EM – L’Euromediterraneo, dicembre 2000

TALIARE E’ MEGLIO DI GUARDARE

di Marina Di Leo

ITALIANI E STRANIERI CAPISCONO IL DIALETTO SICILIANO. L’HA SCOPERTO ANDREA CAMILLERI, GRAZIE AI SUOI BEST-SELLER SCRITTI IN UNA LINGUA CHE RISPETTA COSTUMI, PENSIERI E SENTIMENTI ISOLANI. ANALIZZIAMO IL CURIOSO FENOMENO

C'è un dubbio che tormenta i neolettori di Camilleri non siciliani: "che cosa significherà taliare?". La soluzione dell'enigma però è a portata di mano, quasi tutti hanno un amico, un collega d'ufficio, un vicino di casa di origini isolane e perciò in grado di svelare il mistero. Ma anche se qualcuno si trovasse nell'improbabile situazione di non aver nessuno a cui chiedere spiegazioni, basterà che costui decida di perseverare nelle sue letture camilleriane e la soluzione verrà da sé. Sì, perché la lingua dello scrittore agrigentino, per quanto astrusa possa sembrare oltre lo Stretto, possiede alcune caratteristiche che, superato il primo impatto, la rendono di facile comprensione. Innanzitutto la ricorrenza delle espressioni: leggendo l'incipit di uno dei racconti de Gli arancini di Montalbano, il neolettore, poniamo torinese, potrebbe non capire perché il commissario scenda dalla macchina "taliando torno torno". Che vuol dire? si chiederà sgomento. Poi, leggendo il rigo successivo, scoprirà che sono le sei del mattino, e allora magari azzarderà l'ipotesi che Montalbano stia 'sbadigliando mogio mogio'. Così, rassicurato da un'interpretazione sufficientemente credibile, l'inesperto lettore potrà tornare al racconto. Non tarderà, però, a scoprire che si può taliare in alto e in basso, che per taliare al buio occorre una lampada, e che per favorire la concentrazione non c'è nulla di meglio che taliare il mare fumando in silenzio. A questo punto, anche il piemontese più ostinato non potrà aver dubbi sul significato del verbo misterioso, e per di più avrà trascorso una mezzora esilarante in compagnia di personaggi come il commissario Montalbano e gli agenti Fazio e Catarella, che non tarderà a considerare persone reali. Insomma, da neofita che era, sarà diventato senza accorgersene un appassionato lettore dei libri di Andrea Camilleri. Certo, gli capiterà di incontrare nella lettura altre parole incomprensibili, come tanticchia, acchianari, picciliddro, cataminarsi, ma ormai nulla potrà fermarlo. Ha imparato il trucco: quando non capisce qualcosa, prosegue imperterrito e poco dopo incontrerà lo stesso termine usato in un contesto più esplicito. Il frequente ripetersi di un numero tutto sommato limitato di espressioni oscure gli consentirà di decifrarle senza difficoltà.
A rendergli più agevole il compito contribuisce la struttura grammaticale e sintattica della lingua usata da Camilleri, che è sostanzialmente italiana. Ci sono, è vero, alcune coloriture vernacolari (come l'uso frequente del passato remoto o la collocazione del verbo in fine di frase) ma ciò non costituisce certo un ostacolo alla comprensione. Il cinema, il teatro e la letteratura stessa hanno, infatti, ampiamente contribuito a diffondere lo stereotipo del siciliano che si presenta dicendo: "Montalbano sono"; o che precisa: 'Ora ora telefonò...'. Non è difficile, dunque, per il lettore impadronirsi della lingua e dei personaggi di Camilleri, anche perché in qualche modo li possiede già, rientrano nell'immaginario dell'italiano medio.
