Il Messaggero 21/03/2001

Stagioni/ Miti, odori, colori, ricordi...
Andrea Camilleri saluta la fine dell’inverno e canta il tempo dell’innamoramento, degli sguardi al futuro, ”in cui ci si sente vivere”
«Primavera, un grido d’argento»

dal nostro inviato RITA SALA

Catania. ANDREA Camilleri rigira fra le mani di prima mattina, sotto il sole siciliano, ardito e trasparente, una copia del Ladro di merendine in neo-greco, da pochi giorni nelle librerie di Atene. «Elvira Sellerio me l’ha appena mandata. Mi emoziona, confesso». I caratteri di Omero, su carta spessa color avorio, risaltano di antica bellezza. La copertina è blu profondo, accanto al titolo spicca un grappolo di limoni. E lo scrittore, benché oppresso dalla correttura di bozze del suo romanzo più lungo, Il re di Girgenti, 510 pagine che leggeremo in aprile, accetta di parlare di primavera. Sarà la luce amica, saranno i colori della campagna, i fiori precoci, i profumi costringenti della stagione infinita. «Oggi, 21 marzo,...». Che non è l’inizio di una canzone datata.


Dalle 14.31 di ieri (l’equinozio è iniziato con qualche ora di anticipo) siamo di nuovo in primavera.
Scansione temporale, stagionale, biologica, rituale, liturgica, metaforica... Cosa sceglie, per cominciare?
«Scelgo la primavera emotivamente riproducibile degli attori, un’opera d’arte come quella del celebre saggio di Benjamin, ma priva d’epoca, ricreata dai sentimenti oltre che dalla tecnica. Mi hanno descritto l’intensità del mio amico Turi Ferro, la sera del debutto catanese della Cattura, il dramma che ho scritto per lui. La primavera degli artisti è bellissima: non collima quasi mai con la loro giovinezza, non corrisponde alle stagioni, eppure è forte, vera, dirompente. Il teatro, se ci stai con la fede, è un luogo di primavera a volontà».


Esiste un’immagine di primavera che ha fissato in lei il prototipo di questa stagione, tramite particolarissimo di una diversa condizione del corpo e dello spirito?
«Da ragazzo sono stato in un luogo sacro. Erano gli anni dell’immediato dopoguerra, mio padre finì ad Enna come direttore di un istituto regionale. Enna è altissima, il più alto capoluogo d’Italia. Naturalmente, allora non c’erano i riscaldamenti. Quando arrivai era pieno inverno, si soffriva un freddo maledetto. Passò qualche tempo. Con mio padre, cacciatore, andammo un giorno alla Rocca di Cerere, dove nell’antichità sorgeva la statua massima della dea, e proseguimmo per un altro posto lì vicino, il lago di Pergusa, un sito di mistero e di pianto.
Ora ci hanno costruito un circuito automobilistico, ma all’epoca il lago era davvero il catino delle lacrime sparse da Cerere quando le rapirono la figlia Proserpina. Colori foschi e marci, folaghe, canneti... qualcosa di negativo. E arrivò, all’improvviso, la primavera. Proserpina riemerse quel pomeriggio incantato, quando andai là con mio padre e mi fu regalata la coscienza di come si origina un mito. La Natura ebbe di colpo un cambio, Proserpina risorse dalle acque, dalle lacrime di sua madre, e sparse intorno i colori, i fiori, gli odori. Movimentò i sensi degli animali, diede volo impudente agli uccelli. Da allora io non ho memoria di altre date, o di stagioni. La mia primavera è quella».


Altri segni, in altra parte del mondo?
«La fioritura dei mandorli nella Valle dei Templi di Agrigento. Non voglio di più. Non esiste di più. E’ una manifestazione naturale in cui si coagulano le istanze collettive verso il soprannaturale».


Primavera è anche metafora nel cuore degli uomini?
«Diciamo che qualche cosa, ogni anno, succede. Succede alla Terra, agli Animali, agli Uomini, che del mondo animale fanno parte. Cambiano i ritmi del sangue, il respiro si slarga, comincia una certa, benevola considerazione del non far niente, ci si "sente vivere". E’ la stagione degli innamoramenti, che sono sguardi al futuro, progetti. E’ la stagione del Nuovo, l’idea del domani. Sulla primavera non si discute. Mentre ci attardiamo a dire "a me piace l’estate" o "io amo l’inverno", siamo tutti d’accordo che la primavera potrebbe durare per sempre».


