TALIARE E’ MEGLIO DI GUARDARE
di Marina Di Leo
ITALIANI E STRANIERI CAPISCONO IL DIALETTO SICILIANO. L’HA SCOPERTO ANDREA CAMILLERI, GRAZIE AI SUOI BEST-SELLER SCRITTI IN UNA LINGUA CHE RISPETTA COSTUMI, PENSIERI E SENTIMENTI ISOLANI. ANALIZZIAMO IL CURIOSO FENOMENO
C'è un dubbio che tormenta i neolettori di Camilleri non siciliani:
"che cosa significherà taliare?". La soluzione dell'enigma
però è a portata di mano, quasi tutti hanno un amico, un
collega d'ufficio, un vicino di casa di origini isolane e perciò
in grado di svelare il mistero. Ma anche se qualcuno si trovasse nell'improbabile
situazione di non aver nessuno a cui chiedere spiegazioni, basterà
che costui decida di perseverare nelle sue letture camilleriane e la soluzione
verrà da sé. Sì, perché la lingua dello scrittore
agrigentino, per quanto astrusa possa sembrare oltre lo Stretto, possiede
alcune caratteristiche che, superato il primo impatto, la rendono di facile
comprensione. Innanzitutto la ricorrenza delle espressioni: leggendo l'incipit
di uno dei racconti de Gli arancini di Montalbano, il neolettore,
poniamo torinese, potrebbe non capire perché il commissario scenda
dalla macchina "taliando torno torno". Che vuol dire? si chiederà
sgomento. Poi, leggendo il rigo successivo, scoprirà che sono le
sei del mattino, e allora magari azzarderà l'ipotesi che Montalbano
stia 'sbadigliando mogio mogio'. Così, rassicurato da un'interpretazione
sufficientemente credibile, l'inesperto lettore potrà tornare al
racconto. Non tarderà, però, a scoprire che si può
taliare in alto e in basso, che per taliare al buio occorre una lampada,
e che per favorire la concentrazione non c'è nulla di meglio che
taliare il mare fumando in silenzio. A questo punto, anche il piemontese
più ostinato non potrà aver dubbi sul significato del verbo
misterioso, e per di più avrà trascorso una mezzora esilarante
in compagnia di personaggi come il commissario Montalbano e gli agenti
Fazio e Catarella, che non tarderà a considerare persone reali.
Insomma, da neofita che era, sarà diventato senza accorgersene un
appassionato lettore dei libri di Andrea Camilleri. Certo, gli capiterà
di incontrare nella lettura altre parole incomprensibili, come tanticchia,
acchianari, picciliddro, cataminarsi, ma ormai nulla potrà fermarlo.
Ha imparato il trucco: quando non capisce qualcosa, prosegue imperterrito
e poco dopo incontrerà lo stesso termine usato in un contesto più
esplicito. Il frequente ripetersi di un numero tutto sommato limitato di
espressioni oscure gli consentirà di decifrarle senza difficoltà.
A rendergli più agevole il compito contribuisce la struttura
grammaticale e sintattica della lingua usata da Camilleri, che è
sostanzialmente italiana. Ci sono, è vero, alcune coloriture vernacolari
(come l'uso frequente del passato remoto o la collocazione del verbo in
fine di frase) ma ciò non costituisce certo un ostacolo alla comprensione.
Il cinema, il teatro e la letteratura stessa hanno, infatti, ampiamente
contribuito a diffondere lo stereotipo del siciliano che si presenta dicendo:
"Montalbano sono"; o che precisa: 'Ora ora telefonò...'. Non è
difficile, dunque, per il lettore impadronirsi della lingua e dei personaggi
di Camilleri, anche perché in qualche modo li possiede già,
rientrano nell'immaginario dell'italiano medio.
