La Stampa 17.09.2001
Il sale greco di Camilleri
FORTE DEI MARMI, INCONTRO CON LO SCRITTORE SICILIANO PREMIATO PER LA
SATIRA: «MI SONO DIVERTITO A PREVEDERE COSE CHE STANNO AVVENENDO
IN ITALIA»
Maurizio Assalto
DOPO il successo letterario, alquanto tardivo, la consacrazione inattesa
come autore satirico. Andrea Camilleri, il creatore del commissario Montalbano
e di altre gioiose macchine da guerra editoriale con cui ha occupato manu
militari le classifiche dei più venduti, ha ottenuto il premio Forte
dei Marmi per la satira politica, sezione letteratura, succedendo a autori
come Gino e Michele con le loro Formiche, ora membri della giuria che l’ha
prescelto. Un riconoscimento (puramente simbolico) che è venuto
a prendersi con entusiasmo, proprio mentre sta per uscire il più
impegnativo fra i suoi libri, Il re di Girgenti , un romanzone storico
di quasi 500 pagine che vedrà la luce da Sellerio a metà
ottobre, dopo un’interminabile serie di rinvii.
Camilleri satirico laureato, dunque: sorpreso?
«Sì, devo dire. Però poi ho saputo che il premio
in passato l’avevano dato anche a Sciascia, a Montanelli... La satira in
Italia è ignorata da molti critici, considerata un genere paraletterario.
Io che la mia satira la faccio nei gialli mi sento quasi un handicappato.
Con questo riconoscimento, almeno, entro a far parte di una categoria che
mi è sempre sembrata godere di una certa immunità. Anche
se adesso ho sentito dire da Freccero che è minacciato da una richiesta
di danni per 160 miliardi, per cui comincio a avere dei ripensamenti».
La motivazione del premio fa riferimento in particolare alle «favole»
e alle «lettere» pubblicate ogni settimana da MicroMega alla
vigilia delle ultime elezioni.
«In quelle favole e in quelle lettere dal futuro prossimo mi
divertivo a prevedere satiricamente e paradossalmente alcune cose che ora,
satiricamente e paradossalmente, stanno già avvenendo: la legge
sulla detassazione delle successioni e altre robine, tante altre ne verranno.
Erano scritti legati al contingente, un’estensione più esplicita
di quel ho sempre rappresentato, nel Birraio di Preston come nella Concessione
del telefono. In tutta la mia produzione aleggia una satira verso la burocrazia,
verso un certo genere di società».
Sciascia, il «suo» Sciascia, ha detto che la satira è
anche un modo di prendere le distanze dal mondo.
«È un’osservazione molto intelligente e molto giusta.
Concordo in pieno: il "sale greco" suo è anche il mio, siamo nati
a 30 chilometri di distanza. La satira, non tanto quella che fa ridere
ma quella che provoca il sorriso, serve a mettere una sorta di schermo,
allontanando, deformando una realtà che a volte è altrimenti
insopportabile. Le cito un’esperienza personale. Da giovane, subito dopo
la guerra, ero comunista di stretta osservanza: ebbene, se c’era una cosa
che mi faceva veramente ridere erano le vignette anticomuniste di Guareschi,
l’inventore dei "trinariciuti". Per me e per la mia generazione sono state
importantissime, una sorta di memento. O, alla napoletana, di statt’accuorto».
Però nel vecchio Pci la voglia di ridere non era proprio di
casa.
«No, bisogna ammettere che il cinismo dei democristiani portava
molto di più alla satira. Noi eravamo un partito ingessato, seriosissimo,
che la considerava una sorta di degenerazione borghese. Gillo Pontecorvo,
l’ha raccontato lui stesso, quando dirigeva Pattuglia, il giornale dei
giovani comunisti, si beccava le cazziate di Togliatti perché ogni
tanto osava mettere una vignetta in prima pagina».
Poco fa abbiamo citato Sciascia. Ma anche il suo concittadino Pirandello,
a cui un anno fa ha dedicato «La biografia del figlio cambiato»,
ha scritto pagine illuminanti nel saggio sull’Umorismo .
«L’umorismo come "sentimento del contrario": mi sembra la definizione
migliore».
Il sentimento che ribalta ogni realtà, anche la più apparentemente
consolidata, che ri-fluidifica il mondo delle forme irrigidite, che fa
vedere anche l’altra faccia, e poi tutte le contraddittorie sfaccettature:
qualche cosa di molto siculo, non è vero?.
«Allora dobbiamo tornare a Sciascia. Che alla fine di Consiglio
d’Egitto pone la domanda: come si fa a essere siciliani? Si fa, si fa:
mettendo umorismo nella vita, con l’uso anche beffardo, anche crudele della
ragione. Contraddicendo. Sciascia avrebbe voluto che sulla sua lapide scrivessero:
"contraddisse e si contraddisse". Sì, tutta la sicilitudine può
essere vista sub specie dell’umorismo. È un sentimento che c’è.
Con aspetti positivi e altri negativi. Sono positivi il senso del relativo
e la vena autocritica. Ma questa stessa tendenza, portata all’estremo,
diventa un male. C’è un umorismo terribile nel detto cu nesci
arrinesci: chi esce, chi supera lo Stretto, è sicuro che si
afferma; ma questo implica pure che chi rimane non può riuscire,
un punto di vista assolutamente negativo, ingiusto e neanche vero. L’eccesso
di autocritica porta al fatalismo, e quindi all’isolazionismo: munnu
è e munnu sarà, il mondo c’è sempre stato e sempre
sarà così, per cui il movimento è inutile, ogni cambiamento
vano. Non è strano che la Sicilia, una terra circondata dal mare,
ispiri i suoi proverbi quasi tutti alla montagna? Vuol dire che lo sguardo
è rivolto verso l’interno, non verso l’esterno».
Dalla Sicilia all’Italia: come vede il ruolo della satira oggi?
«Quando non si limita a quanti capelli ha in testa Berlusconi,
o ai baffetti di D’Alema, ha una funzione molto importante. Bucchi, Altan:
se Dio vuole esistono. Anche di Forattini mi è rimasta impressa
qualche vignetta. È la stessa funzione degli intellettuali (parola
che detesto: chiedo perdono): esercitare la critica, non solo verso il
potere ma verso tutte le sue emanazioni. Non parlo dell’impegno sartriano,
ma della posizione dialettica che tutti dobbiamo assumere verso il nostro
tempo, come ha fatto Aristofane, come hanno fatto Plauto e Molière.
Che sia un disegno o un libro di filosofia o di politica o un romanzo:
l’importante è collocarsi in una posizione di "osservazione" della
realtà. Questo naturalmente non significa essere i detentori della
verità, si possono commettere molti errori, ma errori generosi,
molto meglio del rinchiudersi nella torre d’avorio, che è atto di
suprema avarizia».
Quali sono le condizioni per una buona satira?
«La libertà, naturalmente. E poi ci deve essere un bell’avversario».
Adesso in Italia c’è?
«Direi proprio di no. La satira deve snidare, qui è tutto
così esplicito».
Chi ci sta ci sta...
«Appunto, c’è poco da fare».
Però lei in campagna elettorale si è speso.
«Ci ho provato: l’ho ritenuto mio dovere».