Il Messaggero 04.08.2001
Pigri senza ritegno a un passo dagli dei

«I LIMONI sono il pallore di un’amante che ha trascorso la notte in lacrime per il dolore della lontananza». I versi di Abd Ar-Rahmàn, poeta arabo-siciliano, hanno ormai il potere di scatenare, fra chi scrive e Andrea Camilleri, l’argomento estate. Tutto cominciò due anni fa, nella Sicilia della calura, dove lo scrittore, di prima mattina, va a farsi riempire di granita di limone «un bel thermos grande con l’imboccatura larga, così il piacere dura per tutto il giorno». Si stava nel giardino della grande casa di campagna dove il padre del commissario Montalbano, ogni agosto, ritrova le tracce della sua giovinezza: «Qui mio nonno fece costruire persino una cappella, e teneva, in una delle cucine, una vecchia auto, una Scat senza ruote montata su cavalletti, dove io salivo e sognavo di diventare Nuvolari... Oppure, nella chiesetta, indossavo i paramenti del prete che veniva a dir Messa la domenica, e diventavo, come minimo, Papa». Estate siciliana. Canicola di fumi e profumi. La controra da consumare nel sonno, dopo il pasto di metà giornata, dietro i muri spessi della stanza più lontana dal sole. Pigro risveglio dei sensi, e graduale. Quel ritrovare poco a poco se stessi, quasi controvoglia, all’ombra del gelsomino d’Arabia, così stordente, o nel morso appioppato a un limone senza togliergli la buccia. Quel rammentare la bile, le scocciature, l’aver preso collera per chissaché, come cose lontane, dipanabili nell’indefinito poi che scivola dal tardo pomeriggio fin dentro la notte. Due le deroghe "vitali", cui consacrare tutta l’energia. La prima, davanti al mare, è l’orgia di ricci, fasolari, ostriche, datteri, occhi di bue e altre crude meraviglie da bagnare nel bianco dell’Etna, incuranti dell’artificio che spesso nasconde e conduce troppo in fretta all’ebberzza. La seconda è l’amore. La sua estate, Camilleri. Agosto nell’isola delle radici. Elogio dell’accidia? «Nobilmente sì. L’accidia, vizio capitale, è un’indolenza sistematica che i siciliani conoscono bene. Dopo i russi e il loro Oblomov, siamo noi, i siciliani, a sapere con esattezza cosa significhi, nel gran caldo, la voglia di non far nulla, la mancanza di gana, per dirla alla spagnola. Pensiamo, sull’argomento, ai Piaceri di Brancati, sublimazione letteraria di rara bellezza». Ci regala un pensiero dell’accidia estiva, uno di quelli che lei dipana, senza muovere muscolo, nel torpore dell’agosto siciliano? «Questa benedetta accidia è una questione fisiologica, una specie di saggezza biologica locale. Che non dovremmo coltivare, però, per più di un lasso di tempo determinato, coincidente con la massima calura. Invece, si sa, l’indole, le condizioni... Dunque, questa nostra accidia rallenta un po’ tutto, sul piano fisico. E’ una tregua. Ti difende. Ti garantisce che durerai nel tempo. Blocca il corpo e lascia viaggiare il cervello. Consegnandomi ad essa, d’estate, secondo tradizione, penso ai giovani manager - ne ho anche fra i miei parenti - che corrono a mille all’ora dalla mattina alla sera. Mi dico: a quarant’anni saranno da rottamare, così sempre al top, mai un momento di stasi. Terribile. Per loro». Durare nel tempo: ecco il privilegio. «C’è un animale che lo testimonia in Natura: l’iguana. Credo si chiami così quel lucertolone che ci arriva direttamente dalla preistoria, con la sua corazza, la sua cresta, la sua lentezza magistrale. L’iguana è divinamente pigro, perciò si è trasportato fino a noi. Dai suoi movimenti, dalla sua lentezza sistematica, io sono letteralmente affascinato». Il letargo estivo, in Sicilia, conosce eccezioni? «Certo. Non lasciatevi ingannare. L’osservatore esterno dovrebbe sapere che dal siciliano in letargo - se e quando esiste un obiettivo ragguardevole - esce all’improvviso una macchina da guerra, potente, capace di sintesi strabilianti, che va dritta e rapida alla meta». Tre caratteristiche dell’estate "lenta". «Innanzitutto, lo stato di quiescienza potenzia il gusto e l’olfatto in modo incredibile. Profumi, odori e sapori ti arrivano a zaffate intensissime, con forza assai maggiore che nel resto dell’anno. Sono anzi l’esca che ti attira verso la vita e te la fa riprendere... Un limone scalfito con l’unghia, alle due e mezza del pomeriggio, è meglio dei sali che una signora svenuta annusa per riaversi. Poi, il piacere delle due frescure, quella serale e quella delle prime luci dell’alba: te le godi, raccogli e chiarisci le idee. Infine, l’Eros, che si manifesta come durante una febbre alta: nella spossatezza è travolgente, acuto, lo avverti, direi, come mai capita in altro periodo». Un verso poetico per la sua estate. «Non è di un poeta siciliano: Meriggiare pallido e assorto (il poeta è Eugenio Montale, n.d.r.)». Una ricetta. «Il limone ghiacciato. Nella proporzione di uno-due-quattro. Si pigliano sette bicchieri uguali, se ne riempie uno di succo di limone spremuto a mano, due di zucchero e quattro d’acqua. Unire il tutto in un recipiente e ficcarlo nel freezer. La miscela diventa durissima. Allora la rompi, magari con uno scalpello, o un martellino, e te ne metti un pezzo in bocca: splendido. A volte ci restano dentro pure i semini, anche meglio. Non è la granita, certo. La granita siciliana, estrapolazione colta e inimitabile del limone, a lungo andare diventa un’assuefazione, e non ammette succedanei». Il vissuto principale della sua estate? «La compagnia umana. Ma scelta, eletta. E nei momenti opportuni. Cioè con grandi pause per la solitudine bilanciate dal tempo per il dialogo - parlato e muto - con una persona privilegiata. Nulla ripaga certi silenzi pieni, alle tre-quattro del pomeriggio, in piazza, o all’ombra di un muretto bianco, con accanto un amico, che esiste, certo, sta lì accanto a te, ma rimane zitto». Il complice migliore? «Se non c’è la persona adatta, un libro. Le ricordo, le mie letture estive di ragazzo, le più beate. Avvenivano sugli alberi del giardino della casona che dicevamo prima. Divoravo l’Intrepido, l’Avventuroso, questi album con i disegni meravigliosi di gente come Alex Raymond..., per poi passare, senza soluzione di continuità, ai romanzi d’avventura. Ora stazionavo sull’albero di pere, ora su quello di pesche, mangiavo senza accorgermene una quantità industriale di frutta. Poi stavo male di stomaco, Ma lassù, fra le pere e le pesche profumate, c’era un motivo per tutto».
RITA SALA