La lingua dello scrittore agrigentino, inoltre, essendo giocata sul
continuo alternarsi del registro alto con quello basso ,sull'abile dosaggio
di termini dialettali e termini colti, sulla mescolanza di reminiscenze
letterarie e di espressioni popolari, produce dei curiosi effetti che hanno
il merito di essere efficaci e divertenti al tempo stesso. Il solito lettore
torinese - che, entrato ormai nella schiera dei fans del commissario Montalbano,
sarà corso in libreria a comprare La gita a Tindari - non
si lascerà scomporre dal fatto che, dopo un incendio, "si era levato
tanticchia di vento lèggio lèggio e la cenere se ne stava
sollevata a mezz'aria prima di ricadere impalpabile". Non c'è dubbio
che la frase gli risulterà di facile comprensione e che quel 'tanticchia
di vento lèggio lèggio' lo stuzzicherà più
di una banale brezzolina. E se poi il nostro lettore vorrà passare
all'altro filone di Camilleri, quello dei romanzi storici, scoprirà
che anche lì i cambiamenti di registro sono frequenti e abbonda
il ricorso al dialetto, anzi ai dialetti di regioni diverse e di tempi
diversi. "Nel romanzo storico - dice lo scrittore agrigentino in La
testa ci fa dire - un certo lavoro di ricerca è indispensabile:
se devo raccontare un contadino siciliano del '700, ho bisogno di capire
come parlava ai suoi tempi. E mentre cerco di capirlo, il personaggio comincia
a prendere forma; nasce, quasi, dalle parole che deve dire".
Così, ne La mossa del cavallo, la condizione di disagio
linguistico in cui viene a trovarsi il protagonista genovese, che non capisce
il siciliano, comporta una sua più generale difficoltà a
comprendere i meccanismi mentali degli isolani. Allo stesso modo, il lettore,
lombardo o siciliano che sia, deve affrontare l'arduo compito
di tradurre pagine e pagine scritte in genovese. Un dialetto difficile
e poco conosciuto - ammette lo stesso autore -,e per questo particolarmente
adatto a mettere chi legge in una condizione di difficoltà, speculare
a quella del protagonista.
Ma, se nel caso de La mossa del cavallo Camilleri
lancia esplicitamente una sfida al lettore - cogliendolo di sorpresa con
la presenza di un dialetto imprevedibile in un romanzo ambientato in Sicilia
e costringendolo a un pesante sforzo interpretativo - molto meno arduo
è il consueto linguaggio rnescidato, italo-siciliano, degli altri
romanzi. E se anche la lingua della Vigàta camilleriana provoca
un iniziale sussulto, ben presto l'esotismo di questa parlata si trasforma
in un senso di familiarità: i lettori - di qualunque regione italiana
siano - conoscono e riconoscono gli stilemi, si aspettano i "giramenti
di cabasisi" di Montalbano e le "farfanterie" contate da Augello per nascondere
le sue avventure amorose, gli 'straparramenti' di Catarella e le "litanie"
di Fazio che elenca con zelo burocratico le generalità di chicchessia.
E proprio sul registro dei 'burocratese' è giocato quasi per intero
l'ultimo romanzo di Camilleri, La scomparsa di Patò,
in cui il dialetto diventa una delle tante varietà linguistiche
all'interno di quello che potremmo definire un vero e proprio inventario
di forme tipiche della comunicazione scritta. Il romanzo, infatti, è
costruito come una sorta di dossier che raccoglie articoli di giornale,
messaggi anonimi, lettere e verbali ufficiali. Imparato il lessico di base,
compresi i meccanismi del codice linguistico, familiarizzato con i personaggi,
nell'animo dell'accanito lettore si fa spesso strada un'invincibile tentazione:
sostituirsi all'autore. Valanghe di lettere si ammassano sul tavolo di
Camilleri, complimenti, dichiarazioni di stima - come ne ricevono tutti
gli scrittori di successo - ma anche qualcosa di insolito: suggerimenti,
consigli, avvertimenti. Il caso più curioso è quello di un
biglietto scritto in puro 'stile Catarella', ossia in una lingua maccheronica,
ridondante, oscura e irresistibilmente comica. Il messaggio dell'agente
accompagna una busta contenente una lettera del questore (anche in questo
caso, scritta nello stile del personaggio in questione), che avverte Montalbano
di aver ricevuto, e inizialmente cestinato, una missiva anonima in cui
viene posta in dubbio l'onestà del commissario: a scatenare i sospetti
è la grossa somma di denaro affidatagli ne Il ladro di merendine,
ma
di cui non si hanno più notizie nei libri successivi. Il plico contiene
naturalmente anche la lettera dell'ignoto accusatore, tutta stropicciata,
come se davvero fosse stata buttata via e poi recuperata. Un lavoro certosino,
che dà la misura di quanto il mondo e la lingua dell'immaginaria
Vigàta possano essere abilmente maneggiati dai lettori. "Una cosa
straordinaria", commenta Camilleri in La testa ci fa dire. "Pensa
alle ore che uno perde, non solo per scrivere, ma per costruire la lettera
anonima e forse per entrare nel meccanismo del romanzo".
