I compagni detective
Addio Holmes, Wolfe & C. Poliziotti e investigatori di carta sono oggi uomini di sinistra, più pronti al dialogo che all'azione. Disillusi e malinconici, con un passato di illusioni rivoluzionarie
di Sergio Pent
Si potrebbe cominciare valutando la direzione dei colpi esplosi verso il cattivo di turno: cuore, fronte, fegato, braccia e gambe. Un alternarsi di istintive rivendicazioni «sparate» in abiti legalmente riconosciuti, allo scopo di ripulire strade e quartieri dal virus della malavita. E poi, a missione compiuta, meglio un sano riposo familiare tuttocompreso o una nottata di follie a letti alterni, con risveglio imbastardito dagli eccessi? E come la mettiamo con il relax – più o meno ansiogeno – del boccone tritato tra un indizio e l'altro? L'hamburger planetario è di sinistra o è un lento veleno creato in laboratorio dalla destra estremistica? Whisky e vodka ingollati a garganella hanno valenza politica simbolica o mirano a scalfire l'integrità di una destra fisicamente individuata nel fegato, salvo dilagare nell'intero arco parlamentare del corpo? E che direzione prenderanno letture, hobby, vacanze e quant'altro?
Se Spillane galvanizza i suoi eroi nell'accoppiata alcol-donne, Camilleri cincischia con ruspanti trattorie e fedeltà
pseudo-coniugali, ma resta il fatto che l'immagine popolare dell'investigatore – di ogni latitudine etnica o politica – è sempre di solitudine eremitica incomprensibile ai vicini di vita: affetti, dolore e morte accomunano i personaggi a un'unica scelta di rotta che non sembra contemplare deviazioni, né a destra né a sinistra. L'ago della bilancia – ideale punto di democratici incontri di gruppo – vorremmo fosse rappresentato dalla smorfia di solenne indifferenza di Philip
Marlowe: chi più di lui raffigura l'indipendenza superiore – vagamente menefreghista – del cittadino estraneo a comizi, spettri del comunismo staliniano e proclami di purezza razziale delle destre naziste? L'eroe di Chandler cerca strade prive di compromessi, accontentandosi di una quotidiana offerta di sopravvivenza: se nella destra regge un cucchiaio colmo, dalla sinistra si levano le volute di fumo dell'immancabile droga di Stato. Arrivano dai due lati i compagni di viaggio di
Marlowe: sanno che è un gioco e accettano di giocarlo. Magari con il rischio di venir equivocati per una frase sbagliata, un colpo di troppo o un letto clandestino, anche perché la carne è debole e non ha colori politici.
Una destra machista e formalmente deprivata da motivazioni intellettuali ha il suo rampollo più classico nel tostissimo Mike Hammer di Mickey Spillane. La sua integrità virile si coniuga perfettamente con i dettami di un'eventuale destra storica: nessuna pietà per chi sgarra, a costo di stragi – 38 morti per mano sua, se non ricordiamo male, nei primi sei romanzi da protagonista – una volontà totalitaria di imporre il proprio credo. Il tutto in nome dell'ordine costituito, ma con valenze integraliste piuttosto settarie: il male è un'entità confusa che va combattuta con ostinazione; niente dibattiti, l'unica parola lecita viene sputata dalle armi da fuoco. A poco giovano le licenze in rosa del personaggio: anche i nazisti godevano di sontuosi festini privati tra una pulizia della razza e l'altra.
LONTANO DAL MONDO. Se Hammer rappresenta la manovalanza «spazzina» di una destra – speriamo – ormai archiviata, non si può prescindere da prototipi classicissimi che del loro snobistico individualismo hanno fatto un'arma di difesa dal contatto col popolino, eleggendosi a sani conservatori di un destino elitario e anche un tantino razzista. Racchiusi nelle loro torri investigative – la casa d'arenaria di Nero
Wolfe, le comodità borghesi di Sherlock Holmes, la grettezza un po' bigotta un po' fascista di Miss Marple – alcuni dei più famosi investigatori si muovono in ambienti privilegiati ed esclusivi, in cui tutto ciò che rientra nel loro raggio d'azione è rappresentato dal fondale dell'indagine, con relativi burattini da manovrare. Nella perfetta superiorità mentale di questi personaggi-simbolo della detection, possiamo ritrovare gli schemi assolutisti di una certa borghesia che non avrà mai nulla da spartire coi moti di piazza degli studenti o i cortei degli operai in mobilità. Se la body-guard Hammer allontanerebbe a suon di cazzotti le folle schiamazzanti dal suo datore di lavoro Gianfranco Fini, i borghesotti del trio Wolfe-Holmes-Marple potrebbero veleggiare quietamente rifocillati e a loro agio sulla nave elettorale di
Berlusconi.
