Il quartiere - giornale delle borgate palermitane - Anno 4, Numero 21, gennaio/febbraio 1998

Giallo siciliano. Intervista allo scrittore Andrea Camilleri. il suo commissario Montalbano è un detective terrone che piace in Europa
Bedda matri, Marlowe
«La voce del violino» editore Sellerio, quarta avventura del poliziotto anticonformista che parla in siciliano

C'è un paese, piccolo come uno scricciolo, tra il mare e la montagna: assolato come se fosse una pietra di Pantalica, ci scoprono i morti ammazzati, come in un qualsiasi luogo di Sicilia. A Vigata ci sono i tunisini, ci sono i commercianti che pagano il pizzo, le buttane e i magnaccia. Il più bravo è Gegé che paga la tangente al commissario della Buoncostume ed è amico del commissario Salvo Montalbano. Ed è morto, una raffica e via. Andrea Camilleri i suoi personaggi li fa crescere e morire come se fossero veri: parlano una lingua che ha la forza del dialetto e il colore del mare. E romanzo dopo romanzo, siamo già a quattro, aumentano di spessore.
«Ci sono protagonisti che restano tali e quali - spiega lo scrittore - poliziotti romanzeschi che non cambiano, mentre mutano i loro casi. Montalbano no, Montalbano aumenta di spessore, sente ciò che gli capita».
Capisce che si va allontanando da questa Sicilia, un po' da fumetto, un po' da pagina di quotidiano?
«Credo di sì, ma il mio commissario non se ne andrà mai. In un altro Paese sarebbe un semplice uomo, non ne comprenderebbe i codici. Mi spiego meglio, voglio dire che in un altro luogo non riuscirebbe ad approfondire quegli stilemi di linguaggio che gli permettono di sentire i casi».
Proprio nell'ultima avventura, «La voce del violino», Salvo Montalbano si vede davanti lo spauracchio di un trasferimento in Florida al seguito di agenti americani che galoppano per mantenersi in forma...
«Salvo è un pigro, si vede spiritosamente intruppato, ha paura...»
Di cosa?
«Dell'incapacità di capire, di essere tagliato fuori da un mondo intelligente, nel senso di "intelligere"».
Torniamo ai suoi romanzi, a quelli della saga poliziesca.
«Nascono riflettendoci molto sopra, da tentativi di racconti andati male, da episodi che ri-cordo e che vengono da chissà dove. Ho costruito questo tessuto dialettale dentro il quale coesistono la lingua italiana e il modo di parlare di casa mia. Ma non basta, ci vuole un'elaborazione fatta di richiami, di modulazioni, di suoni, di varianti che ho sentito nei paesi. Quando Pirandello scriveva, pensava a Girgenti, ma la lingua non era quella. Dai miei romanzi viene fuori un posto dell'entroterra, tra Porto Empedocle e Sciacca. È Sicilia, con un'estensione topografica variabile, modificata di romanzo in romanzo, dove può accadere di tatto».
Alla fine di questa parabola topo-linguistica c'è Catarella, telefonista per bisogno degli altri che non sapevano dove fargli combinare meno danni...
«Catarella è l'esasperazione di questo linguaggio, non esiste e non può esistere».
Ne è sicuro? Davanti ad alcuni nostri burocrati, Catarella si perde di vista.
«Non volevo dirlo, ma questo personaggio è nato proprio dal racconto di un conoscente. Appena ho iniziato a scrivere, glielo ho rubato, come tanti altri. Vivono in un mondo parallelo da cui li tiro fuori, componendo dei mosaici con le variazioni caratteriali di gente che ho incontrato».
Catarella nell'ultimo romanzo impara l'informaticcia, per i dotti l'informatica.
«Questa è stata una vendetta personale: io sono negato per il computer».
E Montalbano, l'ha mai incontrato?
«Una volta all'aeroporto di Cagliari, era un professore, ma mi è bastato fissarlo e capire che era Salvù: l'ho sempre immaginato con la voce bassa, poche parole; Montalbano non è alto, anzi piuttosto tarchiato, non è massiccio, non è bello. Il resto mi sfugge».
I lettori aspettano con ansia i nuovo capitoli della saga. Non capita spesso, vista la crisi editoriale che in tanti denunziano.
«A volte questa attesa mi preoccupa. L'altra sera, durante un incontro a Palermo, mi hanno persino messo in imbarazzo: un tale mi ha preso di lato per dirmi di non far sposare Montalbano con quell'antipatica di Livia».
Continuerà la Montalbano's story?
«Per il momento no, il mio prossimo romanzo, "La concessione del telefono" che uscirà l'anno prossimo sempre da Sellerio, prosegue il filone delle storie ambientate nell'Ottocento, quelle in cui mi ritrovo più a mio agio».
Lei è ormai accreditato come scrittore siciliano. Si parla di rinascita della letteratura isolana, dopo un certo periodo di nebbia che non ha fatto nascere romanzi interessanti.
«Penso ci sia veramente parecchio all'orizzonte. Penso a nomi differenti come Santo Piazzese, Eduardo Rebulla, Vito Piazza: sono ad un passo dallo scrivere un libro. Vede, gli scrittori siciliani sono "tardi" d'età: Pizzuto fu conosciuto dopo i settanta, Lucio Piccolo dopo i sessanta, Tomasi non ne parliamo, Bufalino anche. L'autore siciliano è da "riposto", come dicevano una volta per certi frutti che dovevano maturare».
E tra gii emergenti, Alajmo, Abbate...
«Non li conosco, ho letto «La stanza dei lumini rossi» di Conoscenti: lui è a tutti i diritti uno scrittore, basta che si sciolga un po'».
Tutti inseguono una sorta di «visionarietà», quasi un marchio di fabbrica che li contraddistingue come siciliani.
«Ma questo fa parte del nostro DNA siculo, chissà da quali viscere lo abbiamo tirato fuori e ce lo teniamo dentro. Viene dai nobili, anche se ora lo abbiamo anche noi popolani».
«Palermo» città rinata. Sono persino spuntati altri quotidiani...
«Ben vengano, se danno corpo alla differenza di idee. Il «buco» lasciato da L'Ora si sente ancora. Mi addolorò molto la sua chiusura, non lo sanno in molti ma i miei primi racconti, nel 1945, me li pubblicò quel quotidiano. Non ho mai conosciuto i giornalisti, inviai le novelle e le scoprii in prima pagina».


