LA SICILIA 11-04-1999
LA PRIMA DEL BIRRAIO DI PRESTON
Quell'andirivieni di personaggi al centro di una storia dall'ironia dolorosa
CATANIA - Il Teatro Margherita di Caltanissetta inagurato nel 1875 da un Macbeth di Verdi, non fu bruciato ne' prima ne' dopo la rappresentazione del Birraio di
Preston, ma certamente a seguito di questo spettacolo - mediocre nell'invenzione e discutibile ne;;'esecuzione e financo nei costumi - entro' in crisi, avendo "la societa' bene" nissena disdetto gli abbonamenti anche per protesta contro la pubblica amministrazione: il sindaco in primo luogo, ma soprattutto il prefetto Guido Fastuzzi (che Camilleri chiama
Bortuzzi), a causa di una sua relazione che disegnava i siciliani come una delle piu' spregievoli popolazioni d'Italia.
Storia e fantasia dunque nel Birraio di Preston, il romanzo di Camilleri trasposto per lo stabile di Catania in evento teatrale di singolare inpatto e di forte interesse, dallo stesso autore e da Giuseppe Dipasquale che assumeva anche il ruolo di regista dello spettacolo.
Fantasia e storia dicevamo. Ma storica e' l'opera lirica, quel Birraio di Preston cioe' di Luigi Ricci (l'autore della piu' nota Crispina e la Comare), che forse alcuni lettori e spettatori hanno creduto invenzione di Andrea Camilleri e che invece ci viene documentata non solo dalle biografie del musicista al debutto alla Pergola di Firenze nel 1845, ma addirittura al Politeama Castagnola di Catania nel 1883, al centro di una stagione lirica molto impegnativa che comprendeva, tra l'altro un Barbiere di Siviglia, Norma, Il trovatore e La forza del destino.
Alla fantasia del romanziere invece appartiene la citta' di Vigata e molti dei suoi abitanti, ma e' certo che morti, ingiustizie, operazioni mafiose e tipici connubi tra mafia e politica in cui erano coinvolti sia lo sciocco e presuntuoso prefetto che i deputati del tempo, sono stati e sono nella realta' isolana sanguinose ferite di ben difficile guarigione.
Premessa necesaria per entrare nel mondo falso-vero e vero-falso da
racconto storico (o pseudo-tale) di questo scrittore dell'Agrigentino, i cui libri di un vago colore giallo-rosa-giallo hanno raggiunto tiratura da romanzo americano.
Premessa per entrare in quel mondo, dicevamo, ma anche per sentirne la
dolorosa ironia, anzi il grottesco che calcando i toni fino alla beffa - ma cio' si coglie ancor meglio nell'intensa regia di Dipasquale nei ritmi stravolgenti e coinvolgenti da lui dati all'intera rappresentazione - tenta di addomesticare una realta' che non su puo' definire drammatica perche' autenticamente tragica.
Tutto questo va' colto nel libbro e nello spettacolo, anche per capire la costante iterazione di avvenimenti e discorsi, il correre ora qua' e
la', e aventi e indietro al fine di ritornare spesso nello stesso luogo e nello stesso tempo, ma soprattutto per renderci conto di una congerie di morti ammazzati che a prima vista puo' sembrae gratuita, per dimostrarsi poi terrifica e veridica sol che si volga lo sguardo non solo alla storia alla quotidianita' della cronaca.
Certo non e' facile seguire in teatro l'andirivieni di fatti e personaggi o il recupreo di discorsi iniziati istanti prima ma gia' sopraffatti dall'evolversi di cose, parole, avvenimenti, odi, amori, presunti, furti, incendi, uccisioni; certo uno sfoltimento di alcune situazioni, piu' valide in sede romanzesca che sulla scena, avrebbe reso piu' facile agli spettatori inseguire il contraddittorio andamento degli avvenimenti; certo il riddure sotto i limiti televisivi le bordate di turpiloquio (qui addirittura in misura maggiore che nel romanzo) avrebbe fatto guadagnare piacevolezza allo spettacolo e non c'e' dubbio che il cronista deve osservare tutto
cio', ma e' anche suo dovere percepire la validita' di un accusatorio processo al nostro costume, alla nostra
criminalita', alla nostra cosiddetta giustizia, ai nostri vizi che spesso diventano delitti.
Ed ecco allora affiorare nell'umorismo del Camilleri, che il regista rende estremamente esplicito fino alla piu' parodica
carricatura, una vione Brechtiana del Teatro, dove un racconto, - si badi non la rivisitazione veristica di persone e fatti - deve spingere alla riflessione, rendendo amaro il riso verso il quale spingono le vicende e la provocante trasgressivita' di esse.
Ci sarebbe molto altro da dire, ma una notazione in ogni caso va' fatto: se un Teatro come lo Stabile catanese da qualche tempo in crisi pu tra mille difficolta' e' capace di offrire uno spettacolo di tale qualita' e
professionalita, esso merita ben altra sorte di quella temuta e che mentre scriviamo e' stata in buona parte sanata giusto
con l'imprevista nomina a direttore artistico di Andrea Camilleri.
C'e' da dire infatti che quei miracoli scenografici, nonostante il gusto e l'inventiva di Antoni Fiorentino (i "pasticciati" costumi erano di Gemma Spina), non avrebbero potuto avere attuazione senza tecnici da grande teatro.
Cosi' come quella illuminata e originale regia che non ha avuto mai cadute di tono, non avrebbe potuto prendere corpo e superare certe
cennate lungaggini (ma a questo su puo' ovviare con coraggiosi tagli che allegeriscano anche i citati eccessi di
volgarita'), senza una partecipazione entusiasta ed entusiasmante degli interpreti.
Di Miko Magistro in primo luogo, storico e Deus ex machina dell'intera rappresentazione, in corsa fin dalle prime battute per giungere coerentemente al finale; e poi di Armando Bandini sottile e furbo boss
punito da una mafia piu' forte della sua; di Giulio Brogi, il delegato Puglisi forse unico personaggio quasi positivo nel testo di
Camilleri;
di Mariella Lo Giudice, la vedova ipocrita dal sesso arrabbiato;
di Tuccio Musumeci, efficacemente comico nel disegnare - lui esplicitamente siculo - il presuntuoso e sciocco prefetto fiorentino;
di Marcello Perracchio, invasivo e invadente nei vari ruoli ricoperti;
ee ancora di Gianni Alderuccio, Virginia Bianco, Filippo Brazza, Carmela Buffa, Buffa
Calleo, Valeria Contadino, Francesco Di Vincenzo,
Rocco Di Vincenzo, Turi Giordano, Orazio Mannino, Leonardo Marino,
Camillo Mascolino, Margherita Mignemi, Franco Mirabella, Ignazio Pappalardo, Salvo
Perdichizzi, Raniera Ragonese e Sergio Seminara nelle numerose e tavolta' contrapposte personificazioni, tutte estremamente importanti per il loro costante gioco di coerenze-incoerenze e di comicita' sapida e - non sempre contraddittorio -
drammaticamente immediata.
Seppure con qualche stanchezza il pubblico non ha lesinato feste
allo spettacolo, soprattutto perche' l'ha visto come un avvenimento di pregio, vissuto alla sala Verga alla stregua di tanti altri momenti sciasciani o della esaltanta e indimenticata "Lunga vita di Marianna
Ucria" di Dacia Maraini
Domenico Danzuso