Il Secolo XIX, 14/11/2000

Intervista con Andrea Camilleri
Anche l'italiano fa ridere
Camilleri lascia il siciliano, ma solo per questa volta

"La scomparsa di Patò" è un collage di documenti. Finti, frutto di pura invenzione, ma documenti: lettere, verbali, rapporti, proclami, articoli di gazzetta. Non c'è alcuna parte in presa diretta, romanzata…

Ho voluto tentare una sperimentazione, portando all'estremo quel che avevo fatto in libri come "La concessione del telefono", dove i "documenti" avevano già una forte importanza. In "Patò" se il lettore vuol costruirsi un'immagine di un personaggio lo può fare traendola da quello che ognuno scrive, dal suo linguaggio… per questo i linguaggi sono fortemente differenziati, da quello aulico del sottosegretario Pecoraro Grand'Ufficiale Artidoro al rapportino stilato dal maresciallo dei carabinieri.

Così scompare quasi completamente il siciliano "alla Camilleri".

E' stata una necessità. Dovendo fingere di riportare articoli di giornale, documenti interni e rapporti di polizia, non potevo che utilizzare l'italiano. Ma anche qui non sempre lo stesso italiano: ho sperimentato un italiano di alto e basso livello.

Qua e là riemerge un po' del siciliano alla Camilleri. Una lingua che rileggeremo?

Non c'è dubbio.

Come ha ricostruito questo italiano aulico, burocratico, pretenzioso ed esilarante?

Ho un prezioso dizionario, "Elenco delle parole in disuso", pubblicato nel 1920. Quindi parole ottocentesche, già in disuso all'inizio del Novecento. Per me è una miniera. Comunque, il linguaggio della burocrazia ha imperversato fino a noi. Quando avevo dieci anni, mio padre trovò in una comunicazione ministeriale la parola "oscittanza". Ne ignoravamo il significato. Dal professore di italiano seppi che significava "esitazione". Ho usato "oscittanza" in un libro.

L'incomprensibilità del potere fa parte del gioco.

Il linguaggio burocratico o "alto" diventa un linguaggio sacerdotale, un gioco di esclusione. Così il cittadino ne rimane terrorizzato. Una volta dimenticai di pagare una rata di un'enciclopedia. Mi arrivò un avviso che conteneva l'espressione "sorte capitale". Roba da domandarsi se ti tagliano la testa. L'espressione si riveriva agli interessi, ma l'effetto era notevole.

S'è divertito molto nel distribuire i nomi dei personaggi.

Lo confesso.

Questo Franco Lo Forte che fa Ponzio Pilato nella sacra rappresentazione del Mortorio, come viene fuori?

Beh, beh…come un caso. Un caso e una necessità.

Suvvia, Franco Lo Forte è uno dei pubblici ministeri del processo ad Andreotti…

Cose che capitano…

Bernardo Provenzano, omonimo dell'inafferrabile boss mafioso, che recita nel "Mortorio"?

Eh, eh.

E c'è anche Filippo Mancuso, ex Guardasigilli.

Ah, ma Filippo Mancuso c'è sempre, nei miei libri. E' la terza volta che appare. Ci sono affezionato. Con tutto il rispetto per la persona, Filippo Mancuso è proprio di quelli che certo linguaggio aulico non l'hanno mai abbandonato.

E c'è anche un "Andrea Camilleri insegnante".

E' un omaggio a Sciascia, che una volta disse "io sono un maestro elementare".

Sciascia stimava molto il ruolo del maestro elementare in Italia.

Anch'io.

Il gioco delle citazioni non si limita a nomi attuali, la principessa Piovasco da Rondò…

Da Italo Calvino, naturalmente.

E Sciascia ritorna in una citazione indiretta…

Certo: quando il delegato di Pubblica Sicurezza vuole risalire al giornale dal quale sono state ritagliate le lettere per comporre la lettera anonima, il procedimento che usa è esattamente lo stesso di "A ciascuno il suo".

E poi, c'è questa citazione in trasparenza del "Fu Mattia Pascal" di Pirandello, la doppia vita di Patò: "Patò spirì, spirì Patò, cu l'ammazzò?"…

Giusto, il Mattia Pascal è molto presente. Non possiamo non dirci pirandelliani.

Questo suo libro ha molte chiavi…

Ma si può leggere anche solo come divertissement.

Qualcuno trova Pirandello un po' superato.

Io no. Ho appena terminato di scrivere una biografia su Pirandello, una biografia molto parziale: concentrata sul suo rapporto col padre. Pirandello aveva un rapporto terribile, conflittuale, con il padre, poi questo rapporto improvvisamente cambia. Io mi chiedo perché.

Il rapporto con il padre, in Sicilia, è un nodo fondamentale dell'identità, più che altrove.

Sicuramente. Forse per questo sono attirato ad indagarlo.

La biografia analizza documenti, immagino, e lettere…

Terribili lettere.

Lei che ricorre così tanto all'epistolario sia nei romanzi che, ora, in un saggio, scrive molte lettere personali?

Mai. Mai scritte. Io sono della generazione del telefono. Poi è venuta la generazione dell'email superata da quella del "messaggino" sul cellulare. La morte della comunicazione scritta. Sopravviveranno solo i grandi epistolari, Petrarca, Abelardo e Eloisa…

Senta come va con il commissario Montalbano? E' diventato ingombrante?

No, no, gli voglio sempre bene. Lui è esigente, per forza. Dice: io ti ho dato il successo, quindi tu mi devi tanto. Per questo prevarica un po', soprattutto altri personaggi. E' un po' cannibale.

Che fa, lo uccide?

Neanche per sogno, io sono contro la pena di morte sempre, anche in letteratura. Non mi va di uccidere i miei personaggi, meno che mai Montalbano. Ho già dovuto sacrificare con dolore il suo amico Gegè, per far sparare a Montalbano almeno un colpo di pistola, altrimenti non avrebbe sparato mai…

Beh, allora lo fa sposare con Livia.

Non lo so. Ci penso. Sì e no. Non ho deciso e questo mi dà un meraviglioso senso di onnipotenza.

Non sempre gli scrittori sono liberi di far morire i propri personaggi.

Lo so bene. Anche Conan Doyle cercò di buttare Sherlock Holmes giù da un burrone. Ma ricevette tante proteste che fece ritornare su Holmes.

E se Montalbano morisse, come morirebbe?

Oh, sono sicuro: in modo borghesissimo.

Erika Dellacasa