La Repubblica 13.05.2001

"Ma il mio ‘idioletto' si è scritto da solo"
Sono tre le questioni sostanzialmente poste dal professor Francesco Tateo: la prima sui dialetti in generale (afferma che sarebbe anacronistico proporli come "forma di rinnovamento linguistico e di realismo espressivo" rispetto alla lingua nazionale); la seconda sulla "presunzione di disporre di un dialetto che possa funzionare alla pari di tutti i dialetti che hanno avuto la ventura di entrare nella tradizione letteraria nazionale"; infine si chiede comunque "se non sia ormai troppo tardi" per un qualche recupero o valorizzazione nella letteratura dei dialetti e delle lingue che non hanno una "tradizione" come quella siciliana o veneta o napoletana. Un interrogativo che Tateo lascia senza risposta, immediatamente dopo la positiva rilevazione a proposito di "Capatosta" dell'"arricchimento dei registri del barese con un racconto che lo adotta per un registro prevalentemente melanconico e drammatico". L'impressione che si ricava dallo stato della narrativa italiana di più: della narrativa mondiale è che non è chiaro se sia troppo tardi o troppo presto, ma che sta succedendo qualcosa di epocale. In ogni parte del mondo, si riscoprono (e si mescolano con lingue che hanno una tradizione) lingue, dialetti e slang appartenenti a popoli, ceti e gruppi che non avevano mai avuto un posto nella storia, figuriamoci nella letteratura, e che in una qualche maniera si riprendono il diritto alla parola. E' quello che succede in Usa, in Francia, in India, in Sud Africa, dove ferve il dibattito sul "meticciato linguistico". Ed è quello che succede in Italia, non solo con Camilleri o con la mia opera, ma con decine di altri autori pubblicati in autorevoli e consolidate collane letterarie, ed anche con autori di origine straniera e, per dirla tutta, extracomunitaria. "Capatosta" nasce in questo contesto, è una scheggia di questo fenomeno globale. Appunto, la globalizzazione. Qualcuno comincia a chiedersi addirittura "se non sia ormai troppo tardi" per le lingue nazionali. Se non sia ormai troppo tardi, in particolare, per il definitivo consolidamento dell'egemonia della lingua toscana, dopo appena un cinquantennio di autentica unificazione linguistica. E non si tratta, com'è noto, solo di economia globale e di Internet. Ci sono anche l'unificazione europea e quell'insieme di processi politicosociali che vanno dal federalismo al regionalismo, dalle tendenze scissionistiche alla devolution, per non parlare –riguardo specificatamente Bari e la Puglia della ritrasformazione di questo pezzo di mondo da periferia dell'Italia e dell'Europa a terra di collegamento, di passaggio e di intreccio fra genti, economie, culture e linguaggi dell'Occidente e dell'Oriente. Per non parlare dei biblici flussi immigratorii in atto. Cosa sarà dell'Italia e dell'italiano anche solo fra ventiquarant'anni? Che lingua parleranno, scriveranno e leggeranno i nostri figli e nipoti, oltre all'inglese, il "nuovo latino"? Del resto, è inutile chiederselo. La lingua, il linguaggio umano è per definizione un fenomeno imprevedibile e non programmabile. Si evolve e si trasforma continuamente. Va dove lo portano i molteplici e contraddittori fattori dell'evoluzione e della trasformazione del consorzio umano che lo usa. Ciò vale, attraverso percorsi più o meno complessi, anche per il livello letterario della competenza e delle pratiche linguistiche. In questo senso non saprei dire se "Capatosta" rifletta coerentemente un fenomeno lineare. Certo è che non si tratta di una solitaria e tecnica sperimentazione letteraria. In quel libro è raccontata un'Italia mai descritta, si muovono persone che non si sono mai affacciate alla storia e certo mai alla letteratura, e che parlano e pensano in dialetto. In quel dialetto. Quel linguaggio, quell'"idioletto", se si può dire, si è scritto da solo. Quel "registro prevalentemente malinconico e drammatico" è stato dettato dalla descrizione di una realtà evidentemente e prevalentemente malinconica e drammatica. Non usarlo avrebbe significato di fatto tradire quella storia, annacquarla, occultarla, di fatto non raccontarla, alla fine rimuoverla. Con ogni parola toscana –parafrasando Svevo avrei mentito. Certo, i dialetti "senza tradizione", quando sono stati portati sulla pagina scritta, in teatro, in Tv o al cinema, hanno avuto un uso farsesco, ridanciano o pateticocomico. Salvo pochi grandi casi, la stessa straordinaria tradizione letteraria dialettale italiana, unica al mondo, ha sempre fatto da contrappunto alla produzione in toscano, non ha avuto una sua autonomia e originalità di temi, di toni e di storie. Ma ci deve essere stato qualche motivo serio perché questo accadesse. E anche per il fatto che, dopo Gadda e Pasolini, abbiamo dovuto aspettare la fine del secolo e del millennio perché le collane editoriali più importanti, la critica più accreditata e le librerie più frequentate riaprissero le porte a "romanzi di parola", alla lingua e alle storie degli italiani in quanto persone fisicamente allocate su specifici territori, angustiate da problematiche e animate da speranze e opportunità diverse anche tra quartiere e quartiere (figuriamoci fra regione e regione), da ceto a ceto... Qualche motivo che evidentemente ha a che fare con la subalternità economica e politica di certi mondi, di certe regioni, di certe classi. Quale originalità di apporti culturali può mai esprimere la subalternità? Chiedersi "se non sia ormai troppo tardi"? Una fatto è certo: le cose sono cambiate profondamente e cambieranno ancora con un ritmo, forme e contenuti imprevedibili. Forse la Puglia, Bari, il barese, i dialetti, i diseredati grazie al progresso, grazie a Internet, grazie all'Europa, grazie alla globalizzazione, grazie alla sedimentazione di certi valori culturali e democratici, eccetera eccetera non sono più subalterni e periferici come una volta. O possono non esserlo più come una volta. Tutti gli indicatori informativi e statistici documentano, insieme alla forza dominante della dimensione globale, una crescente consistenza e una straordinaria vivacità delle "nicchie regionali", economiche, culturali, istituzionali ed evidentemente anche linguistiche. E il guardarsi indietro, il riscoprire le radici, il recuperare la materialità della nostra esistenza possono costituire, poi, non solo un antidoto individuale allo smarrimento, ma anche una necessità collettiva per sostenere, governare e incentivare la progressiva evoluzione tecnologica, che altrimenti risulterebbe insopportabilmente alienante. Può servire, ha un senso in tutto questo anche il recupero e la frequentazione –nella vita e nella letteratura, come lettori e come scrittori del "mondo dialettale", cioè della nostra memoria individuale e collettiva? Credo proprio di sì. Né si vede come questo possa essere impedito a noi baresi o pugliesi o meridionali, perché non abbiamo avuto sinora la ventura di entrare nella tradizione letteraria. Il mondo non è finito. E gli intellettuali hanno sempre il tempo per fare la propria parte.

BEPPE LOPEZ