ANDREA CAMILLERI

Cose nostre e cose loro

Luigi Pirandello racconta che, quando ancora era bambino, andò ad abitare con la famigli in una casa di Girgenti (oggi Agrigento), sita in via San Pietro. Era una strada che lo scrittore nella novella intitolata Il Vitalizio, ricorda come fosse malfamata "per tanti delitti rimasti oscuri e, a passarci sul tardi, incutesse un certo sgomento. I passi vi facevano eco, perché il pendio del colle troppo ripido metteva lì quasi a ridosso i muri delle case ". Uno scenario dunque assai inquietante, favorevole alle rese dei conti, agli incontri clandestini, agli appuntamenti furtivi.

Una sera d'estate, mentre la famiglia era riunita per la cena, dalle finestre spalancate per il gran caldo irruppero fragorosamente le grida, gli insulti, le bestemmie di una violenta rissa proprio sotto il portone di casa. D'un tratto il disperato urlo di dolore di un uomo accoltellato pose termine al vociare: si sentirono gli scalpiccii dei passi in fuga e quindi, nell'improvviso silenzio che seguì, i lamenti e le sommesse invocazioni d'aiuto del ferito. Senza che nessun ordine le fosse stato dato, la cameriera si precipitò a chiudere le finestre perché il suono della violenza, la voce dell'orrore e del dolore non penetrassero ulteriormente dentro la quiete delle mura domestiche. L'accoltellato venne ritrovato alle prime luci dell'alba del giorno appresso, ma ormai senza più vita.

Non si deve pensare però, considerando quest'episodio, che nella famiglia Pirandello regnassero indifferenza, egoismo, timore dell'inevitabile coinvolgimento. Tra l'altro, il padre dello scrittore, Stefano, ex garibaldino, era uomo d'eccezionale coraggio, addirittura aveva avuto uno scontro a fuoco con un temuto brigante ed era rimasto seriamente ferito (ma il brigante era finito in galera). Il non voler sentire, era l'atteggiamento più comune e diffuso tra le famiglie della borghesia siciliana, grande o piccola che fosse, e che si poteva compendiare in questa semplicissima frase: "fatti loro". Veniva eretto un muro, un confine apparentemente ben delineato, ben difeso, fra i malavitosi di mafia e le cosiddette "persone civili", quelle cioè che badavano a non immischiarsi, a non farsi "sporcare" dal sangue che la sopraffazione spesso faceva scorrere. Accennare a un fatto di mafia all'interno di un salotto di "persone civili" equivaleva, come cattivo gusto, a parlare di disturbi di stomaco durante un pranzo di gala. "Fatti loro", dunque, e che tali dovevano restare. Ma prima ho scritto "apparentemente" a ragion veduta. Perché molte di quelle persone perbene, se per un loro problema irrisolvibile per vie legali, avevano bisogno di soluzioni non proprio ortodosse, non si facevano scrupolo di reclamare l'appoggio e l'aiuto di qualche mafioso locale, del resto ben conosciuto con tanto di nome, cognome e indirizzo. La mafia quindi, ostentatamente e ipocritamente ignorata, veniva, in certe particolari occasioni, riconosciuta, attivata e usata. A sua volta la mafia, fatto il favore richiesto, presentava il conto del suo intervento esigendo a sua volta favori, voti, privilegi. Un intreccio perverso.

Oltre sessanta anni dopo l'episodio raccontato da Pirandello, le cose erano rimaste sostanzialmente immutate. Io stesso, non ancora decenne, fui testimone del singolare comportamento dei miei familiari quando, in un appezzamento fuori mano che ci apparteneva, mio zio rinvenne nascosto dal grano alto il cadavere di un tale assassinato altrove e poi lì trasportato. La lupara prima e poi la scempio dei cani l'avevano reso irriconoscibile. Ebbene, nessuno, a casa nostra, parlò del fatto. Non un accenno, niente. Come se fosse stata la cosa più normale del mondo, un accadimento, trascurabile, privo di rilievo. Io la storia la seppi perché un eccitato compagno di scuola me la raccontò, altrimenti sarei rimasto all'oscuro di tutto. Quando a casa domandai particolare ai miei, venni severamente sgridato e invitato a non occuparmi di cose che "non ci riguardavano". Ebbi l'ingenuità di reagire: "Ma l'hanno trovato nel nostro campo!". Un ceffone per termine della scena. Erano fatti "loro" e tali dovevano restare.

