La Repubblica 01.04.2001
Assassinio sullo Stretto

Santi Cacopardo, un messinese sulle tracce di Camilleri "L'endiadi del dottor Agrò" è un giallo ambientato negli anni Sessanta che si è piazzato tra i libri più venduti

Ormai abbiamo fatto il callo agli omicidi passionali che infestano Vigata (Porto Empedocle per intenderci), raccontati così bene da quel marpione del giallo che è Andrea Camilleri. Come pure ci siamo affezionati ai «sani, buoni, misteriosi delitti» che incrinano l'apparente tranquillità della modernissima Palermo di Santo Piazzese. Però, in un'ipotetica geografia del recente giallo siciliano, fino a due anni fa la parte orientale dell'Isola non vi figurava affatto. Fino a quando il magistrato del Consiglio di Stato Domenico Cacopardo, originario di Letojanni, non ha pensato bene di scrivere il suo primo romanzo, Il caso Chillè. Perché neppure a Messina, «un posto di tutto riposo», si può stare tranquilli. Infatti, nei pressi del podere del cavaliere Chillè, alla Mosca si consuma il primo delitto: a restarci secco è il massaro Talio, raggiunto da un colpo di fucile. Poco tempo dopo un altro morto ammazzato: questa volta è il turno di Basilio, figliastro di don Liborio Lombardo, freddato a Gallodoro, un piccolo paese di montagna. La patata bollente delle indagini passa tra le mani del tenente Ruggeri e del maresciallo Capellaro, alle prese con storie di corna, infezioni veneree, corruzione politica e omertà. Tutto questo accade in una Messina del primo Novecento, superbamente rievocata, tanto da poter considerare il libro quasi un vivace affresco storico.
Ma da poco in libreria ha fatto la sua comparsa il secondo romanzo di Cacopardo, intitolato L'endiadi del dottor Agrò, sempre edito da Marsilio e che verrà presentato a Palermo a giugno. Il successo è assicurato, come per il primo giallo del resto: le vendite si moltiplicano e basta dare un'occhiata alle classifiche per capire che il fiato di Cacopardo è sul collo di Camilleri. Se poi diamo retta a Giovanni Pacchiano, che sul "Sole 24 ore" definisce l'autore de L'endiadi un «antiCamilleri», il caso editoriale è bello e servito.
Ma cosa ne pensa il diretto interessato? «Non considero assolutamente Camilleri come un antagonista; anzi, devo dire che alcuni suoi libri mi piacciono proprio. Penso che si tratti soltanto di una incisiva formula giornalistica, utilizzata per attrarre l'attenzione dei lettori». Anche se, leggendo le pagine che danno forma al giallo di Cacopardo, ci si accorge subito che il taglio linguistico da lui scelto si caratterizza per sobrietà, asciuttezza, ruvida levigatezza. Come dire che ci troviamo mille miglia lontani rispetto alle trovate linguistiche di Camilleri. «Può anche darsi - tiene a precisare l'autore - ma non si tratta di una scelta programmatica. Però è vero che ogni tanto sento il bisogno di sfrondare quello che scrivo, ripulirlo dagli eccessi e da certe sbavature dialettali».
Questa volta, col secondo romanzo, Cacopardo compie un salto temporale, facendo immergere il lettore in una storia che affonda le sue radici nella metà degli anni Sessanta, ma che estende le sue propaggini fino ai nostri giorni. Il primo malcapitato questa volta è un consigliere di Stato, tal Vincenzo Rovini, che ha l'hobby di raccontare nei romanzetti che lui stesso scrive storie di ordinaria corruzione realmente accadute. Ma finisce col dare fastidio a qualcuno e così, in un agguato, perderà la vita. La fidanzata non farà una fine migliore e allora sarà il dottor Agrò a far luce, grazie al manoscritto lasciato casualmente da Rovini.
Quanto mai veritiero, poi, lo spaccato del ceto impiegatizio offerto da Cacopardo, quel sottobosco tipicamente siciliano di burocrati che infesta il mondo dei ministeri. «E' tutta la Sicilia - spiega Cacopardo - in quanto terra di eccessi e contraddizioni, a prestarsi per una trama poliziesca. La nostra isola, non dimentichiamolo, è la patria di Riina e di Falcone: due facce diversissime di una stessa medaglia».
Ma per raccontare questa terra di idiosincrasie, a quali modelli di scrittura Cacopardo fa riferimento? Trattandosi di un giallista, verrebbe da pensare a Sciascia. «Non lo so se alla base della mia scrittura e di idea di letteratura ci sia Sciascia. D'altronde non lo considero nemmeno un giallista, anche se per me resta uno dei più grandi scrittori siciliani, con Vittorini e Capuana. Sì, Capuana, perché a me Verga non piace». Ma c'è da dire che leggendo L'endiadi del dottor Agrò, alla fine non si può fare a meno di pensare ad Andrea Camilleri, perché molti protagonisti di questa storia sono affetti da un'irrefrenabile ingordigia in cucina. Anzi, l'intera vicenda è accompagnata da una quasi surreale ossessione alimentare, grazie alla quale ghiottonerie, golosità, prelibatezze incastonano molte pagine. «Ho tentato un recupero memoriale, perché ormai quella Sicilia lì è stata spazzata via, non esiste più. Tutti quei dolci, le pietanze tipiche: si rischia di cancellare ogni cosa».
Il dottor Agrò lo troveremo coinvolto in un altro caso, che l'autore sta preparando: «Lo confesso - ammette Cacopardo - mi sono affezionato al personaggio».