La lingua dello scrittore agrigentino, inoltre, essendo giocata sul continuo alternarsi del registro alto con quello basso ,sull'abile dosaggio di termini dialettali e termini colti, sulla mescolanza di reminiscenze letterarie e di espressioni popolari, produce dei curiosi effetti che hanno il merito di essere efficaci e divertenti al tempo stesso. Il solito lettore torinese - che, entrato ormai nella schiera dei fans del commissario Montalbano, sarà corso in libreria a comprare La gita a Tindari - non si lascerà scomporre dal fatto che, dopo un incendio, "si era levato tanticchia di vento lèggio lèggio e la cenere se ne stava sollevata a mezz'aria prima di ricadere impalpabile". Non c'è dubbio che la frase gli risulterà di facile comprensione e che quel 'tanticchia di vento lèggio lèggio' lo stuzzicherà più di una banale brezzolina. E se poi il nostro lettore vorrà passare all'altro filone di Camilleri, quello dei romanzi storici, scoprirà che anche lì i cambiamenti di registro sono frequenti e abbonda il ricorso al dialetto, anzi ai dialetti di regioni diverse e di tempi diversi. "Nel romanzo storico - dice lo scrittore agrigentino in La testa ci fa dire - un certo lavoro di ricerca è indispensabile: se devo raccontare un contadino siciliano del '700, ho bisogno di capire come parlava ai suoi tempi. E mentre cerco di capirlo, il personaggio comincia a prendere forma; nasce, quasi, dalle parole che deve dire".
Così, ne La mossa del cavallo, la condizione di disagio linguistico in cui viene a trovarsi il protagonista genovese, che non capisce il siciliano, comporta una sua più generale difficoltà a comprendere i meccanismi mentali degli isolani. Allo stesso modo, il lettore, lombardo o siciliano che sia, deve affrontare l'arduo compito di tradurre pagine e pagine scritte in genovese. Un dialetto difficile e poco conosciuto - ammette lo stesso autore -,e per questo particolarmente adatto a mettere chi legge in una condizione di difficoltà, speculare a quella del protagonista.
Ma, se nel caso de La mossa del cavallo Camilleri lancia esplicitamente una sfida al lettore - cogliendolo di sorpresa con la presenza di un dialetto imprevedibile in un romanzo ambientato in Sicilia e costringendolo a un pesante sforzo interpretativo - molto meno arduo è il consueto linguaggio rnescidato, italo-siciliano, degli altri romanzi. E se anche la lingua della Vigàta camilleriana provoca un iniziale sussulto, ben presto l'esotismo di questa parlata si trasforma in un senso di familiarità: i lettori - di qualunque regione italiana siano - conoscono e riconoscono gli stilemi, si aspettano i "giramenti di cabasisi" di Montalbano e le "farfanterie" contate da Augello per nascondere le sue avventure amorose, gli 'straparramenti' di Catarella e le "litanie" di Fazio che elenca con zelo burocratico le generalità di chicchessia. E proprio sul registro dei 'burocratese' è giocato quasi per intero l'ultimo romanzo di Camilleri, La scomparsa di Patò, in cui il dialetto diventa una delle tante varietà linguistiche all'interno di quello che potremmo definire un vero e proprio inventario di forme tipiche della comunicazione scritta. Il romanzo, infatti, è costruito come una sorta di dossier che raccoglie articoli di giornale, messaggi anonimi, lettere e verbali ufficiali. Imparato il lessico di base, compresi i meccanismi del codice linguistico, familiarizzato con i personaggi, nell'animo dell'accanito lettore si fa spesso strada un'invincibile tentazione: sostituirsi all'autore. Valanghe di lettere si ammassano sul tavolo di Camilleri, complimenti, dichiarazioni di stima - come ne ricevono tutti gli scrittori di successo - ma anche qualcosa di insolito: suggerimenti, consigli, avvertimenti. Il caso più curioso è quello di un biglietto scritto in puro 'stile Catarella', ossia in una lingua maccheronica, ridondante, oscura e irresistibilmente comica. Il messaggio dell'agente accompagna una busta contenente una lettera del questore (anche in questo caso, scritta nello stile del personaggio in questione), che avverte Montalbano di aver ricevuto, e inizialmente cestinato, una missiva anonima in