La Repubblica 13.05.2001

Andiamo cauti ad esaltare la ‘lingua' barese
SI È svolto nei giorni scorsi, nell'ambito del Dipartimento di Italianistica della nostra Università, un incontro con il giornalista e scrittore Beppe Lopez autore di "Capatosta", il romanzo edito da Mondadori che rievoca, in una forma letteraria che ricalca l'uso dialettale di Bari, la vita di un quartiere famoso per la sua aderenza alla tradizione popolare della città e per il degrado urbano di cui è divenuto ormai quasi un simbolo. Non varrebbe la pena di citare il luogo e la circostanza che hanno visto il libro, ancora una volta, al centro di una discussione su aspetti sociologici e letterari della storia che narra, se al di là di questa non fossero emersi ovviamente, di fronte ad una prosa dialettale scritta, interrogativi ben più gravi di quelli che potrebbe suscitare l'uso del dialetto nello spettacolo. La discussione su ‘La lingua e la città', con Raffaele Girardi e Franco Cassano, era del resto finalizzata a integrare con un esempio attuale l'articolazione didattica di un corso di perfezionamento della facoltà di Lettere su ‘Forme e generi della letteratura italiana'. segue a pagina xv con un intervento di beppe lopez La questione linguistica è stata fin troppo dibattuta nei decenni scorsi perché ci si possa soffermare sulla legittimità o meno da parte del dialetto di occupare uno spazio perfino nella scrittura, la quale sembrerebbe invero il luogo meno adatto ad accoglierlo. Da una parte l'impegno scientifico rivolto al recupero che fa del dialetto uno dei beni culturali da custodire e forse da rilanciare, dall'altra l'incremento enorme dei mezzi di comunicazione che permettono di esibirlo, e in certo qual modo di esaltarlo, nella sua specifica natura di oralità, concorrono a togliere alla lingua scritta secondo modelli nazionali e letterari la sua secolare egemonia. Ma come sarebbe anacronistico riproporre una graduatoria di valori che difenda il prestigio della forma letteraria in quanto tale, così sarebbe anacronistico proporre il dialetto come forma di rinnovamento linguistico e di realismo espressivo contro una presunta astrattezza, pallore o accademismo della lingua nazionale o di quella che ora generalmente viene definita lingua colta, distinta dalla semicolta o dalla lingua nativa delle regioni e dei paesi. "Capatosta" viene da un esperimento inedito e ardito di trasferire il dialetto barese in un testo di prosa narrativa, che rimane tale nonostante la prevalente imitazione della trama colloquiale, e quindi in una scrittura complessivamente diversa da quella dei ben noti e presumibili canovacci esistenti alla base di tante prove sceniche che utilizzano il vernacolo di questa città. Ma a parte i risultati, il consenso e il dissenso del pubblico che non sono materia di questo intervento, il libro offre certamente ­ specie dopo aver ascoltato l'autorel¹opportunità di qualche riflessione su problemi che riguardano il carattere espressivo della tradizione popolare in questo paese, e sugli equivoci che possono crearsi su scala più ampia per effetto della presunzione di disporre di un dialetto che possa funzionare alla pari di tutti i dialetti che hanno avuto la ventura di entrare nella tradizione letteraria nazionale. Il rischio è sempre quello di ricorrere a generalizzazioni o di considerare i fenomeni in una loro dimensione priva di storia. I dialetti ­ anch'essi come le lingue nazionalinon hanno qualità intrinseche (belli, brutti, duri, dolci, nobili, volgari), ma sono condizionati da una tradizione. E la tradizione consiste nel commercio che hanno avuto con la lingua letteraria, nella misura in cui per secoli vi hanno contribuito, nelle forme dell¹uso artistico che ne ha plasmato l'impiego pubblico o nella resistenza che ne ha salvaguardato la genuinità ma ne ha anche ridotto le capacità di diffusione. Quest'ultimo è il caso del barese, la cui immagine, mal imitata con cattivo gusto e stereotipata sulla bocca di estranei, suona quasi offensiva. D'altra parte l'uso di variare la lingua letteraria mediante l'inserimento o la contraffazione dialettale è antico, ha presieduto alla composizione di capolavori il cui meccanismo è stato certo presente in questo caso, e non può essere dimenticato nel momento in cui un dialetto come quello barese, che non ha alle spalle una tradizione letteraria ­ ma semmai qualche esempio di trasposizione canzonettistica o farsesca, o faceta ­, mutua un genere letterario fra i più complessi come quello narrativo. Ma appunto i modelli di questo meccanismo, ai quali vanno confrontati eventuali nuovi esperimenti, sono molteplici: l'adozione disinvolta di una lingua dialettale già largamente usata dalle persone colte che vestono panni popolani, come quella di Giambattista Basile a Napoli o di Carlo Goldoni a Venezia, di Trilussa a Roma; il maccheronico che mira ad effetti stranianti mediante l'incontroscontro tra i due poli opposti del latino e del volgare, o il bernesco che fa scontrare l¹aulico e il volgare; il prestito misurato del vocabolo dialettale in un testo di lingua o la citazione pura e semplice del vernacolo che interrompe il flusso della lingua sulla bocca di un particolare personaggio. In effetti ogni caso è una tipologia diversa, come nel recente siciliano, un'antica lingua letteraria, di Camilleri. Purtroppo lo studio dei dialetti si presta al dilettantismo di campanile, che fa prosperare la confezione di dizionari locali il più delle volte privi di fondamenti scientifici, soprattutto inquinati dalla falsa opinione che un dialetto sia caratterizzato dal lessico, dalle singole voci o tutt¹al più dalle locuzioni proverbiali, le une e le altre trattate spesso come semplici riduzioni fonetiche di parole estranee al dialetto locale o comunque appartenenti ad un¹area genericamente meridionale o perfino di tradizione italiana. L¹impiego farsesco, al massimo pateticocomico, al quale in definitiva si riduce soprattutto l¹uso del barese sulla scena teatrale o televisiva, ha finito con il ghettizzare ulteriormente un vernacolo già tradizionalmente destinato ad una funzione sociale minore. Non è un caso che le esibizioni più sopportabili non sono quelle in cui il linguaggio scende ai livelli triviali, dove domina la ripetizione del lazzo consueto che provoca il riso elementare, ma quelle in cui il dialetto, o l'atteggiamento popolaresco (per esempio il cinismo sistematico, il fraintendimento, il sospetto immotivato) aiuta la creatività più stravagante che si colloca in sostanza al fuori della dialettalità come tale. L'arricchimento dei registri del barese con un racconto che lo adotta per un registro prevalentemente melanconico e drammatico è certamente il fatto più importante dell'operazione di Lopez. Un dialetto diventa lingua solo quando dimostra di essere duttile e capace di servire ai registri più vari, e non costringe tutto ad un suo consueto registro. Ma, per far funzionare l¹esperienza storica, c¹è da chiedersi se non sia ormai troppo tardi, o se l¹operazione paghi solo quando appartiene al momento di espansione del ceto depositario del dialetto, del pubblico che lo adotta come sua lingua. Sarebbe un equivoco, per esempio, attribuire comunque al dialetto il prestigio del realismo solo perché se ne sono valsi preferibilmente la satira o il film bozzettistico, in quanto il dialetto non è di per sé una lingua più viva e immediata rispetto ad uno strumento di comunicazione fondato sulla tradizione letteraria, ma lo è soltanto se usato necessariamente, per efficacia artistica o documentaria.

Francesco Tateo