Questi vecchi eroi appartengono a un'epoca in cui la dimensione popolare li escludeva a priori da un imbarbarimento dei contatti sociali: una loro eventuale superiorità intellettuale gratifica le folle, ma in quella elitaria capacità di «servire il popolo» con l'arma dell'arguzia risiede tutta una linea di valori poco altruisti, come accade ora in politica, quando in nome di una fantomatica giustizia etica e sociale si pianificano i propri interessi. Se da quelle parti transitasse il buon Maigret si sentirebbe a disagio, lui abituato alla cucina semplice della moglie, alla passeggiata per le vie del quartiere, alla Parigi ordinata e sommessa delle sue indagini: ma forse è solo una dimensione meno eclatante della sua appartenenza politica. Una sorta di piccola odissea borghese in grigio, con scarse motivazioni libertarie o rivoluzionarie nonostante il quotidiano contatto con i malesseri sociali. Consapevole dei valori da difendere, Jules Maigret rimarrebbe perplesso di fronte ai cambiamenti epocali che portano in casa linguaggi multietnici, e opterebbe per una destra federalista, ma senza confessarlo neppure a se stesso.
L'arco parlamentare di destra è piuttosto affollato di eroi – perlopiù solitari e violenti, fuori dal sistema ma decisi a riportarlo nei ranghi della più ferrea legalità – per cui forse l'idea di un ordine costituito passa attraverso una presa di posizione conservatrice, se non sotterraneamente xenofoba. Anche al cinema, dal solitario giustiziere della notte di Charles Bronson al granitico Callaghan di Clint
Eastwood, la violenza totalitaria assume connotazioni poco popolari, nonostante intenti di «bonifica» sociale dei personaggi in questione. Il luogo comune è quello di riconoscere in una simbolica destra senza partito tutto ciò che agisce come macchina bellica priva di connotazioni democratiche: l'ordine va riportato con la forza, non con il dialogo. Se a questi prototipi del noir più violento aggiungiamo la licenza di uccidere di James Bond ci ritroviamo nei paraggi dell'illegalità costituita pronta a salvaguardare le apparenze senza badare a forma e correttezza. L'idea popolare di giustizia ed eroismo si riconosce più in questi archetipi dell'invincibilità come salvaguardia da tutti i mali sociali: una specie di fai da te dell'ordine pubblico in mancanza di una legge dalla voce forte. Quasi sempre – soprattutto nei film – la polizia rimedia figure barbine nei confronti dell'eroe, messo comunque astutamente in buona luce dalla truculenta cattiveria dei malviventi di turno.
GROVIGLI DI MEMORIA. In questo le truppe di sinistra, nella loro spesso monotona vocazione introspettiva, dovrebbero rappresentare i peones dell'azione investigativa. Si muovono lenti, e della loro lentezza – unita a profonde considerazioni esistenzial-filosofiche – fanno un proclama assoluto: il mondo non cambia anche se si risolve con successo un'indagine difficile e pericolosa. Il valore intrinseco dell'esistenza si gioca sulle sensazioni minime di un'accomunante malinconia che cerca nella sostanza intima degli accadimenti le sue scarne certezze. Dal sole tiepido di Marsiglia dove tracannava pastis il defunto ex-commissario Fabio Montale del compianto Jean-Claude Izzo alla Barcellona aggrovigliata di memorie e di luci di Pepe
Carvalho, fino ai tristi tropici guevaristi di Paco Taibo II, l'intellighenzia investigativa di sinistra si apre al confronto con le perenni ingiustizie perpetrate dall'apparato sociale e politico. Se la destra vigorosa degli Hammer e dei Tiger Man di Spillane combatte contro un sistema accomunabile a un fantasma politico mangiabambini ormai a dieta, la sinistra individualista degli eroi di questi autori si muove su fondali altalenanti tra pubblico e privato, mafia internazionale o caccia al serial killer di turno, memorie di un passato doloroso – spesso eversivo – che torna a galla e confronto con sempre nuove e inattaccabili leve del potere. Che rimane l'unico nemico comune tanto degli Hammer quanto dei
Carvalho. Se i primi se ne vanno sbattendo la porta, i secondi tornano con la pazienza di Giobbe al loro salotto del pianto e divagano sul senso della vita, fino al prossimo caso.
