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La gita a Tindari di Andrea Camilleri

Le cifre del caso Camilleri sono sconcertanti e vieppiù lo divengono, col trascorrer del tempo: dovrebbero essere circa tre milioni le copie che l’anziano scrittore siciliano è riuscito a vendere negli ultimi anni, numeri ancor più sbalorditivi se li si pensa guadagnati in un paese ove da sempre l’editoria lamenta penuria d’acquirenti.
Come i volumi che l’han preceduto, domina le classifiche da diverse settimane "La gita a Tindari" (Sellerio, pp.292, L.15.000), più recente avventura dell’ormai celeberrimo commissario Montalbano, qui chiamato a far luce su di un misterioso triplice omicidio: lo aiutano nell’indagine un vecchio ulivo contorto, la sua squadra, la svedese Ingrid, un libro di Conrad ed un Innominato senza pentimento.
Raccontata come d’uso in una lingua ibrida, metà italiano metà dialetto siculo, la detection di questo Maigret di Trinacria, più colto, teso ed irregolare (più "nirbùso e squieto", direbbe l’autore) dell’originale, si svolge ovviamente nello scenario suggestivo dell’immaginaria Vigàta: di nuovo, c’è forse solo un incremento di ferocia, che annuncia "un’epoca di delitti spietati, fatti da anonimi, che avevano un sito, un indirizzo su Internet o quello che sarebbe stato, e mai una faccia, un paro d’occhi, un’espressione", tanto da far sentire l’atipico investigatore "troppo vecchio oramà".
Poco amato dalla critica letteraria (con alcune significative eccezioni, Carlo Bo ed Angelo Guglielmi in testa), che forse non gli perdona il repentino e clamoroso successo (ma converrà ricordare che Camilleri esordisce con "Il corso delle cose" nel 1967, quando ha solo 42 anni: di gavetta ne ha fatta, ci sembra), il narratore di Porto Empedocle può contare sul durevole affetto dell’immensa sua schiera di lettori: meritato, ché questo Simenon degli aranceti, questo Graham Greene della calura conosce il segreto per coniugar cultura ed intrattenimento, bello scrivere e felice inscenare, in definitiva letteratura "alta" e "bassa". Quanti altri romanzieri italici, del presente o del passato, possono dir di se medesimi altrettanto?

Francesco Troiano