cui viene posta in dubbio l'onestà del commissario: a scatenare i sospetti è la grossa somma di denaro affidatagli ne Il ladro di merendine, ma di cui non si hanno più notizie nei libri successivi. Il plico contiene naturalmente anche la lettera dell'ignoto accusatore, tutta stropicciata, come se davvero fosse stata buttata via e poi recuperata. Un lavoro certosino, che dà la misura di quanto il mondo e la lingua dell'immaginaria Vigàta possano essere abilmente maneggiati dai lettori. "Una cosa straordinaria", commenta Camilleri in La testa ci fa dire. "Pensa alle ore che uno perde, non solo per scrivere, ma per costruire la lettera anonima e forse per entrare nel meccanismo del romanzo".
Ma abbandoniamo adesso sia il lettore torinese sia le migliaia di suoi compagni sparsi sull'intera penisola e vediamo che cosa succede quando i libri di Camilleri varcano i confini nazionali. Può sembrare strano, ma lo scrittore agrigentino riesce ad aver successo anche all'estero, e negli ultimi anni si sono moltiplicate le case editrici straniere interessate ad acquistarne i diritti. Il primo paese a cimentarsi in questa scommessa editoriale è stata la Francia, dove nel 1998 è uscito La forme de l'eau (pubblicato da Fleuve noir). La difficile traduzione è stata firmata da Serge Quadruppani con l'aiuto della siciliana Maruzza Loria. E se la resa del titolo non ha certo costituito un problema, le prime difficoltà sono sorte con l'incipit: "Lume d'alba non filtrava nel cortiglio" diventa 'La clarté de l'aube ne penetrait pas dans la cour', dove si perdono sia il prezioso "lume", normalizzato in 'luce', 'chiarore', sia il dialettale "cortiglio" trasformato in un regolamentare 'cortile'. E come rendere, più avanti, "tambasiare"? Il verbo siciliano significa 'ingannare il tempo giocherellando distrattamente', qualcosa come 'rigirarsi i pollici'; ma in questo caso il traduttore invece di se tourner les pouces ha trovato una soluzione più appropriata e nello spirito della lingua di Camilleri: rousiner, un termine dialettale bretone, conosciuto però in tutta la Francia. Nell'impossibilità - spiega Quadruppani - di rendere esattamente il testo originale, è più opportuno adottare una strategia che in qualche modo ne ricrei l'atmosfera. Per questo, si è scelto di volta in volta se tradurre le parole siciliane in francese corrente o facendo ricorso a termini del 'francitano'. La preferenza accordata ai dialetti del Sud - con l'unica eccezione, appunto, del bretone rousiner - risponde ad almeno due esigenze: si tratta, grazie alla tradizione della letteratura occitanica, di lingue piuttosto note sull'intero territorio nazionale e in più restituiscono al testo l'originario "sapore meridionale".
Insomma - come sempre - saper tradurre significa saper tradire. E la strategia adottata da Quadruppani è stata evidentemente efficace, visto che il libro ha avuto successo e che poco dopo molti altri volumi di Camilleri sono stati pubblicati in Francia e nei paesi dell'Europa mediterranea, ma non solo: le traduzioni si sono moltiplicare anche nel Regno Unito, in Olanda, in Svezia, in Polonia, in Irlanda, in Lituania, in Germania (per la casa editrice Piper uscirà a gennaio La stagione della caccia tradotto da Monika Lustig, con la consulenza del palermitano Francesco Gambaro). E, ancora, al di là degli oceani: negli Usa, in Sudamerica e perfino in Giappone.
Ma quale sarà il tambasiare nipponico?
 

LA PARLATA DELL’AGENTE CATARELLA

SUL SITO INTERNET "THE CAMILLERI’S FANS CLUB", FONDATO DA UN GRUPPO DI APPASSIONATI LETTORI DELLO SCRITTORE AGRIGENTINO, UN SAGGIO DI JANA VIZMULLER-ZOCCO SU "IL DIALETTO NEI ROMANZI DI ANDREA CAMILLERI", DI CUI PUBBLICHIAMO UNA SINTESI

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