La Repubblica 24-04-1999

Il birraio di Preston fiaba sull'arte di stato

CATANIA - È uno spettacolo alla ricerca del paese perduto, una fiaba collettiva sull'arte di stato e una partitura sensuale, ma è soprattutto una macchina scenica che grazie a dissolvenze e tapis roulants sforna personaggi e storie così come sono puntualmente orditi e ordinati nel romanzo conosciutissimo di Andrea Camilleri, Il birraio di Preston in versione ora recitata con adattamento dello stesso autore e del regista Giuseppe Dipasquale per lo Stabile di Catania. L'affresco ottocentesco siciliano c'è per intero, e così pure le dispute per quell'ingiunzione del prefetto locale d'origine fiorentina, che vuole s'inauguri il teatro dell'immaginaria Vigàta con un melodramma minore di Luigi Ricci; e c'è il tempistico incendio del teatro ad opera di sovversivi, la tragedia di due amanti che finiscono carbonizzati, il crescere delle faide, l'esplodere della futilità del tutto. È semplice e complesso, il discorso sulla congruità anche sonora, visiva ed emozionale di questo universo camilleriano. Dal punto di vista dell'impianto, la struttura di Antonio Fiorentino è agile e asettica, consiste d' uno spiazzo vuoto transitato da scenari su nastro, mentre i lati sono forgiati come pareti d'edificio, alias palchetti o ballatoi. Il rispetto della mappa del romanzo pone dal vivo più difficoltà, va detto, d'un approccio alla pagina. Una ventina d'attori interpreta una folla di personaggi, talora con qualche dispersione, eccetto tre figure fisse (quelle del Prefetto, del Delegato e di Don Memè), l'impegno d'una sola attrice nelle parti delle sorelle Concetta e Agatina, e l'espediente di un Narratore-Autore che oltre a fare da filo rosso incarna anche più tipi. Forse si poteva puntare in maggiore misura su qualche primo piano, sfoltendo il pur efficace procedimento di lettura-messinscena alla maniera del Gadda di Ronconi. E l'ampio cast dei minuziosi capitoli fanno forse perdere qualche piccola grande malìa. Eppure questo lavoro poggia anche su indubitabili chiavi di fascino spettacolare, di passione, di intensità evocativa. Vanto dell'attuale trascrizione è il miraggio notturno del paese sospeso in aria per l'effetto prodotto dai bagliori dell'incendio agli occhi del ragazzo con cui s'apre, unica variante dal romanzo, il ciclo delle vicende, ma è stupendo pure quel talamo spiato dall'alto, dietro un velario a illustrazione delle mimiche d' approccio in chiesa, fra la vedova (protagonista poi d'un monologo di letterarie allusioni sessuali) e il ganzo che a letto verranno ustionati dalle fiamme più che dalle voglie. Consumata e conflittuale è la bravura di Giulio Brogi nelle vesti d'un compromesso Delegato; particolarmente grottesca e felice è la prova di Tuccio Musumeci come prepotente, miope e toscanaccio Prefetto; prodiga nelle fantasie erotiche e nell'identità specchiata è Mariella Lo Giudice; opportunista e maldestinato è il Don Memè di Armando Bandini; fatalmente didascalico l'Autore di Miko Magistro. Nella minuziosa regia-contenitore di Dipasquale c'è una calda voce fuori campo: è quella di Camilleri che pronuncia le battute iniziali dei capitoli con maestria antica da oracolo.
Rodolfo Di Giammarco