Ma abbandoniamo adesso sia il lettore torinese sia le migliaia di suoi
compagni sparsi sull'intera penisola e vediamo che cosa succede quando
i libri di Camilleri varcano i confini nazionali. Può sembrare strano,
ma lo scrittore agrigentino riesce ad aver successo anche all'estero, e
negli ultimi anni si sono moltiplicate le case editrici straniere interessate
ad acquistarne i diritti. Il primo paese a cimentarsi in questa scommessa
editoriale è stata la Francia, dove nel 1998 è uscito La
forme de l'eau (pubblicato da Fleuve noir). La difficile traduzione
è stata firmata da Serge Quadruppani con l'aiuto della siciliana
Maruzza Loria. E se la resa del titolo non ha certo costituito un problema,
le prime difficoltà sono sorte con l'incipit: "Lume d'alba non filtrava
nel cortiglio" diventa 'La clarté de l'aube ne penetrait pas dans
la cour', dove si perdono sia il prezioso "lume", normalizzato in 'luce',
'chiarore', sia il dialettale "cortiglio" trasformato in un regolamentare
'cortile'. E come rendere, più avanti, "tambasiare"? Il verbo siciliano
significa 'ingannare il tempo giocherellando distrattamente', qualcosa
come 'rigirarsi i pollici'; ma in questo caso il traduttore invece di se
tourner les pouces ha trovato una soluzione più appropriata
e nello spirito della lingua di Camilleri: rousiner, un termine
dialettale bretone, conosciuto però in tutta la Francia. Nell'impossibilità
- spiega Quadruppani - di rendere esattamente il testo originale, è
più opportuno adottare una strategia che in qualche modo ne ricrei
l'atmosfera. Per questo, si è scelto di volta in volta se tradurre
le parole siciliane in francese corrente o facendo ricorso a termini del
'francitano'. La preferenza accordata ai dialetti del Sud - con l'unica
eccezione, appunto, del bretone rousiner - risponde ad almeno due
esigenze: si tratta, grazie alla tradizione della letteratura occitanica,
di lingue piuttosto note sull'intero territorio nazionale e in più
restituiscono al testo l'originario "sapore meridionale".
Insomma - come sempre - saper tradurre significa saper tradire. E la
strategia adottata da Quadruppani è stata evidentemente efficace,
visto che il libro ha avuto successo e che poco dopo molti altri volumi
di Camilleri sono stati pubblicati in Francia e nei paesi dell'Europa mediterranea,
ma non solo: le traduzioni si sono moltiplicare anche nel Regno Unito,
in Olanda, in Svezia, in Polonia, in Irlanda, in Lituania, in Germania
(per la casa editrice Piper uscirà a gennaio La stagione della
caccia tradotto da Monika Lustig, con la consulenza del palermitano
Francesco Gambaro). E, ancora, al di là degli oceani: negli Usa,
in Sudamerica e perfino in Giappone.
Ma quale sarà il tambasiare nipponico?
LA PARLATA DELL’AGENTE CATARELLA
SUL SITO INTERNET "THE CAMILLERI’S FANS CLUB", FONDATO DA UN GRUPPO DI APPASSIONATI LETTORI DELLO SCRITTORE AGRIGENTINO, UN SAGGIO DI JANA VIZMULLER-ZOCCO SU "IL DIALETTO NEI ROMANZI DI ANDREA CAMILLERI", DI CUI PUBBLICHIAMO UNA SINTESI
Il testo completo dell’articolo all’indirizzo jana.html