Simonetta Trovato


«Sbirri» d'autore

Francamente è strano il clamore nato intorno all'opera di Andrea Camilleri: se non fosse per il fatto che l'autore è salito alla ribalta in età decisamente matura. È strano invece, e sa molto del «solito» caso giornalistico, il dibattito sulla sua scelta di raccontare storie con una lingua impastata di termini dialettali, una lingua decisamente «sicilianizzata». Eppure questa scelta apparentemente eccentrica non ha portato Camilleri fuori dalla grande famiglia degli scrittori di «gialli», o «polizieschi», o «noir», o «mistery», comunque li si voglia chiamare. Anzi. Basta ripercorrere la storia del romanzo «criminale» per rendersene conto.
In realtà non esiste poliziotto o investigatore privato della letteratura che non sia profondamente radicato a un preciso e riconoscibile luogo geografico. Si potrebbe immaginare, per esempio il Philip Marlowe di Raymond Chandler fuori da Los Angeles? O il commissario Maigret, quasi un alter ego di George Simenon, in una città che non sia Parigi? E lo stesso vale per il Lecocq di Emile Gaboriau (ancora Parigi), per i poliziotti dell'870 Distretto di Ed McBain (New York), per l'inglesissima Miss Marple di Agatha Christie (per Hercule Poirot non tanto, quello è soprattutto antipatico) o l'altrettanto superbritannico Sherlock Holmes di Arthur Conan Doyle, come per la Barcellona del Pepe Carvalho di Manuel Vazquez Montalban (cui fa manifestamente omaggio il Montalbano di Camilleri). Ma la regola vige anche in Italia: lavora a Milano il commissario De Vincenzi di Augusto De Angelis, a Torino si muove il Santamaria di Frutterò & Lucentini, e il Sarti Antonio (prima brigadiere, poi ispettore) non sarebbe lui senza Bologna, mentre il Ciccio Ingravallo del «Pasticciaccio» gaddiano perderebbe ogni senso al di fuori di Roma. Gli eroi del poliziesco agiscono, pensano, e parlano pure, in stretto rapporto col luogo che abitano: non potrebbe essere altrimenti, ne andrebbe perfino della loro credibilità.
Quindi, perché sorprendersi se Camilleri «sicilianizza» i suoi personaggi? È normale. Si potrebbe dire che è una scelta quasi obbligata. Si può discutere, semmai, della resa letteraria di questa scelta: un po' troppo insistita, spesso, fino a diventare estenuata in certi passi. Ma questa è tutta un'altra storia.


Mi. G.