Ovviamente i classici del genere rientrano in più precise catalogazioni omogenee: dal calderone latinoamericano è assai facile estrapolare rivoluzionari di passaggio che nella loro ricerca di giustizia infondono il carattere primario di un'appartenenza ideologica: Héctor Belascoarán, il detective di Taibo II nato dalla noia di una quotidianità lavorativa per salvare l'umanità inquinata di Città del Messico, è uno dei tanti prototipi di orfani d'un comunismo che della propria ideologia aveva fatto cibo per il futuro di non poche generazioni. Nella sua scanzonata rappresentazione di uno dei tanti reduci del Sessantotto – perché poi soprattutto da lì, o dall'inferno del Vietnam giungono molti archetipi di una possibile sinistra investigativa – Paco Taibo ha materializzato le vicissitudini politiche e intellettuali di quanti vanno trovando il senso d'appartenenza a un'ideologia in disarmo, che per anni era stato il solo simbolo di rinascita sociale. C'è chi continua a credere in un riscatto, ma dal proprio esilio alcolico o naturale, come il magnifico Montale di
Izzo, che dai tavolini in ombra della solare Marsiglia recupera memorie e affetti scavando in un passato in cui libertà e rivoluzione erano termini intercambiabili, colorati di rosso acceso.
GENTE TORMENTATA. Senza giungere ad affermare che certe appartenenze di sinistra amano piangersi addosso, è indubbiamente più tormentato il rapporto esistenziale dei detective d'area ex comunista rispetto alla fredda – o solo logica – indifferenza con cui i loro colleghi di destra rimettono in ordine le pedine senza troppi rovelli. Lo stesso Salvo
Montalbano, tormentato rampollo di un Sessantotto ancora da realizzare, nella sua comodosa e ben nutrita ricerca di colpe altrui guarderebbe di storto le barche dei
D'Alema e le auto blu dei vari ministrucoli – un tempo di vedute extraparlamentari – ripulite dai pomodori da loro stessi lanciati. Ma forse è proprio cambiato il mondo, e in questa dimensione di valori e di aree politiche intercambiabili, trovare un cattivo come capro espiatorio può risultare soltanto un gioco dettato dall'occasione.
In quale orizzonte parlamentare potrebbero mai riconoscersi le schiere di ex illusi tornati a casa con fobie e rattoppi dalle guerre nelle risaie vietnamite, senza più trovare un concreto punto di riferimento? La sinistra è forse più che mai il partito della nostalgia, ma in un anelito di giustizia individuale si riconoscono ancora vecchie illusioni ideologiche, motivate ormai solo dalle spinte positive del cuore, perché credere, soffrire e – spesso – sacrificarsi per la «causa» è una parte essenziale e irrinunciabile della vita. Le schiere compatte degli Hieronymus Bosch – Connelly – degli Elvis Cole – Crais – dei Matt Scudder – Block – dei C.W. Sughrue – Crumley – dei Dave Robicheaux – Burke – dei Lew Archer – Mac Donald – agiscono in base a un riflusso che li identifica come eterni perdenti in una società indaffarata a crescere intorno a se stessa e ai propri affari. «Chi fa il mio mestiere ha bisogno di una saldezza morale che io non pretendo più di possedere...» confessa Sughrue dal basso delle sue disgrazie quotidiane. Ma in queste confessioni, e nel perenne bisogno di credere che ogni gesto del passato abbia avuto dignitosa ragion d'essere, si trova il fulcro di un'appartenenza ideologica che solo un sano anelito popolare può accettare nei suoi cortei di protesta. C'è anche chi di certa sinistra farebbe volentieri a meno, come l'ispettore Rostnikov di Stuart
Kaminsky, o la Kamenskaja della Marinina, ma sono i casi limite di universi politici in disarmo o in
ri-evoluzione, e forse non saprebbero da che parte schierarsi in un ideale parlamento di casa nostra: potrebbero cominciare con l'agitare un rametto d'ulivo in groppa a un quieto asinello, tanto per prendere le misure della nostra miscellanea politica.
