La nuova Sardegna 21.05.2001
Le ragioni per non mollare
Da dove ripartire lo spiega Antonio Tabucchi, in un collegamento telefonico:
stampa e sinistra, meno passaggi trasversali, meno palleggi, e soprattutto
meno autocompiacimento. Lo scrittore non era fisicamente presente al convegno
in cui Micromega presentava l'ultimo dei sei numeri che ha fatto uscire
settimanali per tutto il periodo elettorale. Ma questo numero, intitolato
significativamente «Non mollare» come una storica rivista antifascista,
è in edicola da giorni. A fare gli onori casa Paolo Flores d'Arcais,
con lui al tavolo della presidenza Marco Travaglio, l'autore di «L'odore
dei soldi», il direttore di Raidue Carlo Freccero, il giudice Giancarlo
Caselli, gli scrittori Andrea Camilleri, arrivato un pò affannosamente
con il treno all'ultimo minuto, e Vincenzo Cerami. Travaglio, che poi parlerà
per ultimo, viene chiamato direttamente in causa da Paolo Flores d'Arcais
nella breve introduzione in cui spiega che sono stati raccolti, oltre che
protagonisti e animatori di questa esperienza elettorale, rappresentanti
di professioni che hanno di particolare il fatto che le capacità
e l'impegno professionali coincidono con l'impegno civile, con i valori
fondamentali e condivisi sui quali si fonda una società aperta.
L'imparzialità del magistrato che tratta allo stesso modo il piccolo
scippatore che porta via poche centinaia di migliaia di lire e il grande
finanziarie che in un giro di falsi in bilancio fa sparire centinaia di
miliardi; quella del giornalista che non crede di fare niente di più
del suo dovere quando rivolge ai potenti domande sgradite e ne documenta
scrupolosamente le malefatte. Ma per il direttore di Micromega, il mondo
in questi anni ha conosciuto uno strano capovolgimento, per cui quando
magistrati e giornalisti fanno il loro dovere nei confronti di potenti
nei confronti dei quali emergono elementi di accusa, vengono accusati di
accanimento e faziosità. Come accade quando un comico nel corso
di una trasmissione invita un giornalista, Marco Travaglio, che ha scritto
un libro nel quale si riportano fatti per altro già noti, e si scatena
un putiferio. Freccero prende la parola per primo, è lui il responsabile
della «felix culpa» di aver dato via libera a Travaglio. Ma
spiega di non sentirsi affatto in colpa. La scelta è nata da una
ricerca di identità, da un ragionare su quella grande marmellata
che è la televisione. Poi aggredisce quello che sarà per
buona parte il tema principale. Il punto è la cancellazione, l'oscuramento
di tutto ciò che è estraneo al consenso, critico. Si è
perso, dice, perché nell'arco di vent'anni il processo culturale
berlusconiano ha attuato l'equazione tra consenso e democrazia, così
che tutto ciò che è minoritario diventa scandaloso. Tornare
a citare la Scuola di Francoforte, infischiandosi di chi ritiene che sia
un atteggiamento anacronistico, la filosofia critica. In una logica strettamente
televisiva la partecipazione di Travaglio alla trasmissione di Luttazzi
è perfettamente normale, quello che la ha resa scandalosa è
il processo in cui, da un dato positivo, la nascita di una pluralità
di televisioni, è nato un effetto devastante. E ora occorre riaffermare
che il potere di critica deve esistere ancora. Va sul pratico Caselli,
a ricordare che la segnalazione del rischio che la mafia riprendesse vigore
era stato segnalato da lui stesso e dal collega Ingroia. Ricorda poi un
episodio che non ha avuto molto rilievo ma inquietante: il deputato di
Forza Italia Micciché, dopo la pubblicazione sul Giornale dell'elenco
dei magistrati palermitani che avevano partecipato alla presentazione palermitana
del libro di Travaglio, aveva rivolto una interrogazione al ministro della
Giustizia, non solo ma aveva anche interpellato il procuratore generale
di Palermo, quasi ad attribuirgli un potere di controllo e di censura,
su opinioni, letture, frequentazioni dei suoi sotituti, equiparati così
a dipendenti. Una filosofia della gerarchizzazione degli uffici giudiziari
che non può non suscitare preoccupazione venendo da chi ha riaffermato
la sua intenzione di modificare la Costituzione per abolire l'obbligatorietà
dell'azione penale e affidare le priorità dei processi al governo
e all'esecutivo. Mentre già si vedono le conseguenze di scelte che
negli anni hanno portato a un processo rapido, quasi stritolatore per alcuni,
e per altri a un bizantino ipergarantismo che in una sconfinata prateria
di eccezioni e nullità porta inevitabilmente alla prescrizione.
Tabucchi parla dal telefono. Il forfait per motivi di salute aveva suscitato
qualche apprensione che fuga spiegando di essersi rotto un dito di un piede.
Flores d'Arcais lo introduce dicendo che il più importante premio
catalano di giornalismo è stato assegnato a lui, che giornalista
non è, per la lettera aperta a Ciampi intitolata «Difesa della
libertà di opinione» pubblicata su Micromega e ripresa dalle
più importanti testate europee ma senza grande eco sui giornali
italiani. Tabucchi afferma di sentirsi molto italiano, e gli rincresce
che quel premio gli sia stato assegnato all'estero, invece che in Italia,
magari in un piccolo paesino toscano come il suo. Ma ne ha un po' per tutti,
certo, le responsabilità di Bertinotti e i suoi troppi sorrisi televisivi,
ma questo aggiunge, è fin troppo facile, parla del compiacimento
di una stampa italiana, anche la più progressista nel magnificare
la visita di D'Alema al Papa con tutta la famiglia («chissà
se ha portato anche il cane») e Berlusconi che «si porta in
giro la madre sui suoi transatlantici». Cerami torna a parlare del
problema del consenso, lui che è stato all'opposizione sempre, tranne
la breve stagione del governo Prodi che ha vissuto come una boccata di
ossigeno. Ma già la telefonata di un giornalista che voleva sapere
cosa pensasse della nomina di Siciliano alla Rai e che lui troncò
brusco dicendo che non accettava provocazioni e mettendo giù il
telefono (salvo scoprire poco dopo che era vero) gli tolse un po' di tranquillità.
Camilleri conquista la platea: Flores d'Arcais gli chiede cosa si può
fare per evitare che Montalbano, che dice di non poter più lavorare,
non si dimetta. «Fino a pochi mesi fa Montalbano lavorava benissimo.
Basta ristabilire la situazione di qualche mese fa. Elementare Watson.
Montalbano vuole occuparsi di politica senza arresti da parte dei suoi
superiori. Cioè, arresti nel senso di stop, perché ora bisogna
stare attenti alle parole». E' l'inizio di un gioco lessicale che
scatena la platea, con Flores d'Arcais che racconta di avergli dato il
suo numero di cellulare e lo scrittore siciliano, allarmato: «Ma
sei matto, il cellulare? Ti chiamo sul telefonino». E poi rivendica
al gruppo di Micromega («la banda, la lobby, che si riuniva in casa d'Arcais a complottare, ma io Cerami lo vedo qui per la prima volta, Tabucchi
speravo di conoscerlo stasera, pazienza») la propria «scorrettezza
politica, l'insofferenza per minuetti e giri di valzer. Cui accusano di
fare il gioco di Berlusconi attaccandolo, ma come dovremmo combatterlo,
non dicendo quello che pensiamo? Noi siamo uomini liberi, io ho 76 anni
e sono nato sotto il segno del littorio, non vorrei morire sotto qualche
altro segno».
Mario De Murtas