Che colori dà, nello spirito e in natura, alla primavera?
«Non mi chieda il perché di uno dei due: il giallo e il verde. Non direi mai rosso, o blu. Forse perché il giallo e il verde traslocano direttamente nell’estate, la "mia" stagione, per esplodervi in piena libertà».


Come accorgersi, in città, dell’arrivo della primavera?
«Esiste una parola - piaceva a Pasolini, a me non piace - per definire quanto sia difficile, ormai, individuare la primavera in città. O meglio, la primavera di questa, quella o quell’altra città. La parola è omogeneizzazione.
Prima, arrivare in primavera, che so, a Catania, a Palermo, ad Agrigento, o altrove, non era la stessa cosa. La campagna rinnovata ti accompagnava gradualmente, in modo diverso nei diversi luoghi, fino alle porte dei grossi agglomerati urbani, spesso il profilo del paesaggio era un crinale dolce e distinto, casette basse in periferia che man mano diventavano gli alti palazzi del centro. Venendo da fuori, il colore della primavera ti portava alle soglie della città. E lì si arrestava, ma in modo non traumatico. Semplicemente, uno spazio si trasformava, quasi con rispetto, in un altro».


E i calendari, i lunari, i libri di consigli e di ricette, hanno ancora, in primavera, una valenza specifica?
«Il mangiare cambia, c’è l’approssimarsi della Pasqua, che cade sempre in primavera. Smettiamo le minestrine invernali, le carni in forno, arrivano le verdure, la frutta molto colorata, i sapori diventano ilari e leggeri, comanda la freschezza. Vedrà, in questo mio nuovo libro che sta per uscire - è un romanzo storico - a lungo io parlo delle stagioni in rapporto con il lavoro dei campi. Quante volte l’anno gli olivi si devono mondare e un’altra quantità di cose. Non è sapienza mia, né osservazione mia. E’ materiale rubato di sana pianta da un giornale, Il lunario siciliano, che due grandi, Francesco Lanza e Nino Savarese, facevano per i contadini. Firme letterarie strepitose per tanti argomenti, ma le pagine più affollate erano quelle in cui si parlava di semina, rimondaggio, innesti, coltivazioni, confetture... Nei numeri in cui entra la primavera, lo spazio non basta più, si scavalla da una pagina a un’altra e a un’altra ancora».


Politicamente, come leggere la primavera?
«La politica non conosce e non distingue le stagioni, non subisce la primavera, non ne viene influenzata. La politica è un monstrum a sé stante».


Il suo profumo di primavera?
«La zagara. L’acutezza del suo profumo ha l’equivalenza sonora di un grido, non di dolore o di spavento, ma il grido acuto, il grido d’argento di un bambino».


Dove più cercherebbe, nella sua terra, la primavera?
«Nelle campagne attorno a Tindari, o a Segesta, fra il tempio, il teatro, le distese di viti e di grano».


Un brano musicale e uno letterario per dire primavera.
«Il capolavoro di Mascagni, Cavalleria rusticana: Pasqua a Vizzini, l’esuberanza delle passioni nella Sicilia profonda. E i versi di Saffo, Alceo, Anacreonte, il loro vento che percuote, la loro luna, il loro mare increspato di schiuma, la loro passione. Mi impressionò molto, quando la lessi, la traduzione dei lirici greci fatta da Quasimodo. E da grande, essendo stato un buon studente di greco al liceo, trovai piacere nel ritradurre anch’io quegli inimitabili, purissimi frammenti».


Che primavera augura all’Italia?
«La più bella. Abbiamo vissuto un lunghissimo inverno e siamo riusciti, comunque, ad uscirne. Ora ci troviamo in una stagione di mezzo che - io credo - si avvicina alla primavera. Io sono invecchiato, e invece di diventare pessimista, mi ritrovo curiosamente ottimista. Quindi, una bellissima primavera abbia il nostro Paese. I presupposti sono stati costruiti in tanti anni. Vediamo allora di non rendere il terreno sassoso, arido, difficile, sennò verranno fuori stocchi d’erba qua e là, nient’altro di meglio. Insomma, dobbiamo essere di nuovo tutti zappatori, e in concordia. Questa è la vera Costituente».