In tempi di ansiose vocazioni europeiste, i ruoli un po' si confondono, non c'è nostalgia che tenga – né a destra né a sinistra – anche se certe ambizioni tuttocompreso dei nostri governanti starebbero larghe addosso all'individualismo fuori campo di molti dei nostri più cari eroi. Esiste anche – e sempre più diffuso – il partito del non-voto: una forma di umana e civile protesta, o il senso di una mancata appartenenza, in attesa di tempi e climi più definiti. E qui ci stanno bene quasi tutti, Marlowe in testa, assai poco convinto dai profili titubanti dei politici di ogni repubblica seguito dai suoi numerosi nipotini elettivi: lo Spenser di Parker come il Senzanome di
Pronzini, l'Aurelio Zen di Dibdin come il Déveure di Basset-Chercot, per non parlare degli «immigrati» di lusso come l'indiano Joe Leaphorne di Hillerman o il nero Easy Rawlins di
Mosley, che un vero senso d'appartenenza lo trovano nella loro dimensione etica e/o etnica, senza troppi minimalismi partitici provinciali.
In questo senso il detective nostrano galleggia nell'inadeguatezza di tempi provvisori: spesso gioca ai margini, si autoesclude da facili teoremi d'appartenenza politica, riflette un'immagine che – nella sua incolore anatomia – lascia spazio soprattutto alla delusione delle promesse mancate. Creature di confine, dalle quali gli autori fanno partire possibili dibattiti di autoanalisi sociale, ma pur sempre mosche bianche – o pecore nere – nel sofferto rapporto con un contesto in cui la mediazione investigativa tra buoni e cattivi si gioca sul filo di un disagio difficile da catalogare in un'area politica. Gli estremi del discorso possono trovar spazio nei profili antitetici del Duca Lamberti di Scerbanenco o nel Marco Buratti – l'Alligatore – di Massimo
Carlotto: un medico radiato dall'ordine per pratica d'eutanasia – e siamo negli anni Sessanta! – e un reduce metà ideologo metà canaglia come l'Alligatore, rappresentano un segno di protesta isolata nei confronti di ogni tipo d'istituzione. I mondi di Lamberti e di Buratti mostrano un panorama scuro e minaccioso: le ingiustizie non hanno colori definiti, e il male incombe sia dall'alto delle autorità politiche ed economiche che dai bassifondi delle nuove ondate malavitose d'importazione. Se la giustizia, a conti fatti, diventa un attimo di opinabili vendette private a cui tutti aderiscono come si può aderire al partito del male minore, allora diventa anche impossibile gestire tutti i cani sciolti della detection: in un mondo in cui un certo tipo di giustizia risulta comodo a tutti – dai milanesi che ammazzano il sabato ai massacratori di delinquenze mafiose o dell'est – la matrice politica vira comunque verso un isolamento sociale generalizzato, causa ed effetto di se stesso. Se poi vogliamo considerare l'ipotesi di partenza dei personaggi come una scelta di schieramento degli autori, allora è lecito definire le appartenenze in un'area di simboliche eversioni – da destra a sinistra, con numerosi punti di riconoscimento – in cui la legalità deve poter agire oltre l'ordine costituito per ritrovare una sua dimensione, forse caratterialmente «barbarica» ma disgiunta comunque dalle frequenti «amnesie» della giustizia burocratica che dimentica in carcere gli innocenti e rimette in libertà stragisti impuniti.
Gli stessi prototipi di una eventuale appartenenza politica dichiarata – i commissari De Vincenzi del lontano Augusto De Angelis e il De Luca del recentissimo Lucarelli – sono di per sé eroi solitari che agiscono di riflusso in un contesto al quale dovrebbero legalmente sottostare operando per una più o meno giusta causa comune. La superiore anarchia intellettuale di De Vincenzi e la dignitosa parabola di mestierante del caso di De Luca – simbolicamente riscattato dalle colpe fasciste nell'ultima sua avventura, Via delle oche – simboleggiano comunque una inadeguatezza di fondo del momento politico in cui agiscono. La legalità è pur sempre qualcosa di indefinito, che si muove sul confine di relazioni politiche più di convenienza che non di convinzione: e in questo possiamo ritrovare gran parte dei detective nostrani, dal remoto e «inquadrato» De
Vincenzi, appunto, al ribelle per scelta – e per necessità legate anche alle mazzate politiche – dell'Alligatore, passando per la quieta provincialità ricca soprattutto di rimembranze libertarie e populistiche del solito Salvo
Montalbano. Se più esplicite sono le matrici della sinistra più o meno riconosciuta – da Camilleri a
Macchiavelli, da Carlotto a Santo Piazzese – occorre precisare che molti detective operanti in ambienti, epoche e situazioni di stampo più conservatore, quando non di destra, trovano una loro ragion d'essere nell'individualismo un po' esasperato che in parte li redime e in parte giustifica la loro adesione a un ordine costituito, a uno Stato che, comunque, chiude un occhio e riconosce in essi la divisa della legalità. Così per il De Luca di
Lucarelli, quindi, ma anche per il Pietro Contini di Edoardo Angelino o il commissario Sartori di Franco
Enna.
