L'INEDITO
«...quanno lo trovavano, il travaglio, potevano aviri la fortuna
di mangiare...»
di Andrea Camilleri
Pubblichiamo in anteprima l'incipit del nuovo romanzo di Andrea
Camilleri, Il re di Girgenti, che Sellerio manderà in libreria
il 12 ottobre.
Ora comu ora, i Zosimo se la passavano bona. Ma sidici anni avanti,
quanno erano di frisco maritati, Gisuè e Filònia la fame
nìvura avevano patito, quella che ti fa agliuttiri macari il fumo
di la lampa. Erano figli e niputi di giornatanti e giornatanti essi stessi,
braccianti agricoli stascionali che caminavano campagne campagne a la cerca
di travaglio a sicondo del tempo dei raccolti e quanno lo trovavano, il
travaglio, potevano aviri la fortuna di mangiare per qualiche simanata,
pre sempio una scanata di pane con la calatina, il companaticu ca poteva
essere un pezzo di cacio, una sarduzza salata, una caponatina di milanciani.
La notte, se si era di stati, dormivano a sireno, a celu stiddrato; se
si era di ‘nvernu, s ‘arrìparavano in quattro o cinco dintra a un
pagliaro e si quadiavano a vicenda con il sciato.
Una matina che la truppa stascionale, una trintina di pirsone tra màscoli,
fimmini, vecchi e picciliddri, si stava spostando dal feudo Trasatta al
feudo Tumminello, Gisuè e Filònia avevano intiso una voci
luntana luntana che s’avvicinava e s’allontanava per come il vento girava.
Pareva la voci di uno in punto di morti. Faciva: «Pi l’animi santi
di lu Priatòriu, salvatemi!Accorruomo! Aiuto, genti! In nomu di
Diu tiratemi fora di ccà!».
Gisuè disse a Filònia scantata assà da quella
voci lamentiosa ca le pareva di fantasima o d’un’arma addannata, di raggiungere
la truppa, che caminava avanti senza avere sentito nenti, e di non parlari
con nisciuno. S’avviò di corsa verso il loco da cui veniva la chiamatina
sempre cchiù dispirata. Arrivò sopra lo sbalanco del sciume
Pirrera che fiume era solamente quanno gli pareva e piaceva a lui,
per il resto dell’anno era una spaccatura, una cicatrice nella terra.
E s‘addunò che a mezza costa, una quinnidina di metri cchiù
sutta, c'era un omo ch'era arrinisciuto a fermare la sò caduta afferrandosi
a un cespuglio, una troffa di saggina, mentre che il cavaddro
era andato a spaccarsi l'ossa una trentina di metri ancora cchiù
in basso,supra le pietre ferrigne e i massi puntuti e bianchigni che facevano
lettu al fiume.Gisuè di prescia sciogliette la fanci affilata che
teneva attaccata alla vita,con essa a colpi violenti tagliò un
ramo d’arbolo d’aulivo, si fece un bastone resistente. Rimise la fanci
alla cinta, si levò il gilecco, lo gettò a terra e
principiò la scinnuta difficoltosa e perigliosa assà. Se
metteva un pedi a vacante, nisciuno doppo avrebbe saputo arriconoscere
la carne so cristiana da quella del cavaddro.
Ci mise una mezzorata bona per arrivare a paro dell’omo che con le
mano s‘artigliava alla troffa e appoggiava tutto il peso del corpo sulla
punta del pedi mancino che aveva inchiovato a una radice sporgente. Lo
sbintorato, doppo tanto vociare, pareva avere perso la parola. Taliava
il suo soccorritore con occhi d’agnidduzzo orfano. Era un riccone, vestito
di panno fino intrassuto d’oro, stivaloni di capretto che dovevano costare
quanto mai Gisuè avrebbe potuto guadagnari in tutta la porcazza
vita sò, grossi anelli d’oro e petri priziuse alle dita di tutt’e
due le mano, una catina d’oro massiccio al collo con una patacca sparluccicante
che gli posava sul petto. Madunnuzza biniditta!A Gisuè gli mancò
il sciato. Quello non era un omo di carne e sangue, ma una minera, una
trovatura che avrebbe assistimato per tutti gli anni che gli restavano
da campare la famiglia sò e i figli che ancora c’erano da fare!
Signuruzzu santu, chi fortuna ca gli stava capitando! Stava addiventando riccu!
«Salvatemi!» fece l’omo con un filu di voci.
«Sta minchia!» pinsò Gisuè.
Ma non disse nenti, stava ragionando, abbisognava tirarsi il paro e
lo sparo.
Qual era la migliori convinienza?
Ammazzarlo in loco forse sarebbe stato errore, non c’era lo spazio
necessevole per l’opira; capace che quello, al colpo di fanci, mollàva
la presa senza che lui avesse avuto modo d’agguantarlo a mezz’aria e andava
a catafottersi allato al cavaddro e capace macari che nella caduta si perdeva
la catina d’oro o si strazzava il vestito. E allura ti saluto, ricchizza!
Non c ‘era che da armarsi di forza e pacienza, portare l’omo a salvamento
e, appena fora dallo scalanco, scannarlo con un colpo di fanci. Però
Gisuè non sapeva da dove principiari...
Trascrizione a cura di Paola Rossi