Dopo tre giorni di estenuanti interrogatori da parte del maresciallo dei carabinieri del paese, mio zio però cominciò a farsi persuaso che i fatti "loro" non lo erano poi tanto se l'avevano coinvolto a tal punto. Nel 1943, con lo sbarco delle truppe alleate in Sicilia, la mafia si rafforzò, tanti uomini "d'onore" vennero proclamati sindaci dagli americani (molti infatti erano stati i mafiosi che avevano preparato e agevolato l'arrivo degli Alleati). Fu in quegli stessi anni che la mafia cominciò ad essere conosciuta come "cosa nostra". E qualcuno ironizzò su questa denominazione: "Se loro stessi la chiamano cosa nostra, perché noi dobbiamo andare a mettere il naso nelle cose loro?". Con gli appalti per la ricostruzione del Paese, appalti naturalmente truccati, la mafia fece il gran passo: dalle campagne e dai giardini (vale a dire le coltivazioni degli agrumi) si trasferì nei paesi e nelle città, estendendo il giro d'affari e compiendo un bel salto di qualità.

Cominciò il massacro dei sindacalisti (non saprei chiamarlo altrimenti), perché la mafia era al servizio del potere economico più retrivo. Trovò nuovi e potenti alleati in politici a caccia di voti, in banche compiacenti, in magistrati pavidi o sonnacchiosi: è noto, a questo proposito, che i rari mafiosi arrestati venivano poi rimessi in libertà dopo un approssimativo processo con la formula "per insufficienza di prove". Nell'espandersi a macchia d'olio della corruzione, degli omicidi, delle sopraffazioni, del commercio e dell'uso della droga, la parte sana della popolazione cominciò a lasciar cadere la comoda posizione del "sono fatti loro". I commercianti costretti a pagare il pizzo, gli industriali sottoposti al quotidiano ricatto mafioso, i semplici cittadini che vedevano minacciata la loro sicurezza si resero conto che la mafia era come una malattia parassitaria che attaccava e corrodeva il tessuto sano, che era insomma una malattia mortale e contagiosa, una malattia resistente alle cure. Per questo l'opera coraggiosa di Falcone e Borsellino trovò un terreno fertile. Pagarono con la vita il loro coraggio, le loro intuizioni, la breccia, ch'erano riusciti a praticare nel solido muro eretto dalla mafia. Ma cambiarono anche in un certo qual modo il DNA dei siciliani. Un esempio per tutti. Alla periferia del mio paese, un maresciallo dei carabinieri cadde in un agguato mafioso. Era pieno giorno, molte persone erano affacciate alle finestre e ai balconi per godersi il tepore primaverile. Mentre ancora i mitra sparavano, quelle stesse persone corsero a chiamare i centralini di polizia e carabinieri per avvertire di quanto stava accadendo. Telefonarono anonimamente, ma telefonarono. Ancora vent'anni avanti, si sarebbero invece ritirate in casa chiudendo ermeticamente finestre e balconi e dicendo: "Noi che c'entriamo? Sono fatti loro".

Completo questa mia personale testimonianza. Una decina d'anni fa, era una bella sera settembrina, la gente affollava le strade, stavo per entrare in un bar del mio paese quando si scatenò l'inferno tra i tavolini allineati sul marciapiede. Sul momento non capii quello che stava succedendo, anzi credetti che dei ragazzi facessero scoppiare delle castagnole per fare uno stupido scherzo ai passanti. Ma immediatamente dopo i colpi, anzi contemporaneamente ad essi, vidi la gente cadere, il sangue inondare il marciapiede, i tavolini e le sedie che si rovesciavano, i corpi dei feriti che si contorcevano, udii le grida disperate, i lamenti. Mi ero venuto a trovare nel mezzo di un regolamento di conti tra famiglie mafiosi rivali che si era tramutato in un autentica strage: sei morti e sei feriti. Mentre il crepitare dei colpi continuava, non provai nessuna paura (arrivò dopo qualche ora), ma un misto di rabbia, orrore e vergogna. Quello che stava capitando attorno a me non era un "fatto loro" (ma questo ormai lo sapevo da tempo), bensì un'offesa diretta a me personalmente, al meglio di me in quanto uomo e cittadino . E in questo senso io che in quella storia non c'entravo, dentro quella storia mi riconobbi schierato, essa faceva ormai irrimediabilmente parte della mia vita.
 
Il brano che precede è tratto da: 'Taccuini & Storie" (- Conviene essere Onesti? – (Cose nostre e cose loro) –) Supplemento a Diario della Settimana, anno III, numero 49, 9-15 dicembre 1998