’assoluzione a pagamento, il «ricatto» (come venne definito) ecclesiastico nei confronti dei malviventi.

«Non c’è modo alcuno»; scrive Camilleri, «di nobilitare (mi si passi il verbo) la bolla paragonandola a una qualsiasi bolla di indulgenza, anche la più degenerata»: la bolla era solo un pactum sceleris dove uno dei contraenti «è la più alta autorità spirituale, la Chiesa». Certo, l’uso della bolla di componenda è ormai tramontato da un pezzo e di quelle bolle non è rimasta traccia. Rimane però, nota Camilleri, la componenda e di esempi ne abbiamo sotto gli occhi ogni giorno.

E rimane anche un dubbio, una curiosità che l’autore non soddisfa, almeno esplicitamente, lasciando al lettore la gioia di ragionarci su: se e in quale misura quella cristiana indulgenza si sia insinuata nel costume, nella cultura, nella mentalità non solo dei siciliani, ma di quelle istituzioni che avrebbero dovuto emendare i siciliani dalla necessità di ricorrere alla componenda stessa.