CATALOGO DIFFICILE. Una chiara e riconoscibile posizione politica è dunque difficile da catalogare, anche riferendoci agli eroi in utilitaria di casa nostra. Siamo soprattutto debitori di prototipi e situazioni, e se anche l'ambiente e i personaggi offrono il fianco a seriose o satiriche prese di posizione, il modo di agire dei vari investigatori si rivela generalmente eversivo o anarchico nei confronti di ogni autorità costituita. Gli ideali, come quasi sempre accade nella vita, appartengono al tempo delle mele o dei primi ingenui cortei anti qualcosa. E comunque, questi difensori della giustizia dal passo strascicato o dal cazzotto facile, in tempi di pacificazione giubilare, potremmo raccoglierli tutti a capo chino in piazza San Pietro a recitare il mea culpa per le troppe vittime – più o meno lecite – delle loro faticose attività. Terreno neutrale di riconciliazione anche politica, colombe in volo: benedice Padre
Brown.
Veri resistenti
di Paco Ignacio Taibo II
Quando nel 1990 trovandomi con molti altri scrittori per la fondazione dell'Aiep, associazione che riunisce gli autori di polizieschi di tutto il mondo, mi ero divertito a fare un'inchiesta. Domandavo a tutti: «Dov'eri e cosa facevi nel '68?». E così, citando alla rinfusa, mi ricordo che l'americano Roger Simon era nel Movimento dei diritti civili degli Stati Uniti, Jerome Charyn stava occupando l'università di Columbia a New York, il francese Jean-Patrick Manchette occupava invece la Sorbona, Manuel Vázquez Montalbán era chiuso nella chiesa di Montjuich protestando contro Franco, Juan Madrid nello sciopero dell'università di Madrid, io nel movimento studentesco messicano. E potrei andare avanti a lungo. In pratica era riunita tutta una generazione di scrittori che usciti dalle esperienze dei movimenti degli anni Sessanta, quando decise di mettersi a scrivere, scelse il poliziesco perché era il prolungamento naturale di quella maniera di discutere, di raccontare un delitto che molto spesso era di Stato. In un certo senso era anche quello che Leonardo Sciascia faceva già da anni in Italia. E questa generazione ha rinnovato il poliziesco, il giallo che si scrive ancora adesso. Per fare altri nomi gli americani Martin Cruz-Smith, Ross Thomas, Andrew Bergman, Marc Behm, James Crumley, Kinky Friedman, lo scozzese William McIllvanney, il francese Jean-Claude Izzo, l'inglese Derek Raymond, il brasiliano Rubem Fonseca, lo spagnolo Andreu Martin, l'italiana Laura Grimaldi, l'uruguayano Daniel Chavarría, l'argentino Rolo Díez, e, per citare qualcuno più giovane, Carlo Lucarelli o lo scozzese Ian Rankin. E molti molti altri. Era logico che questa generazione producesse una letteratura ipercritica, sociologica, piena di humour nero, diagonale nel senso che tagliava la società dal castello ai quartieri più miserabili. Lo stesso fenomeno che stava accadendo nel fumetto e che si era prodotto nei decenni precedenti nella fantascienza americana che era stata la grande riserva di pensiero critico e di utopia. Perché una generazione di scrittori sensibili socialmente si era mossa verso questi sottogeneri? Credo soprattutto perché al tempo stesso in cui facevamo una proposta politica ne stavamo facendo anche una culturale: la ribellione superando le divisioni e le differenze dei sottogeneri.
Da qui, dal superamento di questi confini nasce un detective di sinistra, più sensibile e contro il sistema. Un vero resistente.