Repubblica 13-05-1999

CAMILLERI
A Vigàta sbarca la mafia 

UN NUOVO ROMANZO

di FRANCESCO ERBANI


Il nuovo romanzo di Andrea Camilleri, La mossa del cavallo (Rizzoli, pagg. 248, lire 25.000), si legge senza interruzioni, come si beve un gran sorso d'acqua. E' ambientato nel 1877 nella solita Vigàta (Porto Empedocle), in provincia di Montelusa (Agrigento), un anno dopo che a Roma si è consumata la cosiddetta rivoluzione parlamentare, con l'avvento al governo della Sinistra al posto della Destra. E trae spunto, come accade altre volte in Camilleri, da uno dei tanti episodi raccolti nell'inchiesta sulla Sicilia di Leopoldo Franchetti. Ma con più consistenza di altre volte ne La mossa del cavallo compare la mafia - una mafia che prende parte attiva alla politica, alla vita delle istituzioni, e non è solo fenomeno banditesco; che domina gli affari leciti e controlla quelli illeciti, che si infila nella coscienza degli uomini, ma non è la stessa cosa del "sicilianismo", e semmai a certi modelli culturali e antropologici si affianca, spremendoli e sfruttandoli. Camilleri è uno scrittore che ha allestito un grande baule di temi e di moduli narrativi, di schemi linguistici e di antecedenti letterari, e li estrae per ogni romanzo, sistemandoli in maniera diversa. A seconda delle preferenze, qualcuno proverà un senso di saturazione di fronte a questo "pistiare e ripistiare sempre nello stesso mortaio" (sono parole di Camilleri, quasi a prevenire l'obiezione); qualche altro apprezzerà l'arte combinatoria, la straordinaria affidabilità dello scrittore - e sono molti di più questi ultimi, visti i dati di vendita di ogni suo romanzo e la corsa che gli editori ingaggiano per accaparrarselo. Sul fenomeno Camilleri si è già detto molto. "Scoperto" quando aveva compiuto i settant'anni, il padre del commissario Montalbano si è mosso in quella invisibile rete che si forma sotto la superficie dell'attualità letteraria e che sfugge ai critici, agli editori e ai compilatori di classifiche. Il suo primo libro è del 1978 (Il corso delle cose, edito da Lalli: un samizdat). Il secondo, del 1980 (Un filo di fumo, Garzanti), impressiona Sciascia e, suo tramite, Elvira Sellerio. Con la signora dell'editoria siciliana Camilleri pubblica tutti i suoi romanzi. A metà degli anni Novanta le tirature di Camilleri lievitano, prima dieci, poi venti, quindi trentamila copie ogni titolo, che per Sellerio sono una manna dal cielo. Il tam tam diventa insistente, le sue storie scivolano di bocca in bocca: le inchieste di Montalbano, l'appuntato Catarella, i piatti di pesce, il mare che divide la Sicilia dall'Africa e che un giorno portò i coloni greci. E poi i racconti ambientati alla fine dell'Ottocento, con molto Pirandello, la Sicilia di provincia, i suoi aristocratici ottusi tanto diversi da quelli più europei che vivono a Palermo, i suoi burocrati, i prefetti. E infine la lingua, un siciliano che distilla gli umori più terragni dell'isola, un dialetto ostentato, che però capiscono ovunque in Italia. Camilleri coglie il successo soltanto un paio d'anni fa. L'estate scorsa occupa integralmente le classifiche di narrativa italiana. Compaiono articoli sui giornali. Nelle librerie, accanto agli stranieri, alla storia, alla politica, spunta il reparto Camilleri, e lo scrittore conquista il raro privilegio di vedere in fila sugli scaffali tutti i suoi titoli. A giugno esce un volume da Mondadori - eccezione concordata con Elvira Sellerio - che raccoglie piccole inchieste di Montalbano, ma che non ha la felicità inventiva dei precedenti. Per la fine dell'anno era annunciato il ritorno da Sellerio con un libro intitolato Il re di Girgenti, una storia romanzata di quando, sul finire del Seicento, la città dei templi si fregiò di una propria monarchia. Ma l'eccezione si è ripetuta con il romanzo che esce ora da Rizzoli. La mossa del cavallo racconta la storia di un ispettore inviato a Vigata per sovrintendere all' attività dei mulini. I due predecessori in quell' incarico sono morti ammazzati e Giovanni Bovara, originario di Vigàta ma vissuto sempre a Genova, sente puzza di bruciato fin da quando, messo piede in ufficio, si imbatte nell'intendente di finanza, suo superiore, e nei vice ispettori. Il quadro che gli si para dinanzi è quello di una gigantesca corruzione: gli ispettori non vigilano e incassano tangenti dai produttori. Sull'intreccio malavitoso vigila don Cocò Afflitto, figura appena accennata, ma la cui incombenza criminale è completa. Camilleri non cita mai la parola mafia, ma di questo si tratta: Afflitto controlla i mulini, il giornale del paese, il parlamentare eletto nel collegio, l'intendente di finanza, le forze dell'ordine, alcuni professionisti e si spinge fin dentro il palazzo di giustizia, dove solo il Procuratore del re, un torinese, conserva integrità e acume investigativo. Su questo fondale si innesta un'altra vicenda, l'omicidio di un prete usuraio e donnaiolo, che il comitato d'affari di Vigàta cerca di addebitare al povero Bovara, già bollato come pazzo e visionario per i suoi tentativi di stroncare i traffici illeciti. Il finale sgorga da una trovata linguistica: Bovara, che fino ad allora ha parlato in italiano ed ha pensato in genovese (e questo plurilinguismo è una novità per Camilleri: ma forse la spreca, perché non la scioglie nella narrazione, mettendola come in tante parentesi) improvvisamente sceglie di esprimersi in siciliano, dominando la situazione e rovesciando la trappola costruita per lui. La mossa del cavallo non ha l'irruenza comica del Birraio di Preston né il groviglio narrativo de La concessione del telefono. E' un Camilleri di buona fattura, abilissimo nell'orchestrare la narrazione, i documenti (pregevole il carteggio burocratico, ma non all'altezza della Concessione) e le citazioni letterarie (da Pirandello a Faulkner, da Hemingway a Hammett). Eppure in certe parti non trova il passo giusto restando a mezza strada fra il tentativo di innovare e il desiderio di assestarsi sui modelli a lui più congeniali.